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Tag: mainstream

Palestine Papers, un anno dall’operazione tempesta di Al Aqsa

L’Indipendente ha pubblicato un dettagliato libro sulla storia del conflitto israelo-palestinese, del movimento sionista e le sue ambizioni sulle lotte anticolonialiste che sono sfociate nell’attacco del 7 ottobre 2023 provocando la sproporzionata reazione di Israele, che ha portato il governo di Netanyahu ad essere accusato davanti alla corte internazionale di giustizia dell’Aja del peggiore dei crimini contro l’umanità: genocidio. Con il direttore Andrea Legni ripercorriamo questa storia, analizziamo le attuali specificità del conflitto e il modo in cui viene approcciato dalla stampa mainstream italiana.

Propaganda italiana nel panico – L’esilarante reazione all’allarme di Draghi sull’economia europea

Repubblica: L’Ue rischia l’agonia; Il Domani: Senza cambi radicali l’Ue morirà. Una sfida esistenziale, rilancia il Corriere: a leggere i giornali, sembrava quasi che con un inaspettato colpo di Stato mediatico le bimbe di Putin e dei regimi totalitari si fossero impossessate di tutta la propaganda mainstream del nostro Paese; a oltre 2 anni e mezzo dall’inizio della guerra per procura degli USA in Ucraina, SanMarioPio da Goldman Sachs, l’ex governatore della BCE considerato da tutte le élite europee in assoluto il politecnico più autorevole in circolazione, è stato costretto a smentire brutalmente la fantasiosa narrazione suprematista che i media hanno cercato di imporci in ogni modo. Ha dovuto ammettere che, invece che il sanguinario regime di Putin, le sanzioni e la dittatura del dollaro hanno finito di radere al suolo l’economia della democratica e liberale Unione europea; e che la demolizione era partita prima, perlomeno dallo scoppio della grande crisi finanziaria scatenata dalle oligarchie USA – e pagata da noi. E che, per contrastarla, il suo whatever it takes, arrivato fuori tempo massimo dopo aver imposto un golpe all’Italia e una guerra civile mascherata alla Grecia (e che gli analfoliberali citano continuamente come prova provata della santità di MarioPio che ha fatto il miracolo ed ha salvato l’Europa), in realtà all’economia europea gli ha fatto – come si dice con un francesismo dalle mie parti – come il cazzo alle vecchie. A differenza dei pennivendoli che vivono nel culto della sua personalità e che sono talmente limitati cognitivamente che, alla lunga, finiscono sempre per credere alle vaccate che scrivono per potersi permettere di continuare a evitare di fare un lavoro vero, SanMarioPio è abbastanza lucido da comprendere che la guerra economica degli USA contro l’Europa è devastante e che, per porvi rimedio, servirebbe come minimo non un nuovo Piano Marshall, ma tre; non so se è chiaro: servono tre volte le risorse che sono servite per superare le conseguenze della seconda guerra mondiale, cioè il più grande e sanguinoso conflitto armato della storia.
Per fortuna, per la propaganda purtroppo, però, la lucidità di SanMarioPio si esaurisce qui; nonostante abbia in mano tutti i numeri che certificano, senza tema di smentita, che il suo whatever it takes di oltre 10 anni fa per salvare i debiti sovrani dei paesi europei, alla fine, non ha aiutato minimamente l’economia europea ad arrestare il declino (perché invece di rilanciare il ruolo dello Stato come pianificatore dell’economia produttiva ha rafforzato quello delle oligarchie private parassitarie che l’economia produttiva la dissanguano), anche a questo giro ripropone la stessa identica ricetta: il pubblico deve sì mobilitare nuove risorse, ma solo per consegnarle a quelle stesse identiche oligarchie (insieme ai risparmi di tutti i cittadini europei), e a ricostruire l’Europa ci penseranno loro, che non sono oligarchi perché hanno derubato sistematicamente tutti gli altri, ma perché sono il meglio della nostra società e se lo meritano. Intanto, comunque, per oggi godiamoci questa giornata storica: quando, finalmente, i pennivendoli europei furono costretti a prendere atto delle conseguenze catastrofiche della guerra che era stata dichiarata contro di loro da quelli che credevano essere i loro amici più fidati e premurosi. Ma prima di addentrarci in questa ennesima commedia all’italiana, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci, anche oggi, di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi al servizio della propaganda e, se ancora non lo avete fatto (e di sicuro tra voi c’è qualcuno che non lo ha ancora fatto), di iscrivervi anche a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi richiede meno tempo di quanto non richieda al titolista de La Repubblichina riscoprirsi putiniano non appena SanMarioPio glielo impone, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a dare informazioni sensate anche quando, tutto attorno, la chiamano propaganda putinista e ci inseriscono nelle liste di proscrizione.

Mario Draghi con bazooka

Il piano Draghi, scossa all’Europa; Cambiamenti radicali: è una sfida esistenziale. Questa nostra carrellata sulle epiche figure di merda che ha raccattato ieri la propaganda suprematista e guerrafondaia de noantri non poteva che partire dal Corriere della Serva, dove il culto di SanMarioPio è da sempre la vera religione civile che tiene insieme la redazione: “Il rapporto” scrive Lucrezia Reichlin nell’editoriale “è un grido di allarme per scuotere la leadership europea dalla sua paralisi”; “un invito, competente e accorato, a guardare in faccia la realtà di un modello sociale che rischia di non essere più sostenibile, se non facciamo, tutti insieme, scelte coraggiose” rilancia dalle pagine de La Stampa il turborenziano Tommaso Nannicini. D’altronde, lui di scelte coraggiose se ne intende, soprattutto se a pagarle poi sono gli altri; come nel caso del Jobs Act, che ha contribuito a formulare di persona personalmente in veste di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in uno dei governi più odiati degli ultimi 40 anni. Da allora pure a lui, come al suo mentore, in termini di popolarità non è andata proprio benissimo, tant’è che nel 2022, pur di non votarlo, gli elettori nel suo collegio della rossa Toscana hanno votato una forzitaliota che, fino ad allora, aveva perso sistematicamente a tutte le elezioni dove s’era presentata. Insomma: l’editorialista perfetto per La Stampa, soprattutto quando si tratta di commentare il ritorno del messia SanMarioPio e di chiedere – appunto – altre scelte coraggiose, comprese quelle che Draghi nel rapporto “non può esplicitare fino in fondo per non travalicare i limiti del proprio mandato”. Nannicini ha le idee chiare: per questo progetto ambizioso “servono soldi” – anche pubblici – e questi soldi pubblici non si possono mobilitare “senza un’unione fiscale capace di emettere debito comune”. E non c’è unione fiscale europea senza “integrazione politica”: “Risorse comuni” sottolinea Nannicini “richiedono un ministro europeo dell’economia”. Insomma: “Se le raccomandazioni del rapporto vedranno la luce” è perché ci sarà stato qualche passo avanti significativo verso “una vera unione politica”; “E’ impensabile” sottolinea “fare lo sforzo titanico che il rapporto Draghi ci invita a fare, per poi vederlo saltare in aria per un’elezione francese, un veto ungherese o una sentenza della Corte costituzionale tedesca”. Ma attenzione, sottolinea Nannicini: “Non si tratta di cedere sovranità, come troppe volte abbiamo detto. Ma di costruire una nuova sovranità su problemi che non avranno soluzione se non a livello europeo. Con chi ci sta, anche arrivando a uno sdoppiamento istituzionale tra chi si accontenta del mercato unico e chi ambisce a qualcosa di più. E riducendo l’invasività della legislazione europea in settori dove gli Stati nazionali possono far da soli. Il rapporto Draghi” conclude “ci spiega perché questa scelta non è più rinviabile. Ma non è una scelta di politica economica. È una scelta politica. Cari europei e care europee, sveglia. Riprendiamoci il controllo”.
Insomma: come titola il suo editoriale Andrea Bonanni su La Repubblichina, per le bimbe di SanMarioPio O si fa l’Europa, o si muore. Per giustificare il rilancio fuori tempo massimo della stessa identica retorica +europeista con cui ci sfrucugliano le gonadi da 30 anni e perculare con stile i matusa che erano iscritti al PCI negli anni ‘70 (e ora lo ricercano affannosamente tra le pagine del giornale degli Agnelli), Andrea Bonanni tira fuori dal cappello addirittura Antonio Gramsci che “come Mario Draghi era un ottimista”, ma che ci aveva anche messo in allarme. Solo che per riconoscere che aveva ragione, poi, ci abbiamo impiegato 25 anni; ora speriamo che col nuovo Gramsci della finanza internazionale ci “vada un po’ meglio, e non si debba aspettare il 2050 per scoprire che aveva ragione”. D’altronde, quando hai sdoganato l’idea che puoi chiamare partigiani dei suprematisti ariani con le svastiche tatuate a tutta schiena, azzardare un parallelo Gramsci – Draghi è il male minore: con il suo rapporto, che “potrebbe essere il Manifesto della Nuova Europa”, Mario Draghi – azzarda Bonanni – indica “i radicali cambiamenti strutturali, economici, gestionali e politici che sarebbero necessari per riportare la Ue ad essere competitiva, a creare ricchezza e, garantendo il benessere dei suoi cittadini, a ritrovare il consenso che sta rapidamente perdendo attorno ai suoi valori fondanti: democrazia, libertà, coesione sociale”. In particolare – azzarderei – la coesione sociale che, in effetti, è il cuore pulsante di Maasstricht e delle istituzioni europee (un po’ come la devozione al sacro cuore di Gesù è il cuore pulsante di OnlyFans). Leggendo l’editoriale di Bonanni, comunque, mi è venuto un dubbio: non è che è un altro Bonanni? Perché, a leggere l’editoriale, non si direbbe di essere di fronte a una firma storica della Repubblichina che ha sostenuto tutti i governi di centrosinistra e di larghe intese degli ultimi 20 anni in Italia e in Europa, gli stessi contro i quali (inspiegabilmente) nell’editoriale spende parole al vetriolo; Bonanni parla infatti di “come i nostri governi nazionali abbiano sprecato gli ultimi vent’anni accumulando miopie, indecisioni, procrastinazioni e ritardi” e si chiede “dov’erano e cosa facevano le nostre classi dirigenti mentre il mondo cambiava e ci voltava le spalle, senza che neppure ce ne accorgessimo, persi nella contemplazione del nostro ombelico”. Caro Andrea, te lo dico io dove erano: a leggere la monnezza di giornale dove scrivi te; ecco dov’erano – e dove potevano imparare tante cose sulle sorti magnifiche e progressive della terza via di Blair e Clinton, della finanziarizzazione come strada maestra alla democrazia degli azionisti, delle bombe umanitarie necessarie per salvare le democrazie dall’assedio dei regimi totalitari, del mercato unico europeo e dell’austerità espansiva. Tutti nodi che La Repubblichina si guarda bene, ancora oggi, dal mettere in discussione per individuare un altro nodo cruciale: “Ma davvero possiamo pensare che il rapporto Draghi possa essere realizzato senza Draghi? Con questa commissione?” scrive Claudio Tito; il problema per i repubblichini sta tutto qua, da diversi anni. Solo SanMarioPio investito dei pieni poteri può risolvere i guai di questa Europa troppo democratica, dove anche dei populisti qualsiasi possono dire la loro. “Per assegnarli un ruolo operativo” da dove poter esercitare i suoi superpoteri magici, Claudio Tito arriva addirittura a proporre di “modificare i trattati”; d’altronde, effettivamente, il culto neoliberista degli analfoliberali per diventare, a tutti gli effetti, una vera e propria religione mancava ancora una padre creatore infallibile da venerare. E chi meglio di lui?
Il premio Bella addormentata nel bosco, comunque, anche a questo giro non può che andare al giornale più amato dai troll analfoliberali italiani: Il Foglio, negli ultimi due anni, non ha passato manco un giorno senza sottolineare come nell’Occidente collettivo tutto stesse andando per il meglio, alla faccia dei gufi e degli utili idioti della propaganda putinista. Giusto qualche esempio random. 15 gennaio: Perché le statistiche disfattiste sull’economia europea sono sbagliate; “Rispetto agli Stati Uniti” sottolinea l’articolo “le prospettive economiche dell’Europa non sono preoccupanti”. 29 agosto (giusto pochi giorni fa): L’economia americana va fortissimo. Ed è un bene anche per noi; “In UE, malgrado instabilità politica e tensioni internazionali” sottolinea l’articolo “il clima è positivo e le aspettative molto buone” . Anche nello specifico in Italia – da quando, dopo le elezioni, hanno scoperto che la Meloni era sì post fascista, ma comunque fedelissima di Washington – hanno cominciato a vedere tutto rosa. 18 marzo: L’Italia che non ti aspetti e che a dispetto di tutti, cresce; “E’ uscita a razzo dalla pandemia” elenca l’articolo “è cresciuta più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi. Ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7, e batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del PIL pro capite. Fatti e numeri” conclude “che smentiscono l’eterna lagna nazionale”. E ancora, 2 luglio: La sorprendente economia italiana. Da ieri, però, la narrazione non è semplicemente cambiata; si è capovolta: “La pacchia è finita, cari europeisti”, scrivono. “Ciò che colpisce nel rapporto è il numero impressionante di ceffoni mollati a destra e a sinistra dall’ex governatore”, che “senza girarci attorno, senza eufemismi, senza mezze parole, dice che siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente, e la nostra libertà”; “Non c’è futuro per l’Europa” continua l’editoriale “senza fare i conti con il dramma della produttività europea, con il suo deficit, e con le ragioni per cui dal 2000 a oggi negli Stati Uniti il reddito disponibile pro capite è cresciuto quasi del doppio rispetto a noi” (tra le quali, azzarderei, un ruolo seppur marginale ce l’ha anche il fatto che ancora oggi si vedono pezzi di élite italiana col Foglio sottobraccio, e non è per farsi qualche risata). “La nuova agenda Draghi” continua senza il minimo senso del pudore l’articolo “è un bazooka puntato contro i populisti di destra e di sinistra” e contro “i problemi dell’Europa”, che però sono anche i “problemi dell’Italia: bassa produttività uguale bassi salari. Bassa innovazione uguale bassa competitività”; “un bazooka” concludono che “ci dice con chiarezza che la pacchia è davvero finita”. Sfortunatamente, però, non per il Foglio, dove vige la pacchia infinita e che, dalla sua fondazione, ha ricevuto una settantina di milioni di contributi pubblici nonostante venda meno copie della rivista della parrocchia che c’ho qui sotto casa (al punto che è stato proprio escluso dalle statistiche mensili sulla diffusione dei quotidiani dell’ADS).
A parte bullizzare i simpatici e iper-incompetenti amici del Foglio, comunque, il punto è che questo benedetto bazooka di Draghi, come abbiamo detto, costa una fraccata di soldi: il Corriere ricorda come per finanziare tutto questo trondiddio di roba, oltre a mobilitare i risparmi dei cittadini per metterli in tasca alle oligarchie “saranno necessari finanziamenti comuni”, in particolare sotto la forma di common safe assets e, cioè, eurobond emessi a fronte di scopi ben definiti: innovazione tecnologica, infrastrutture transfrontaliere e, soprattutto, difesa; ma, come sottolinea anche Il Domani, questa potrebbe essere una “chimera”. La Von Der Leyen, che il rapporto l’ha commissionato nella speranza che potesse dare una qualche forma di legittimità al suo mandato – nonostante, se si andasse alle urne, di per se prenderebbe meno voti di Matteo Renzi e Carlo Calenda – “è stata più cauta” ricorda il Corriere, ed ha affermato che “per tali progetti europei comuni, bisogna verificare la volontà politica”, che sembra lontana. Lo ha ribadito immediatamente il falco dell’austerity e del turboliberismo tedesco Christian Lindner, un altro apprezzatissimo capopopolo: alle europee ha dimezzato i voti del 2021 e alle regionali ha superato di poco l’1%; l’1%, come la classe che difende e che gli permette di continuare ad essere alla ribalta anche se perderebbe anche le elezioni condominiali, esattamente come Matteo Renzi o un qualsiasi giornalista del Foglio. “Con il debito comune dell’Ue non risolveremo nessun problema strutturale” ha commentato subito sul suo profilo Twitter: “Le sovvenzioni non mancano alle imprese”. Il vero problema piuttosto, conclude sfoggiando con nonchalance il suo essere talebano, “sono i vincoli della burocrazia e dell’economia pianificata”. D’altronde, come sottolinea giustamente la sempre ottima Daniela Gabor sempre su Twitter, “La Germania sta attivamente infliggendo una shock therapy del carbonio alle proprie industrie: perché dovrebbe preoccuparsi della competitività europea?”, dove con shock therapy del carbonio, specifica più avanti la Gabor, bisogna intendere il rifiuto da parte dello Stato di proteggere le aziende locali dall’impatto dello shock esterno dovuto alla transizione ecologica lasciata in mano al mercato, il tutto ammantato di una retorica che chiama disciplina di mercato la solita cara, vecchia deindustrializzazione.
Purtroppo però, come ricorda anche Lucrezia Reichlin sul Corriere, “è chiaro che senza questa mobilitazione di risorse comuni, le politiche proposte non hanno gambe. Ma è difficile pensare che in questa situazione di incertezza politica, questo grido di allarme porti ad una qualche discontinuità su un tema così controverso”: il massimo che si può realisticamente puntare a ottenere, continua la Reichlin, sono “accordi tra nazioni su priorità specifiche” e, magari, “negoziare per spostare la data della restituzione dei prestiti del New Generation Eu”. Insomma: rispetto alla necessità di mettere in campo tre Piani Marshall, briciole rinsecchite; ma “se l’Europa è di fronte a un momento esistenziale che richiede una forte discontinuità, ma questo messaggio non viene recepito” si chiede ancora la Reichlin “dobbiamo aspettarci un forte ridimensionamento sia politico che economico dell’Europa?” o “Saranno le nostre democrazie nazionali sufficientemente vitali e creative per fermare il declino ed esprimere una leadership europea più forte e riformatrice?”. Che tenerezza questi intellettualoni di buona famiglia borghese cattocomunista che non smettono mai di sperare nelle magnifiche sorti e progressive delle democrazie liberali, anche quando sono nel bel mezzo della terza guerra mondiale… Purtroppo, invece, il compromesso realistico a cui andiamo incontro è sempre la solita minestra riscaldata: secondo La Stampa, l’idea di Draghi sarebbe – molto banalmente – barattare con i paesi frugali qualche quota di obbligazioni comuni, “ma in cambio i paesi del Sud ridurranno il debito”; vi suona mica familiare? E’ nient’altro che la riproposizione (un po’ mascherata) del patto che sta alla base della creazione del mercato unico: l’unico modo che l’Europa ha per non sparire del tutto è la creazione di campioni nazionali, ma siccome questi campioni nazionali li deve creare il mercato e non il pubblico – perché la religione degli analfoliberali lo vieta – l’unica possibilità è facilitare e accelerare il naturale funzionamento dell’economia di mercato che, in soldoni, consiste nel fatto che i soldi vanno sempre e solo dove ci sono già più soldi. La riduzione forzata del debito dei paesi periferici come l’Italia non è altro che il meccanismo adottato dall’Ue ordoliberista sin dal principio per accelerare la concentrazione dei capitali nei paesi più avanzati e desertificare la periferia; insomma: un’altra bella dose di quell’ordoliberismo che, nei 15 anni che ci separano dalla grande crisi finanziaria, ha portato l’Europa nel suo complesso – e i paesi periferici e con alto debito pubblico, come l’Italia, in particolare – a un rapido e inarrestabile declino economico in cambio di una nuova quantità di debito comune assolutamente insufficiente anche per far risalire le graduatorie internazionali a eventuali campioni continentali.
Fortunatamente per Draghi, le classi dirigenti dei Paesi periferici dell’Europa sono così sprovvedute e succubi che, comunque, si sono già messe al lavoro; e l’Italia, anche a questo giro, ci tiene a farsi notare come una delle più disposte al suicidio, come avviene immancabilmente da oltre 30 anni durante i quali, sulla pelle dei nostri lavoratori (che sono gli unici del vecchio continente ad avere salari inferiori a 30 anni fa), siamo stati di gran lunga i più ligi e virtuosi di tutti. La formula individuata dal governo Meloni è sempre la stessa, che da Amato in poi ci ha visto svendere pure i parenti: una bella ondata di privatizzazioni completamente irrazionale. Il caso più eclatante è quello di Poste, che siccome sta sfornando utili a non finire (a riprova che la tesi che il privato è più efficiente è oggettivamente una bufala), una volta venduta, invece che diminuire, il debito aumenterà; ma il piatto forte che è arrivato sul tavolo ultimamente – e che prima del ritorno di SanMarioPio stava infiammando il dibattito – sono le Ferrovie. L’Italia ha di fronte due modelli: da una parte quello cinese, dove è tutto in mano ad aziende a controllo diretto dello Stato che, in pochi anni, hanno costruito la rete ad alta velocità di gran lunga più grande ed efficiente del pianeta e che, sua volta, ha alimentato un indotto gigantesco che crea centinaia e centinaia di migliaia di posti di lavoro solidi e sostenibili nel manifatturiero; dall’altro quello inglese, dove le privatizzazioni sono state un fallimento talmente colossale da tutti i punti di vista che anche un turboliberista e ultrà sionista a libro paga delle oligarchie come l’attuale premier laburista Keir Starmer le sta rimettendo in discussione. Indovinate quale preferisce il nostro governo?
L’Europa, la sua classe dirigente e la sua macchina propagandistica sono dispositivi del dominio neocoloniale statunitense che, da quando ha dovuto iniziare a lottare contro le potenze emergenti del Sud globale, per mantenere la sua fetta di torta – molto banalmente – ha cominciato a fregarcela a noi; pensare che a permetterci di riprenderci la nostra parte possa essere una delle fazioni della classe dirigente che, fino ad oggi, ci ha svenduto così allegramente, è ovviamente del tutto velleitario: l’unica possibilità che abbiamo è mandarli tutti a casina, senza troppe distinzioni. Per farlo, alla loro macchina propagandistica dobbiamo contrapporre un nostro vero e proprio media, che dia voce agli interessi concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

Ma è proprio vero che il raid di Hezbollah è stato un fallimento?

La Stampa: “Israele stoppa Hezbollah”; “distrutte centinaia di postazioni missilistiche”, “così l’IDF ha sventato la mossa di Nasrallah”. “Tel Aviv schiaccia l’arsenale di Nasrallah” rilancia Il Giornanale, che tramite la penna di Fiamma tricolore Nirenstein parla di “risveglio dal letargo”: “Dov’è l’aviazione? Questa fu la tragica domanda che tutta Israele si è posta il 7 ottobre” scrive la turbosionista più inviperita del giornalismo italiano, una domanda che – esulta – “ieri non ci siamo dovuti ripetere”. Per Gian Micalessinofobia s’è trattato di “un altro umiliante fallimento che impone ad Hezbollah e ai suoi alleati di abbassare le orecchie per evitare batoste peggiori”. Insomma, la propaganda occidentale a sostegno di apartheid e genocidio non ha dubbi: anche domenica mattina Israele ha dimostrato, in modo plateale, la sua superiorità nei confronti dei beduini col turbante e, come accade da due anni a questa parte anche in Ucraina, è talmente civile e progredita che anche nel bel mezzo di una guerra, i comunicati ufficiali delle sue forze armate non sono mera propaganda, ma pura e semplice verità e quindi basta ripubblicarli, cambiando qualche parola qua e là, ed ecco che l’articolo è confezionato. Potrebbe non essere esattamente il modo migliore per provare a cercare di capire qualcosa, diciamo; ora, siccome ovviamente – come nessuno dei pennivendoli a libro paga della propaganda filosionista – nemmeno noi abbiamo gli strumenti per capire in modo indipendente cosa sia successo esattamente tra sionisti ed Hezbollah domenica mattina, oggi abbiamo deciso di limitarci a offrire un servizio molto semplice: vi proviamo a illustrare il punto di vista della controparte che, diciamo, dovrebbe essere un po’ l’ABC dell’informazione. Ovviamente, essendo la controparte anch’essa coinvolta in una guerra, anche il suo punto di vista va interpretato come propaganda esattamente come quella imperialista fasciosionista e quindi va presa con le molle; però ecco, visto che parliamo di un genocidio, forse bilanciare le dichiarazioni dell’occupante criminale con quelle di chi gli resiste potrebbe aiutarci ad avere un’idea un minimo più attinente alla realtà. Ma prima di compiere questa operazione eretica di farvi sentire anche la campana di chi osa opporsi allo sterminio, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere anche oggi la nostra piccola battaglia contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa solo pochi secondi del vostro tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di impedire che le uniche voci in circolazione siano quelle delle Fiamme tricolori Nirenstein e dei Micalessinofobia del momento.

Hassan Nasrallah

Un primo leggerissimo sospetto che, nel descrivere le operazioni di domenica mattina, le fonti delle forze armate israeliane e la propaganda fasciosionista de noantri stessero sparando una quantità considerevole di minchiate m’è venuto quando è cominciata a circolare la prima stima del numero di missili di Hezbollah abbattuti nell’attacco preventivo di Tel Aviv: “Israele distrugge 6000 missili di Hezbollah” riportava la grafica impressa in bella mostra su Rainews24. Minchia, 6000 missili sono un po’ tantini ho pensato; cioè, quando in aprile Teheran lanciò l’operazione True promise, i missili coinvolti erano 150 e non s’è parlato di altro per giorni. 6000 missili vuol dire che ti stai preparando a una guerra vera e se Tel Aviv viene a sapere che Hezbollah sta iniziando una guerra vera, ho come l’impressione che non reagirebbe in punta di fioretto, ecco. Mi aspettavo quindi di sentir parlare di decine e decine di vittime civili; insomma, una cosa grossa. Macché: si parlava sì di 100 caccia israeliani entrati in azione, ma che alla fine avevano causato 6 vittime civili (che poi sono diventate 3), cioè meno di quante un israeliano medio di sani principi mieta nell’arco di una giornata solo perché magari i falafel che gli servi sono troppo unti o la schiuma del cappuccino è montata male. Mi sembrava una contraddizione così evidente, eppure – per quello che ho potuto sentire – a nessuno gli veniva il sospetto, manco 24 ore dopo sui giornali, dopo che hanno avuto un intera giornata per rimuginarci sopra: così hanno detto due criminali di guerra come Bibi Netanyahu e Yoav Gallant e così è. Punto.
Per non sentirmi l’unico scemo che si fa venire in mente strane idee, come spesso accade, son dovuto andare a leggermi direttamente un po’ di giornali locali – e non quelli filo palestinesi, eh? Quelli ultra-sionisti, come il Jerusalem Post, l’organo ufficiale della destra ultra-liberista e colonialista che però, siccome sa di essere in guerra e che per vincere una guerra raccontarsi le favolette non basta, ogni tanto è costretta a squarciare il velo della propaganda per babbioni creduloni; a questo giro lo fa per bocca di Tamir Hayman, che è nientepopodimeno che l’ex capo della direzione intelligence delle forze armate israeliane, che arriva alle mie stesse banali conclusioni: “Se davvero Hezbollah avesse pianificato di lanciare 6000 missili, in parte anche verso il centro di Israele, come indicano i rapporti ufficiali” avrebbe dichiarato Hayman “allora Beirut in questo momento sarebbe a fuoco e fiamme”. In realtà invece, non solo Beirut non era avvolta dalle fiamme, ma la gente era comodamente al mare e non solo a Beirut, ma anche molto più a sud, a pochi chilometri dal confine, come documenta questa foto postata sul profilo Twitter di War Monitor; “Sionisti: la gente nel sud del Libano è terrorizzata” scrive sarcasticamente nel commento. Nel frattempo, in Israele veniva dichiarato lo stato di emergenza per 48 ore, venivano bloccati i voli dall’aeroporto Ben Gurion e venivano aperti i rifugi pubblici di Tel Aviv e di tutto il nord, a partire da Haifa, dove venivano sospese tutte le attività didattiche: “Non c’è nessuna possibilità che questo fosse il piano e soprattutto che questa sia stata la risposta israeliana a un piano del genere” avrebbe ribadito Hayman; di fronte a un piano del genere la risposta sarebbe stata senz’altro quella di “iniziare una guerra totale”.
Il sospetto che la propaganda filo-sionista ci stesse prendendo un po’ per il culo si è poi fatto ulteriormente strada quando sono andato a guardare, un po’ più nello specifico, esattamente gli Israeliani cosa dicevano di aver abbattuto nel loro fantasmagorico attacco preventivo; prima, infatti, su Israel Hayom si riportava che “Secondo quanto riferito, l’IDF ha condotto un attacco su missili a lungo raggio”, quindi missili che sarebbero serviti a colpire il cuore di Tel Aviv, sostanzialmente. Poi, invece, magicamente i missili a lungo raggio si trasformavano in “razzi a corto raggio puntati sul nord di Israele” e quindi, sostanzialmente, solo per le aree del nord che sono già state evacuate da tempo, senza grossi rischi per i civili; e poi magicamente si passava a parlare non più di missili né a lungo né a corto raggio, ma di lanciarazzi, e qualsiasi versione uscisse, i nostri media non facevano che riportarla fedelmente come verità provata, senza mai porsi mezza domanda. “La narrativa sionista su quanto accaduto è piena di bugie e riflette il livello di debolezza di questa entità” ha tuonato Nasrallah durante il suo comizio, poche ore dopo il termine del raid: “Le chiacchiere del nemico sul bombardamento di missili strategici di precisione pronti a colpire Tel Aviv sono una completa menzogna” perché “noi non avevamo nessuna intenzione di usare queste armi”; Nasrallah ha affermato che “i nostri missili balistici sono ben nascosti, pronti ad essere utilizzati quando e se sarà necessario” e che “nessuno dei nostri missili strategici è stato danneggiato”. Secondo la versione di Nasrallah “Il nemico ha colpito valli che pensava contenessero piattaforme per missili balistici”, ma in realtà il comandante Fouad Shukr – e cioè proprio l’uomo che Israele ha assassinato a fine luglio a sud di Beirut scatenando questa escalation – “le aveva fatte evacuare tempo fa”; ed ecco così che, ribadisce Nasrallah, “Nessuna piattaforma di lancio è stata danneggiata prima dell’operazione, e le piattaforme dei droni non sono state esposte ad alcun danno, né prima né dopo l’operazione”.
Il sospetto che l’operazione portata a termine dai 100 caccia israeliani fosse più un’operazione di public relation che non una vera ed efficace operazione militare, è avallato anche dalla testata antimperialista libanese Al Akhbar: “In concomitanza con la massiccia spinta mediatica volta a fabbricare una spettacolare storia di successo a favore di Israele” scrive il giornale, “l’esercito nemico ha pubblicato un videoclip con scene dell’attacco”, ma “ciò che colpisce nel video è che nelle scene non compaiono lanciamissili o combattenti della resistenza, ma solo campi, alberi e rocce” quando in passato invece, all’inizio della guerra, i vari video pubblicati a fini propagandistici “mostravano chiaramente piattaforme missilistiche, combattenti della resistenza o veicoli militari”. Che l’attacco sia stato tutt’altro che letale è anche quello che ha denunciato, carico di delusione, il corrispondente della radio dell’esercito israeliano Doron Kadosh: “L’attacco di stamattina nel sud del Libano” avrebbe affermato “non è quello che riporterà i 60 mila coloni israeliani evacuati nelle loro case, e che imporrà a Hezbollah di smettere di lanciare missili contro gli insediamenti senza interruzione”; dopo questa messinscena “Lo scambio di attacchi continuerà come sempre, come anche la sofferenza negli insediamenti del nord”. “Quello che volevamo lanciare durante questa operazione” ha affermato ancora Nasrallah durante il suo comizio “erano 300 missili. E ne abbiamo lanciati 340. Il nemico” ha concluso “non ha ostacolato niente”. Yair Kraus, il corrispondente dal nord di Israele di Yedioth Ahronoth, il tabloid più venduto del paese, ha ricordato come “Gli israeliani sono in trepidante attesa di vedere le loro forze armate superare i confini col Libano dopo quasi un anno che vivono come anatre in un poligono di tiro”; Kraus ricorda come la mattina di domenica si trovasse nella città di Acri, l’insediamento urbano israeliano più popolato a ridosso del confine col Libano: “Dall’interno del rifugio sigillato, senza aria condizionata e luci spente a causa dei razzi che colpivano le linee elettriche” ha dichiarato Kraus “ho sentito chiaramente il frastuono dell’esplosione dovuta all’impatto di un missile intercettatore a poche decine di metri di distanza. Ho provato comunque a rassicurare tutti, dicendo che da lì in poi tutto sarebbe cambiato. Ma non è andata così”. “Poche ore dopo” ha continuato il corrispondente “è arrivata la direttiva che ci ha tolto il terreno sotto i piedi ancora una volta… l’attacco [israeliano] era stato fermato. Invece di approfittare dell’attacco preventivo, Netanyahu ha ordinato la ritirata degli aerei”; anche questa volta “Ministri e generali ci hanno ingannato con falsi slogan e promesse vuote”. “Israele ha fallito; gli abitanti del Nord non sono protetti” ha dichiarato il parlamentare del Likud Hanokh Milibitzky; “Sono i nemici di Israele a determinare i tempi e l’intensità dell’escalation. Non noi” gli ha fatto eco il leader del partito Nuova Speranza (nato da una scissione del Likud) Gideon Saar.
Insomma: per chi – alla fine – in mezzo al conflitto ci sta sul serio, il trionfalismo di Fiamma tricolore Nirenstein, di Micalessinofobia e di tutto il circo mediatico italiano sembra (piuttosto chiaramente) abbastanza fuori luogo; Nasrallah ha dichiarato che l’operazione ha ottenuto tutti gli obiettivi che si erano prefissati: in una prima fase sarebbero stati lanciati circa 300 razzi Katyusha verso 11 siti militari e caserme della Galilea e del Golan per saturare il sistema di difesa israeliano dell’Iron Dome e, a quel punto, alcuni droni sarebbero stati indirizzati verso le basi di Ein Shemer e di Hadera, che si trovano a oltre 70 chilometri dal confine col Libano, e soprattutto verso la base di Glilot, alla periferia nord di Tel Aviv, dove si trova il quartier generale della famigerata Unità 8200, l’unità militare delle forze armate israeliane incaricata di spionaggio elettronico e guerra cibernetica. Ovviamente ogni propaganda se la fa un po’ alla sua gambetta: per Hezbollah, in questo modo la resistenza ha dimostrato di essere in grado di colpire duramente in profondità Israele in qualsiasi momento e se ci sono andati con i guanti di velluto è solo perché, a differenza dei sionisti, sono responsabili e non vogliono offrire scuse per un’escalation che per Netanyahu, alla fine, sarebbe l’unico modo per ricompattare il paese e rimandare la sua disfatta – che invece sarebbe una conseguenza inevitabile di questo lungo logoramento che ha portato la vibrante e dinamica perla del Medio Oriente a entrare in una lunga (e forse irreversibile) fase di declino, anche economico; per Israele, invece, questa non è stata altro che l’ennesima dimostrazione che – alla fine – la resistenza abbaia ma non morde e che la Terra Promessa è destinata per volontà divina a trionfare sugli infedeli che la circondano. La cosa certa è che se volete provare a capire qualcosa di cosa succede in Medio Oriente, l’unico modo è che gettiate nel cestino i giornali mainstream, spegniate la Tv e accendete Ottolina Tv – e magari la aiutate anche a crescere e a diventare sempre più grande e sostenibile. Come si fa lo sapete già: basta aderire alla nostra campagna di sottoscrizione su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fiamma tricolore Nirenstein

Come la propaganda sta cercando di uccidere Aaron Bushnell per la seconda volta

Sarà che mi sto facendo un po’ anzianotto, ma questa volta mi gira il cazzo sul serio e, secondo me, ti dovrebbe girare anche a te – e anche parecchio; ieri, infatti, i nostri giornali hanno letteralmente ammazzato Aaron Bushnell una seconda volta: Aaron Bushnell è l’aviatore statunitense che martedì è morto dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington mentre gridava a squarciagola free Palestine. Prima del gesto drammatico aveva pubblicato un breve messaggio sulla sua pagina Facebook, che non usava praticamente mai: “Molti di noi amano chiedersi Cosa farei se fossi vissuto durante la schiavitù? O quando sono state introdotte le leggi Jim Crow negli Stati del Sud (e cioè le leggi che ufficializzavano la segregazione razziale)? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è proprio quello che stai facendo. Proprio adesso.” E questo è l’inizio del video straziante che riprende l’episodio, pubblicato in diretta da Aaron stesso: ” non sarò più complice di questo genocidio. Sono un membro delle forze aeree statunitensi in servizio attivo e sto mettendo in scena un atto di protesta estremo, ma che rispetto a cosa stanno subendo in Palestina per mano dei colonizzatori, non dovrebbe essere visto per niente come estremo. E’ solo quello che le nostre classi dirigenti hanno deciso dovesse diventare la normalità”.
Ovviamente il gesto eclatante di Aaron è diventato immediatamente virale: dopo poche ore, negli Stati Uniti, ad esempio, su X era di gran lunga in testa ai trending topics con la bellezza di 814 mila post; in un mondo normale, la mattina dopo avrebbe riempito le prime pagine di tutti i giornali – e quando dico un mondo normale non intendo il mio mondo ideale, ma proprio quello che ci spacciano per il mondo reale dove, a guidare tutto, sarebbe questa fantomatica mano invisibile del mercato e l’informazione sarebbe una merce come le altre (che poi, intendiamoci, quando in ballo ci sono i Ferragnez o la Champions league, è davvero così). Ma – si vede – non vale sempre: quando ieri mattina, infatti, mi sono messo a spulciare i giornali, c’era qualcosa che non mi tornava. Come sempre sono partito dai giornali filogovernativi, che sono il vero mainstream italiano di oggi; prima Il Giornale, ma niente: in tutto il pdf il nome di Aaron Bushnell non viene citato manco una volta. Libero idem. Vabbe’, almeno su La Verità qualcosa ci sarà scritto: non è il giornale contro i poteri forti? Macché: anche qui nada. Stai a vedere che ha ragione la sinistra ZTL quando dice che questi sono pericolosi e che bisogna affidarsi a Carletto libro cuore Calenda e al PD per arrestare l’ondata nera; i giornali dell’opposizione, allora, approfitteranno della ghiotta occasione! Macché: Corriere niente, Stampa idem, Repubblica uguale e pure Il Domani; credo sia la prima volta nella storia del giornalismo ai tempi dei social media che la notizia di gran lunga più virale della giornata, il giorno dopo non è nemmeno citata in nessuno dei principali giornali italiani.
D’altronde, per tentare di far dimenticare il sostegno incondizionato dell’Occidente collettivo al primo genocidio trasmesso in diretta streaming, il livello di censura e disinformazione unitaria del partito unico della guerra e degli affari deve necessariamente toccare vette inesplorate e, così facendo, i nostri media hanno ammazzato Aaron Bushnell per la seconda volta: non solo di fronte alla cappa della propaganda ti senti così disperato da ricorrere al più drammatico dei gesti possibili immaginabili, ma – anche in quel caso – la cappa è talmente fitta e impenetrabile che faremo di tutto perché il gesto sia completamente vano. Sarebbe il caso di provare a impedirglielo e, magari, fare in modo che gli si ritorca pure contro: facciamo in modo che questa immagine diventi il peggiore dei loro incubi; postiamola, ripostiamola, condividiamola, mandiamola ovunque ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a che non rompiamo questa cappa per non permettere che il suo sacrificio estremo sia vano. Con questo video, come Ottolina Tv cerchiamo di dare i nostri cinquanta centesimi.

Aaron Bushnell

Prima di sparire completamente in tempo record dai radar dei grandi media, la tragica vicenda di Aaron Bushnell una breve apparizione nei titoli delle principali testate globali era riuscita a strapparla, in un modo che grida vendetta: Uomo muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana di Washington, secondo la polizia titolava il New York Times; idem con patate il Washington Post: Aviatore muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. La BBC invece: Aviatore USA muore dopo essersi dato fuoco di fronte all’ambasciata di Israele, cioè identico: avete notato niente? Esatto: nessun riferimento alle cause, manco per sbaglio; in nessun titolo, nemmeno per caso, viene mai citata Gaza, o la Palestina, o il massacro in corso. Black out totale. Evidentemente aveva freddo e la situazione gli è sfuggita di mano e poi, sicuramente, si sarà trattato di uno svitato: quando uno è guidato da qualcosa che non rientra nella linea editoriale del New York Times e del Washington Post è sempre uno svitato, quasi per definizione; eppure auto – immolarsi non è sempre stato considerato un gesto da svitati.
Facciamo un passo indietro. 2 ottobre 2020: la giornalista russa Irina Slavina, attivista sociale e politica e direttrice del giornale online Koza Press muore dopo essersi auto – immolata di fronte alla direzione principale del ministero degli affari interni russo di Novgorod, e questo è il titolo del New York Times: Giornalista russa si dà fuoco e muore, INCOLPANDO IL GOVERNO. Questo, quello della BBC: La protesta finale della giornalista russa che si è data fuoco; in questo caso non era un gesto folle e non c’era manco bisogno di riscaldarsi: era una protesta politica drammatica carica di dignità e di pathos. D’altronde, non vorrai mica mettere l’urgenza di opporsi al regime di Putin rispetto all’urgenza di opporsi al più grande massacro di civili del XXI secolo e, quindi, qui la motivazione nei titoli non poteva mancare. D’altronde, come ricorda Ben Norton, tempo fa uno studio dell’American Press Institute aveva sottolineato come solo 4 lettori su dieci, oltre al titolo, leggono pure almeno una parte dell’articolo; due anni dopo, ricorda sempre Norton, due ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che nel 59% dei casi, quando qualcuno condivide un link su qualche social, non ha nemmeno aperto l’articolo e si è fermato al titolo: la stragrande maggioranza di chi va oltre il titolo si ferma, comunque, ai primi paragrafi. Ed ecco allora il capolavoro: nell’articolo del Washington Post, ad esempio, nei primi 4 paragrafi si continua a non fare nessunissimo accenno alle cause che hanno portato Aaron Bushnell a compiere il suo gesto disperato e quando finalmente, al quinto paragrafo (dopo un bel banner pubblicitario gigantesco) si riportano le motivazioni, si fa esclusivamente citando le parole di Bushnell, della serie pensate a ‘sto povero matto: s’è inventato un genocidio e poi, per protestare contro un genocidio immaginario, s’è dato pure fuoco.
La carta dell’infermità mentale ovviamente, in questi casi, è sempre la preferita: assistere allo sterminio di 15 mila bambini parlando del diritto alla difesa di Israele è da sani di mente; sacrificarsi per impedirlo è da psicopatici. Non fa una piega. Non faccio fatica a credere che ogni giornalista a libro paga del mainstream lo creda davvero: antropologicamente, sono esattamente questa roba qui, c’è poco da girarci attorno. Qui, per supportare la carta dell’infermità mentale, si è fatto riferimento al rapporto della polizia redatto all’arrivo di Aaron in ospedale; a lanciare il carico c’ha pensato Newsweek: “Un rapporto della polizia” scrivono “afferma che Aaron Bushnell stava mostrando segni di disagio mentale”. Mado’ che infami, proprio. Il rapporto infatti è questo: i segni di disagio mentale mostrati da Aaron, molto semplicemente, consisterebbero nel fatto che, prima di darsi fuoco, ha urlato free Palestine. Come testimonia il video che ha registrato, infatti, prima di quel momento Aaron è incredibilmente tranquillo e parla in modo molto composto nella camera mentre cammina; poi si ferma davanti all’ambasciata, si rovescia il liquido infiammabile addosso e urla a squarciagola free Palestine un paio di volte prima di darsi fuoco: il disagio mentale è questo e nei media è diventato l’indizio della sua follia. La stronzata, però, era talmente grossa che almeno i media principali l’hanno lasciata da parte, e siccome non si poteva più dire che era uno squilibrato, semplicemente se lo sono scordati. Il punto infatti è che, per quello che sappiamo ad oggi, Aaron non era squilibrato manco per niente; anzi, nelle ore successive – soprattutto grazie al lavoro di una giornalista indipendente di quelle cocciute come un mulo, Talia Jane, forte solo del suo piccolo account Twitter – sono cominciate ad emergere un po’ di cose interessanti: la prima è che da quando Aaron si era trasferito a San Antonio per proseguire la sua carriera militare, aveva subito cominciato a fare volontariato in un’associazione che dà sostegno ai senzatetto e che chi c’ha lavorato accanto nell’associazione ne parla come di “uno dei compagni con più principi che abbia mai conosciuto“; uno che “cerca sempre di pensare a come possiamo effettivamente raggiungere la liberazione per tutti, con un sorriso sempre sul volto” ribadisce un altro amico. E pare proprio che ‘sta cosa qua di aiutare gli ultimissimi ce l’avesse proprio di vizio: poco dopo, infatti, a esprimere cordoglio ci si mette questa strana associazione che si chiama Serve the People, servire il popolo. Più matti di così… Sono di Akron, la cittadina dell’Ohio dove Aaron si era trasferito da poco, e ricordano come non appena era arrivato in una città che “era ancora nuova per lui”, si era “subito attivato per aiutare i senza alloggio e in qualsiasi altro progetto dell’associazione”: “Gli saremo per sempre grati per lo sforzo che ha fatto per rendere Akron un posto migliore”. E ti credo che i pennivendoli in carriera del Post e del Time lo prendono per matto: cosa ci può mai avere nella testa uno che, quando arriva in una città, invece di impegnarsi per capire a chi può fare le scarpe per qualche scatto di carriera, si mette ad aiutare i più sfigati? Ma la prova provata che siamo di fronte a un autentico squilibrato la tira fuori, ancora una volta, Newsweek; spulciando il suo profilo Facebook – che conta, in tutto, 5 post e 100 amici – Newsweek, infatti, ha trovato la pistola fumante. Tra le pagine a cui Aaron ha messo mi piace ci sono, infatti, addirittura due pagine legate a dei gruppi anarchici: il Burning River Anarchist Collective che, addirittura, pubblica e distribuisce libri sull’anarchia e l’anticapitalismo, e la Mutual Aid Street Solidarity che addirittura, pensate un po’, si occupa di riduzione del danno nei quartieri più malfamati fornendo siringhe pulite e altra assistenza per evitare la morte certa ai tossici. Ma la cosa più inquietante è che mentre Aaron coltivava questi interessi veramente inconfessabili, riusciva pure a costruirsi una carriera di un qualche successo: da 3 anni infatti, come riporta il suo profilo Linkedin, lavorava per l’aeronautica militare come ingegnere nel settore cosiddetto DevOpsm, cioè in quel settore che tiene insieme sviluppatori di software e tecnici delle telecomunicazioni; un impiego che, riporta iNews, gli avrebbe garantito un salario superiore ai 100 mila dollari l’anno. Ed era solo l’inizio: Aaron, infatti, aveva intenzione di abbandonare l’aeronautica, ma prima di farlo si stava prendendo una nuova laurea triennale in ingegneria software presso la Western Governor University; la sua malattia, insomma, era riuscire a fare quello che un giornalista medio del Times non è in grado di fare nemmeno se rinasce, ma senza per questo essere diventato un’insopportabile faccia di merda. Ovvove! Visto che Aaron lo squilibrato sembrava gestirsela piuttosto benino, allora ecco che sono andati a cercare il trauma infantile che covava sotto l’apparente tranquillità; a trovarlo è stato il Post, che come idea di equilibrio e sanità mentale ha come riferimento il suo editore Jeff Bezos e che ha scovato dei particolari inquietanti nell’infanzia di Aaron. Aaron, infatti, proveniva da un piccolo paesino del Massachussets e la sua famiglia era addirittura religiosa, di una specie di setta sostiene il Post: si chiama La Comunità di Gesù, talmente setta che un ex membro avrebbe confessato al Post che “molti di quelli tra noi che sono usciti, sono molto interessati alla giustizia sociale” e infatti, riporta scandalizzato il Post, alcuni amici di Aaron avrebbero ammesso che stava cercando di trovare un nuovo lavoro non troppo impegnativo che gli avrebbe permesso di guadagnare il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandogli – addirittura! – il tempo di dedicarsi all’attivismo e alla politica che, per i sociopatici in carriera, è sostanzialmente la definizione stessa di squilibrio mentale, diciamo. Questo passato bacchettone in questa setta segreta, sostanzialmente, avrebbe covato sotto le ceneri fino ad esplodere in questo gesto eclatante privo di senso. O forse no; prima di procedere verso il sacrificio finale, infatti, Aaron non sembra aver agito con chissà quale impulsività: “Ha fatto tutti i passi necessari per assicurarsi che tutto ciò che aveva venisse curato adeguatamente” ha affermato un’amica a iNews, “come il suo gatto, che ha lasciato a un vicino. Quindi sì, è stato razionale e sapeva esattamente cosa stava facendo”. Ma com’è possibile che uno razionalmente si immoli per una causa quando noi, per due lire, siamo disposti a scrivere ogni sorta di vaccata sbattendocene completamente il cazzo delle conseguenze? Non c’è verso: Aaron Bushnell per la merda suprematista rimarrà per sempre un mistero.
Eppure Bushnell non è il primo che ricorre all’auto – immolazione: il precedente più celebre sono i famosi monaci buddhisti durante la carneficina in Vietnam che, tra l’altro, anche allora vennero emulati da alcuni cittadini americani; in particolare, un paio di ferventi quaccheri che in quel caso, però, nessuno accusò di essere degli psicopatici. Altri tempi. A cercare di spiegare l’etica che sta dietro un gesto del genere a quegli individualisti incorreggibili degli occidentali allora ci pensò Thich Nhat Hanh, il celebre monaco che Martin Luther King voleva candidare al premio Nobel per la pace: “La stampa” scriveva Thich Nhat Hanh “parla di suicidio. Ma non lo è. Non è nemmeno propriamente una protesta. Quello che i monaci affermano nelle lettere che lasciano prima di auto – immolarsi è che il gesto mira a creare un allarme, a muovere i cuori degli oppressori e a richiamare l’attenzione del mondo sulle sofferenze patite dai vietnamiti. Bruciarsi vivo serve a dimostrare che quello che una persona sta dicendo è della massima importanza. Non c’è niente di più doloroso che bruciarsi vivo. Affermare qualcosa mentre stai provando una tale sofferenza prova che la stai dicendo con il massimo del coraggio, della franchezza, della determinazione e della sincerità”. “Il monaco che si auto – immola” continua Thich Nhat Hanh “non ha perso né il coraggio né la speranza; e non ha nessun desiderio di non esistenza. Al contrario, è molto coraggioso e speranzoso e aspira a qualcosa di positivo per il futuro. Non ambisce ad autodistruggersi, ma semplicemente crede che i suoi simili potranno beneficiare del suo sacrificio”.

Pat Ryder

Insomma: un modello un po’ diverso da quello dei pennivendoli spregiudicati che, se devono pensare a un modello di equilibrio, piuttosto pensano a Pat Ryder, il portavoce del Pentagono; durante la conferenza stampa rilasciata in seguito all’episodio, gli è stato chiesto se non è preoccupato che un gesto come questo sveli un disagio più profondo nelle forze armate per come stiamo garantendo il nostro sostegno alle azioni di Israele. “Dal punto di vista del dipartimento della difesa” ha risposto impassibile Ryder “dall’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre ci siamo concentrati in particolare su 4 questioni chiave: proteggere le forze armate e i cittadini USA nella regione, supportare il diritto di Israele alla difesa, lavorare fianco a fianco con Israele per il rilascio degli ostaggi e assicurarsi che la situazione non degeneri in un conflitto regionale allargato. Questi sono gli obiettivi che continueranno a indirizzare la nostra azione in Medio Oriente, e il nostro supporto a Israele continua ad essere corazzato”.
30 mila civili uccisi, 15 mila bambini, la più grande crisi umanitaria di sempre manco je so venuti in mente: ecco, lui è quello normale; davvero abbiamo intenzione di stare a guardare mentre passa l’idea che la normalità è sostenere attivamente un genocidio? Noi non ci stiamo e non permetteremo che il sacrificio di Aaron sia vano: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si batta quotidianamente contro il capovolgimento della realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

LA RIVOLTA DEI TRATTORI – Se destra e sinistra fanno a gara a chi umilia di più l’agricoltura

Ragionano da anni di carrarmati; saranno asfaltati dai trattori. Dalla Germania alla Francia, dalla Romania alla Polonia per arrivare, negli ultimi giorni, pure in Italia, gli agricoltori di tutta Europa sono sul piede di guerra, e a Bruxelles sudano freddo non solo perché – nonostante l’agricoltura e quello che ci gira attorno contribuisca per poco più dell’1% del PIL europeo – coinvolge direttamente poco meno di 15 milioni di addetti ma anche perché, nel vecchio continente in declino, ogni miccia può innescare un’esplosione in grado di far saltare tutto, a partire dai posti di comando.
La rivolta degli agricoltori europei è tornata a occupare le prime pagine dei giornali a partire dallo scorso 9 gennaio, quando il centro di Berlino è stato invaso da una colonna di 566 trattori che si sono piazzati in fila davanti alla Porta di Brandeburgo, a pochi metri dagli ufficio di Olaf Scholz. Ed era solo la punta dell’iceberg: secondo la ricostruzione de La Verità, nel Baden Wuttemberg si sarebbero mobilitati addirittura in 25 mila; in Baviera in 19 mila; in Sassonia avrebbero bloccato interamente la circolazione in ingresso a Dresda e imposto uno stop allo stabilimento della Volkswagen di Emden. “La più grande protesta, o perlomeno la più estesa, che il paese abbia visto nel dopoguerra” scrive il Corriere. Sulla carta, le proteste tedesche sarebbero esplose per motivi meramente interni, ma il fatto che in men che non si dica abbiano contagiato mezzo continente dimostra che in realtà c’è molto altro che bolle in pentola; ma cosa?
Come ormai accade sempre più spesso, limitandosi a leggere le principali testate mainstream e quelle della destra reazionaria – che giocano a fare gli antimainstream ma sono ancora più mainstream del mainstream – non è che si capisca proprio benissimo: la rivolta degli agricoltori è stata immediatamente trasformata in una guerra ideologica tra fazioni contrapposte, entrambe totalmente disinteressate a entrare nel merito delle questioni e impegnate esclusivamente a cercare di strumentalizzare la faccenda per rinsaldare le fila rispettivamente dei fintosovranisti e degli analfoliberali; in un modello ormai ampiamente sperimentato durante la pandemia e perfezionato con la guerra, i mezzi di produzione del consenso delle due fazioni del capitalismo europeo in declino si sono sostenute l’un l’altra, nel tentativo di politicizzare le puttanate e spoliticizzare tutto quello che, invece, avrebbe un impatto concreto sulla vita delle persone – riuscendoci benissimo. Ed ecco così che per i fintosovranisti (ma reazionari veri) la protesta è diventata l’ultima barricata per salvare l’Eden incontaminato del mondo rurale dall’assalto dei rettiliani turboglobalisti incarnati in quella creatura demoniaca nota col nome di Greta Thumberg e, per l’establishment liberal, i calli nelle mani degli allevatori di maiali della Bassa Sassonia sono diventati l’emblema del ritorno della minaccia nazifascista. E se li mandassimo entrambi in una bella miniera di coltan nel Congo e provassimo una volta tanto a capire cosa bolle davvero in pentola?
“Centinaia di accessi alle autostrade bloccati, serpentoni di decine di chilometri ai confini, picchetti e palchi improvvisati nei centri di Monaco, Brema, Amburgo” (Mara Gergolet, Corriere della sera). Lunedì 8 gennaio la Germania si è improvvisamente trovata di fronte a uno scenario completamente inedito: “In Germania, dove lavoratori e padroni gestiscono congiuntamente molte aziende” sottolinea infatti l’Economist “uno sciopero di grandi dimensioni è insolito. Un’ondata di grandi scioperi è quasi inaudita”; lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi 30 anni, durante i quali una feroce politica di deflazione salariale ha imposto alle buste paga dei lavoratori di crescere sempre enormemente meno della loro produttività senza che, sostanzialmente, mai nessuno si incazzasse sul serio. Nell’arco di appena 8 giorni, invece, a questo giro ha dovuto affrontare – continua l’Economist – “una settimana d’azione da parte di contadini arrabbiati che hanno bloccato le strade coi loro trattori, uno sciopero di tre giorni dei ferrovieri e pure un imminente sciopero dei lavoratori medici, che avevano già chiuso gli ambulatori tra Natale e capodanno”. “L’era merkeliana della pace sociale e dell’accomodamento in una qualche forma di accordo e sovvenzione di tutte le tensioni” scrive il Corriere della serva “visto dalla Porta di Brandeburgo sembra veramente solo un ricordo”; ma cos’è esattamente che ha fatto incazzare così tanto gli agricoltori tedeschi?
I nodi fondamentali della mobilitazione sono sostanzialmente due: la riduzione dello sconto fiscale sull’accisa applicata al diesel per il consumo agricolo e la fine dell’esenzione dalla tassa sull’acquisto per i mezzi agricoli, che risaliva addirittura al 1922; due misure introdotte in fretta e furia dal governo tedesco, dopo che la sentenza della Corte Costituzionale gli ha vietato di ricorrere ai soldi rimasti dal fondo covid per far tornare i conti di faccende che con la crisi pandemica non avevano niente a che vedere, causando così un buco nel bilancio da ripianare con ogni mezzo necessario. Ma qui c’è il primo mistero: ancora prima che gli agricoltori invadessero Berlino, annusata l’aria, il governo più debole dell’intero continente infatti aveva fatto un deciso passo indietro diluendo il ritorno della tassa sul gasolio negli anni e reintroducendo l’esenzione per quella sugli acquisti, ma non è servito a niente. Ma allora, cosa c’è sotto? Per capirlo ho letto attentamente tutti gli articoli usciti sull’argomento su La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana e quello che, in assoluto, ha dedicato più spazio a queste proteste, e indovinate un po’? Non c’è scritto un cazzo: fiumi di parole, frasi a effetto come se non ci fosse un domani, ma mai un numero che sia uno, una statistica, qualcosa di misurabile, di verificabile.

Bonifacio Castellane

Il premio assoluto fuffologia al potere va, senza dubbio, a Bonifacio Castellane, una vera rivelazione: è questo tizio qua, che scrive sotto pseudonimo e agli eventi pubblici si presenta sempre con questa maschera perché le cose che ci rivela sono troppo dirompenti, troppo scottanti, e cioè ha stata Greta Thumberg; il nemico contro cui stanno combattendo gli agricoltori – ci racconta con tono un po’ dannunziano il nostro V di Vendetta dei poveri – sarebbe nientepopodimeno che “l’ideologia woke-green che ispira il governo dell’UE nel suo tentativo crepuscolare di infliggere gli ultimi colpi ai nemici prima di tramontare”. Oltre alla dittatura gretina, il grande nemico degli agricoltori – spiega Castellane – sarebbero anche, in uno slancio di retorica fascioliberista da manuale, in generale tutti i lavoratori dipendenti: “Gli agricoltori” continua Castellane, infatti “non sono scesi in piazza perché minacciati nei loro diritti acquisiti o indicendo il venerdì uno sciopero a fine servizio per manifestare contro il patriarcato: sono scesi in piazza perché la loro esistenza è in pericolo”. In che senso? Difficile capirlo: i numeri sono roba da pervertiti globalisti e Castellone non ne cita manco mezzo. Al posto suo, però, li cita la DBV, il più grande sindacato degli agricoltori tedesco e organizzatore della mobilitazione: “Dopo molti anni di debolezza” scrivono, “nell’ultimo biennio la situazione economica delle nostre aziende è nettamente migliorata. In particolare gli agricoltori hanno beneficiato degli elevati aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari”; in soldoni, fa un bel +45% del fatturato medio rispetto a 3 anni fa, un dato piuttosto rilevante ma che in tutti gli articoli de La Verità non viene citato mai, nemmeno per sbaglio. Fosse semplice dimenticanza, si potrebbe risolvere facilmente invitandoli a trovarsi un lavoro che gli si addice di più; in realtà, però, è peggio di così. Il loro lavoro lo fanno benissimo, solo che il loro lavoro non è informare, ma fare propaganda per fomentare la guerra tra poveri. E come faccio a elevare gli agricoltori a paladini della società giusta ed equa che voglio costruire contro la dittatura di Bruxelles – contrapposti ai lavoratori salariati che approfittano di diritti acquisiti e scioperano il venerdì per allungare il weekend – se poi si scopre che mentre i lavoratori salariati perdevano potere d’acquisto, gli agricoltori aumentavano del 45% il fatturato? E’ una notizia non grata e quindi da omettere: non farete mica i professoroni!?
E però c’è pure chi fa di peggio perché c’è chi, invece, quel dato non solo lo riporta, ma lo brandisce come un’arma per un’altra tesi altrettanto brillante e rivelatoria: gli agricoltori sarebbero tutti avidi, brutti, sporchi, cattivi e, ovviamente, anche parecchio fascisti. La prova provata? Vorrebbero abbattere il governo giallorossoverde, e chi altro mai vorrebbe mandare a casa Olaf Scholz se non un branco di fascisti? Ha lavorato così bene… Beh, certo, per Washington di sicuro. Negli stessi giorni della protesta, Destatis ha pubblicato i dati definitivi per il mese di novembre: la produzione industriale è crollata di un altro 0,7% in un solo mese; i vari analisti interpellati da Bloomberg avevano previsto una crescita dello 0,3. D’altronde, avevano previsto anche un segno + per il PIL del 2023, e ancora più sostenuto per il 2024; nel 2023 è diminuito di 0,3 punti e ormai in molti credono lo stesso accadrà anche quest’anno: in totale, in 12 mesi la produzione industriale infatti è crollata del 4,8%. Ma la crisi, verso la fine dell’anno, invece che affievolirsi si è approfondita e se nel 2024 si confermasse il trend degli ultimi 3 mesi, si arriverebbe a un ulteriore crollo di poco meno del 10%: per incazzarsi, effettivamente, bisogna essere proprio degli invasati neonazisti.
La leggenda degli agricoltori neonazisti nasce, come sempre, dall’infiltrazione di qualche gruppuscolo, ma soprattutto – temo – dalla consapevolezza che le forze di governo non hanno nessuna soluzione possibile da offrire e, al di là del fatturato straordinario degli ultimi 2 anni, i problemi decisamente non mancano. E sì, in buona parte hanno proprio a che vedere con le politiche ambientali dell’Unione Europea, che vuole fare la transizione ecologica continuando a garantire rendite di posizione astronomiche alle oligarchie finanziarie sulla pelle di chi lavora, di tutti quelli che lavorano, dagli agricoltori a quelli che – secondo La Verità – vivono nella bambagia per i diritti acquisiti e chiamano il weekend lungo sciopero. D’altronde, scrive Tonia Mastrobuoni su La Repubblichina, di cosa si lamentano? “La tutela dell’ambiente costa” scrive, e “ha inevitabilmente ricadute su tutte le categorie sociali” dove, giustamente, nelle categorie sociali non mette i suoi editori e, in generale, gli oligarchi.
Come sosteneva brillantemente il mitico documentario The Corporation, gli oligarchi sono sociopatici per definizione: tra le varie cose imposte dalla UE sulle spalle degli agricoltori (senza nessuna forma di paracadute) ci sono, ad esempio, le misure sul ripristino della natura, che puntano a contrastare il degrado degli ecosistemi sottraendo terreno alla coltivazione per restituirlo alla natura, oppure le norme sull’abbattimento delle emissioni degli allevamenti, o le direttive che impongono restrizioni sulle emissioni di zolfo e di nitrato – che avevano già spinto sulle barricate gli agricoltori olandesi poco tempo fa; tutte misure più che ragionevoli, volendo, se solo a pagarle non fosse chi sta piegato sui campi a giornate per due lire ma chi, con la svolta green, incasserà miliardi su miliardi senza rischi perché garantito dagli Stati e dai governi. Lo ha dovuto ammettere candidamente anche un ultramoderato come Paolo de Castro, eurodeputato PD, ex ministro dell’agricoltura e universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti dell’economia del settore: “Per la prima volta questa legislatura europea” ha dichiarato “ha creato la percezione di un’Unione nemica degli agricoltori e delle categorie produttive. Non abbiamo saputo costruire un progetto che coinvolga l’agricoltura facendola sentire protagonista della transizione verde, e non imputata”. Risultato? Chi s’è messo contro gli agricoltori ha fatto una brutta fine: in Olanda è toccato a Rutte e Timmermans che, per la faccenda dell’azoto, si erano messi in testa di chiudere di botto 3 mila stalle; Rutte oggi è stato costretto ad andarsene in pensione e Timmerman è stato letteralmente umiliato alle elezioni da Geert Wilders, che è improponibile ma le rivendicazioni degli agricoltori le aveva sostenute.
Ora tocca alla Francia, dove il contagio tedesco è arrivato per primo e dove Macron, ancora prima delle sue nefandezze dirette, dovrà scontare il fatto di aver assoldato tra le sue fila al parlamento europeo Pascal Canfin, che del finto ambientalismo delle élite che odiano i poveri è proprio il prototipo; ex capo esecutivo del WWF francese, era a capo della Commissione Ambiente quando il green deal europeo è stato concepito, e ora contro di lui e il suo datore di lavoro i contadini francesi sono tornati sulle barricate e il grosso della popolazione li sostiene, senza se e senza ma: il 68% in Germania, addirittura l’89 in Francia, in entrambi i casi circa il doppio dei consensi che possono vantare i rispettivi governi. Per capire il livello di strumentalizzazione che la fuffa liberaloide fa della faccenda, basta vedere la differenza di trattamento riservato ad agricoltori tedeschi e francesi, che contestano governi di centrosinistra, rispetto a quelli italiani. Anche gli agricoltori italiani, infatti, sono tornati a manifestare: negli ultimi giorni, decine di cortei hanno invaso mezzo paese, da Verona alla Calabria; “La marcia dei trattori attraversa l’Italia contro tutto e tutti” scrive La Stampa. “L’Unione Europea, le farine d’insetti, la carne coltivata, la burocrazia, il caro gasolio, i terreni svenduti, e soprattutto i sindacati degli agricoltori”, ma qui non c’è traccia di disprezzo: “Una rivolta dal basso” scrive anzi La Stampa “animata da gente che non ha mai saltato un giorno di lavoro”, eppure qualcosa a cui attaccarsi ce l’avrebbero avuta.

Danilo Calvani

La mobilitazione, infatti, è stata organizzata da questo gruppo informale denominato CRA, Comitati Riuniti Agricoltori traditi, e il leader indiscusso del CRA è lui, Danilo Calvani, un piccolo imprenditore agricolo della provincia di Latina che nel 2009 è stato tra i fondatori della Lega nel Lazio; agli agricoltori tedeschi hanno dato dei reazionari fascisti per molto meno: perché qui, allora, invece no? Semplice: in Italia al governo mica ci sono i democraticissimi Scholz e Macron; in Italia al governo c’è la Meloni, e Calvani con il governo Meloni ce l’ha a morte perché “come tutti quelli che l’hanno preceduto” afferma Calvani “si è prostrato a Europa e multinazionali”. Tutto sommato i pennivendoli al servizio di GEDI sono magnanimi, si accontentano di poco e, così, quelli che altrove sono una pericolosa deriva autoritaria qui incredibilmente “partono da un tema reale: lo scollamento quasi incolmabile tra chi detta le regole e chi affonda le mani nella terra, come Franco Clerico” continua empatico il giornalista, “che mi ha detto: per chi lavora la terra mollare tutto per andare a protestare è un atto di disperazione. Ho investito tutto in quest’azienda. Mio papà è morto a novembre, a 91 anni. Ha aiutato me e mio fratello a mettere in piedi l’azienda. Noi invece ai nostri figli lasceremo debiti. Da anni per tirare avanti non ci versiamo i contributi. Quando va bene in un anno ci mettiamo in tasca 16 mila euro. E’ vita questa?”. Ecco, bravi: la stessa identica cosa vale per gli agricoltori che protestano in Francia e in Germania anche se, in quel caso, al governo ci sono quelli che vi stanno simpatici a voi.
Nell’Europa in declino, le élite di ogni colore scaricano la crisi sui poveri cristi e le diverse propagande non fanno altro che inventarsi storielle per parare il culo a quei parassiti dei loro padroni. Noi stiamo sempre dalla stessa parte, dalla parte del 99% senza chiedere pedigree e per difenderne la causa avremmo bisogno come il pane di un vero e proprio media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

L’era dei Media Mainstream è Finita? – con Andrea Legni ed Enrica Perucchietti

Oggi parliamo di media e di informazione e lo facciamo con Andrea Legni, direttore dell’indipendente, e Enrica Perucchietti, giornalista free lance e uno dei volti di Visionetv. L’occasione è questa: l’uscita della monografia mensile de l’indipendente, con il quale abbiamo avviato già da qualche tempo una collaborazione,e il numero di questo mese è proprio dedicato all’informazione e in particolare, come dice il titolo, alla crisi della disinformazione di regime. Una crisi che va avanti da tempo, ma che si è approfondita dall’inizio della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, e ancora di più con lo scoppio della guerra di israele contro i bambini arabi a Gaza, che, appunto come titola il suo articolo proprio enrica, nel tentativo disperato di giustificare la ferocia genocida di quella che ancora inspiegabilmente viene definita l’unica democrazia del medio oriente, ha fatto raggiungere “nuove vette” alla “disinformazione di regime”.

SCANDALO NEWSGUARD: come l’intelligence paga un’azienda privata per censurare i pochi giornalisti rimasti.

NewsGuard è un’estensione per browser internet, che ti aiuta a rimanere sempre al passo con la propaganda suprematista. Il programma infatti contrassegna le pagine web che apri con un distintivo: quando è rosso vuol dire che è una fake news, e quando è verde invece che piace ai re David, sia Puente che Parenzo, e pure all’intelligence USA.

NewsGuard infatti nel settembre del 2021 ha firmato un contratto da 750 mila dollari con il Dipartimento della Difesa USA nell’ambito di un programma che si chiama “misinformation fingerprints”, le impronte digitali della disinformazione, dove per disinformazione si intende quello che non coincide con la narrazione ufficiale del Pentagono e della Casa Bianca e il risultato si vede.

Nel sito italiano di NewsGuard,ci sono elencate le bufale che hanno smascherato da quando è iniziata questa nuova fase della pulizia etnica di Israele contro la popolazione palestinese,che uno pensa subito: “ah, meno male!” ci troverò due cose sensate sulla bufala gigantesca delle teste dei bambini mozzati che ha occupato le prime pagine di tutti i giornali italiani, oppure il debunking di tutte le fake news spacciate dai sostenitori del genocidio per attribuire così un po’ alla cazzo la tragedia dell’ospedale di Al-Ahli a un errore di Hamas, macchè! solo ed esclusivamente roba filo-Israeliana, e filo-Usa.
Perchè noi civiltà superiore mica siamo come gli untermenschen arabi, certe cose non le facciamo, che uno allora dice, eh vabbè, che danni farà mai, tanto uno che si scarica una roba del genere sul browser quello vuole: solo pura e sana propaganda suprematista ufficiale occidentale.

Purtroppo però grazie a un po’ di sano lobbysmo NewsGuard, sopratutto negli USA, è diventato uno strumento piuttosto diffuso anche nelle istituzioni, incluse numerose librerie e università, e tramite un accordo con Microsoft, pure a parecchi insegnanti e associazioni di insegnanti.
D’altronde, la potenza di fuoco di NewsGuard è tanta roba, lungi dall’essere un ente benefico, è una società privata dalle spalle larghe, tra i fondatori infatti c’è Publici Groupe, il colosso francese della pubblicità e del marketing, una tra le 5 principali aziende del settore al mondo.

Quindi riassumendo: c’è un’azienda privata oligopolista che su mandato dell’intelligence USA dice alle università e alle insegnanti cosa è vero e cosa è falso, cosa mai potrebbe andare storto?

Nell’ambito di questa attività di censura per conto della propaganda di governo USA, nel settembre del 2022 NewsGuard, ha individuato 6 articoli che contenevano “fake news” da parte di una piccola ma prestigiosa e combattiva testata indipendente americana.La testata in questione si chiama Consortium News, e chi segue Ottolina ne ha già sentito parlare svariate volte, è stata fondata a fine anni ‘90 da Robert Parry, il mio amico Robert Parry, tristemente venuto a mancare nel 2018 dopo una lunga malattia.

FOTO: Diane Duston, Associated Press.

Forse definirlo un altro Seymour Hersh potrebbe essere un po’ eccessivo, ma ci manca poco.
Ex reporter di Associated Press e Newsweek infatti, il buon Robert, aveva rivestito un ruolo fondamentale nello smascherare alcuni dei retroscena più inquietanti dell’operazione Iran-Contra.
Si deve a lui ad esempio, la conoscenza del ruolo ricoperto nello scandalo da Oliver North, già membro del consiglio per la sicurezza nazionale, e gran regista della vendita di armi all’Iran per finanziare le attività dei contras, le feroci milizie nicaraguensi che tentarono di far precipitare nel sangue la gloriosa rivoluzione sandinista attraverso innumerevoli agguati terroristici.

Grazie a queste inchieste Parry è stato insignito, come d’altronde anche seymour hersh, del prestigioso George Polk Award, l’unico vero premio giornalistico che significhi davvero qualcosa al mondo.
Proprio come Hersh, Parry, nonostante la sua brillante carriera, ha un certo punto decide di sbattere la porta in faccia al mainstream, che negli anni ha smesso di finanziare inchieste importanti che vanno contro la narrazione ufficiale del governo, e insieme a un gruppo di prim’ordine di giornalisti indipendenti ha deciso di fondare una sua testata che non accetta finanziamenti né dai governi, né dagli inserzionisti, e già questa cosa da sola probabilmente agli occhi di affaristi spregiudicati come quelli di NewsGuard deve suonare di per se come una fake news. Oggi a guidare Consortium News c’è un altro pezzo da novanta: si chiama Joe Lauria, firma di peso prima del New York Times, poi del Boston globe e infine anche del Wall Street Journal. Il cda di Consortium News poi sembra un vero e proprio museo del giornalismo: dal premio pulitzer Christopher Hedges, al recentemente defunto Daniel Ellsberg, il più importante whistleblower della storia degli USA, fino a John Pilger, vincitore per due volte del titolo di miglior giornalista d’inchiesta del Regno Unito. Ma niente che possa scoraggiare i David Puente di oltreoceano, che hanno individuato appunto 6 fake news che al gotha del giornalismo indipendente globale erano sfuggite, e cioè, le seguenti:

  1. Washington nel 2014 avrebbe sostenuto un colpo di stato a danno di un governo democraticamente eletto in Ucraina.
  2. il governo ucraino avrebbe adottato politiche genocide nei confronti delle minoranze russofone
  3. la NATO in Ucraina starebbe armando un regime infestato di neonazisti.
  4. il bombardamento di Douma, in Siria, era una false flag sfociata poi in bombardamenti illegali e illegittimi da parte dei governi di  USA, UK e Francia.
  5. il Russiagate era una bufala.

Faccio sinceramente parecchia fatica a vederci anche solo mezzo errore. Ma d’altronde, in un mondo dove la Russia si autobombarda i gasdotti, fa la guerra con le pale, e per giustificare lo sterminio di centinaia di migliaia di civili inermi basta una fialetta di borotalco da agitare all’ONU come se fosse un’arma chimica, posso capire che, anche solo suggerire che le cose non siano andate esattamente come ce le hanno raccontate eserciti di pennivendoli a libro paga, e senza nessuna credibilità professionale possa risultare sconveniente.
Ma la cosa più divertente è che sulla base di questi 6 articoli, NewsGuard ha segnalato come inattendibili tutti gli oltre 20 mila articoli dell’archivio di Consortium News.

Di ritorno da Tel Aviv, dove era andato a rimarcare con forza il sostegno incondizionato degli USA al genocidio perpetrato da Israele contro i civili palestinesi, Rimbambiden ha lanciato un accorato appello alla nazione:
“è in momenti come questo”, ha dichiarato, “che dobbiamo ricordare: dobbiamo ricordare chi siamo. Siamo gli Stati Uniti d’America. Gli Stati Uniti d’America”. Non mi sto sbagiando io eh. E’ proprio lui che deve ripetere tutto due volte. La prima se la scorda mentre parla. “E non c’è niente, niente”, altra ripetizione, “che vada oltre le nostre capacità se lo facciamo insieme”

E’ da un po’ che a Rimbambiden gli è presa la scimmia di ripetere ogni tre per due questo concetto,”siamo i più forti”, “siamo invincibili”, siamo stocazzo!
Ma come sottolinea sempre il nostro mitico Dall’Aglio, quando uno si sente in dovere di ripetere in ogni occasione quanto è forte e invincibile, c’è una buona probabilità che sotto sotto tanto forte e invincibile non si senta più.
D’altronde, gli indizi diciamo che non gli mancherebbero, purtroppo però è proprio quando uno comincia a realizzare che l’era “dell’io sono io e voi non siete un cazzo” sta volgendo al tramonto, che potrebbe essere spinto ai gesti più sconsiderati.

Fino ad oggi, ci siamo sempre lamentati di quanto sia falsa e ipocrita la retorica dell’occidente come luogo di libertà e di pluralismo, e di come in realtà la proprietà dei mezzi di produzione del consenso in mano a un manipolo di oligarchi ostacoli il dissenso e il pensiero critico.
A breve però potremmo ricordare questa epoca di dittatura dolce del pensiero unico con una certa nostalgia.
Quel che rimane della retorica liberale, mano a mano che la situazione continua a sfuggire di mano, potrebbe diventare un lontano ricordo, la Grande svolta autoritaria del finto liberalismo del nord globale è ormai dietro l’angolo, ed è arrivata l’ora di costruire la resistenza.

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e chi non aderisce è David Puente

NON CON I MIEI SOLDI: boicottare Israele per impedire il genocidio

Fino a un mese, fa la lotta per l’indipendenza del popolo palestinese era una lotta finita, kaputt, morta e sepolta; oggi le strade di tutto il mondo sono invase da un oceano di umanità che torna a sventolare la bandiera palestinese non solo per non essere complici di un genocidio, ma come simbolo universale dell’eterna lotta degli oppressi contro gli oppressori. Purtroppo però il genocidio del popolo palestinese è solo un pezzo di una guerra molto più generale, e in guerra la testimonianza non basta: per ottenere qualcosa bisogna colpire direttamente gli interessi più profondi. Per fortuna, per capire come si fa non c’è bisogno di inventarsi nulla di particolarmente nuovo: basta ricordarsi la nostra storia. La ricetta l’hanno scritta nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: si chiama boicottaggio. “Popolo britannico” recitava lo storico appello “non vi chiediamo niente di speciale. Vi chiediamo solamente di ritirare il vostro sostegno al regime di apartheid smettendo di comprare prodotti sudafricani”. Tra alti e bassi, per arrivare alla vittoria occorreranno la bellezza di 35 anni.
Non c’è un minuto da perdere: con questo video ci rivolgiamo a tutte le realtà che come noi, giorno dopo giorno, in piena libertà e autonomia, qualsiasi sia il loro punto di vista, combattono la loro battaglia contro la dittatura del pensiero unico e contro la lotta senza quartiere che le oligarchie finanziarie del nord globale hanno ingaggiato contro tutto il resto del mondo. E’ arrivato il momento di lanciare lo stesso appello che gli esuli sudafricani lanciarono ai cittadini britannici e che, dopo 35 anni di peripezie, li portò finalmente alla liberazione. Dobbiamo convincere insieme tutte le persone, che hanno imparato ad apprezzarci per il lavoro che ognuno a modo suo fa ogni giorno per creare una frattura nella narrazione dominante, che è arrivato il momento di ritirare il nostro sostegno al nuovo apartheid e al genocidio smettendo non solo di comprare prodotti israeliani, ma anche i prodotti di tutte quelle aziende che per due lire, di fronte a un genocidio, preferiscono girare la testa dall’altra parte e continuano a fare affari con Israele. Ci state?

manifestazione pro Palestina a Berlino

Nel silenzio assordante dei media che da settimane se ne inventano di tutti i colori per giustificare il genocidio e la pulizia etnica in corso a Gaza, decine di milioni di persone continuano a riempire giorno dopo giorno strade e piazze di tutto il pianeta per esprimere la loro solidarietà al popolo palestinese e la loro opposizione al sostegno incondizionato al genocidio espresso dai loro governi.

Da Stoccolma, Sidney, New York, Barcellona, Parigi, Dublino e Berlino, nonostante manifestare contro il genocidio fosse vietato e, alla fine, sono state arrestate quasi 200 persone:

Sempre a New York, giovedì scorso, in 500 hanno improvvisato un sit in direttamente dentro il congresso USA per chiedere una risoluzione per il cessate il fuoco immediato. Li hanno accusati di essere antisemiti. Erano tutti ebrei.

E questa è la mappa in tempo reale che Al Jazeera sta tenendo delle principali proteste al mondo:

In queste ore drammatiche, durante le quali qualsiasi persona che abbia conservato un minimo di umanità si sente squarciata dentro dal senso di impotenza di fronte a ingiustizie così colossali e abominevoli e totalmente isolata di fronte a governi e media mainstream che inneggiano con gioia allo sterminio di massa, alla pulizia etnica e al genocidio, queste gigantesche maree di umanità varia che, da giorni e giorni, invadono le nostre strade sono un’incredibile boccata di ossigeno. Purtroppo, però, rischiano anche di non essere altro che un lenitivo per noi che stiamo dalla parte giusta del mondo; il punto col quale facciamo ancora troppa fatica a fare i conti fino in fondo è che, anche se non ne siamo ancora molto consapevoli, siamo in guerra e – ammesso e non concesso che quelle nelle quali viviamo siano mai state democrazie, in particolare negli ultimi 30 anni – di sicuro hanno definitivamente smesso di esserlo da quando siamo in guerra. Equesto sarebbe davvero il caso ce lo mettessimo tutti in testa per bene: in un paese in guerra di spazio per la democrazia non ce n’è, anche se è una guerra un po’ atipica, ibrida, asimmetrica, inedita.
Fortunatamente, però, per i popoli un modo per farsi sentire c’è sempre; il disfattismo non è altro che una delle tante cazzate che ci hanno lasciato in eredità 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di ideologia del thatcheriano “There is no alternative”. I disfattisti provano a spacciare le loro sentenze da bacio perugina letto al contrario come il frutto di un lucido cinismo che ha il coraggio di guardare dritta negli occhi la realtà, ma in realtà nel disfattismo non c’è proprio niente di lucido perché, molto banalmente, la realtà si può sempre modificare. Ma per farlo, appunto, serve lucidità, serve pragmatismo. Come sottolinea lucidamente Shahid Bolsen di Middle Nation “esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive”. Le proteste meramente dimostrative non vanno sminuite: hanno anche loro una loro importanza, come quelle di questi giorni in solidarietà alla Palestina e contro il genocidio. “Esprimere sostegno per la Palestina e condanna per il genocidio è importante” sottolinea Bolsen “sopratutto in Occidente, dove semplicemente stanno cercando di eliminare del tutto la questione palestinese dal dibattito pubblico, e stanno cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella del regime sionista”. Ma se vogliamo andare oltre la mera testimonianza e dare un contributo reale per ostacolare il genocidio, bisogna inventarsi qualcosa di diverso. E visto che i governi in guerra orecchie per sentire non ne hanno, forse sarebbe il caso di rivolgersi a qualcun altro: “affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive” suggerisce Bolsen “è necessario che si focalizzino sul settore privato”. Insomma: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. BDS. Per chi si occupa di cose palestinesi da un po’ non suona certo nuova: è una campagna nata ormai 18 anni fa – nel 2005 – quando, dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sudafrica, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Nei successivi 15 anni, ogni volta che si azzardavano a sottolineare che l’occupazione sionista era un regime di apartheid, venivano immediatamente accusati di antisemitismo ma, come si dice, “prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci” e così, finalmente, da un paio di anni parlare di apartheid non è più tabù. Ma, vinta la battaglia culturale per definire il regime esattamente per quello che è, ora però rimane ancora da combattere da capo la battaglia che anche in Sudafrica all’apartheid mise fine. Come ha scritto Omar Barghouti, che della campagna BDS è stato uno dei fondatori e tutt’oggi ne è una delle voci più autorevoli, “la campagna di boicottaggio non è mai stata così importante come oggi”. Certo, una campagna vecchia 18 anni sembra difficile trasformarla di nuovo in uno strumento all’altezza delle sfide di oggi; in realtà però la storia ci racconta una cosa diversa.
Il movimento per il boicottaggio del regime di apartheid sudafricano, infatti, nacque per mano di Nelson Mandela e una manciata di altri militanti in esilio a Londra addirittura nel lontano 1959. Per cantare vittoria dovettero attendere altri 35 anni, 35 anni di lotte, di sofferenze inenarrabili e di gesti eroici, ma anche di intelligenza tattica e di pragmatismo: non si tratta di gettare generosamente il cuore oltre l’ostacolo. Si tratta di darsi obiettivi ragionevoli e di perseguirli con lucidità. Un pezzo importante di lavoro nel tempo è stato fatto, e basta visitare i siti italiano e internazionale della campagna BDS per avere un primo cassetto degli attrezzi. Un vademecum molto pratico di cose da fare, poi, ce lo fornisce proprio Shahid Bolsen: trovate il suo intervento integrale doppiato in italiano da noi apposta per l’occasione sul nostro canale You Tube:

Ma sopratutto, ribadisco, qui a giocare un ruolo di primo piano dovremmo essere proprio noi, quella selva di canali, influencer e content creator nati apposta per rompere il monopolio della propaganda liberaloide e imperiale, a prescindere da tutte le differenze: parliamoci, organizziamoci, coordiniamoci, dimostriamo che fuori dalla bolla dorata del mainstream un’altra informazione è possibile. Un’informazione che è al servizio dei diritti dei popoli, invece di una fabbrica di fake news per giustificare il genocidio

Dalla Testimonianza alla Vittoria – come boicottare il genocidio secondo Shahid Bolsen

NONCIELODIKONO!!! USA: “Sul pallone spia avevano ragione i cinesi”. Ma i media censurano la notizia

Fermi tutti, fermi tutti, perché finalmente abbiamo le prove! L’informazione mainstream non è semplicemente propaganda!

Magari, quello sarebbe già buono.

È proprio una fabbrica di fake news.

Sfacciata, plateale.

Febbraio del 2023.

Tra i cieli del Montana, d’improvviso appare un gigantesco pallone gonfiabile bianco. La sentenza è unanime. Tutte le prime pagine dei giornali italiani titolano all’unisono nello stesso identico modo: un sofisticato pallone spia cinese ha provocato gli USA e ha invaso il loro spazio aereo. Per tre giorni non si è parlerà di altro; d’altronde, non era mica una cosa da niente.

Il pallone”, sentenziava Bretella Rampini, “di sicuro avrà raccolto una ricca messe di fotografie sorvolando una base di armi nucleari nel Montana”. DI SICURO, mica chiacchiere.

E ora facciamo un piccolo salto avanti nel tempo 

17 settembre

Il Generale Mark Milley è ospite al celebre programma domenicale della CBS.

Siamo piuttosto certi”, afferma il generale, “che il pallone non abbia raccolto nessuna informazione e che nessuna informazione sia stata trasmessa in Cina”.

In sala cade il gelo e pure nelle redazioni dei giornali italiane.

Come facciamo a riportare questa notizia senza perdere la faccia e dimostrare che tutto quello che diciamo sulla Cina e in generale sui paesi che non fanno da cagnolini da riporto a Washington sono gigantesche minchiate?

Semplice, basta fare finta di niente.

La clamorosa smentita a una settimana di speculazioni di ogni genere, per giustificare il muro dei guerrafondai a stelle e strisce innalzata contro il dialogo con la Cina, è letteralmente scomparsa.

Niente, silenzio, zero assoluto.

Il controllo dei media da parte del partito unico della guerra e degli affari, d’altronde, è esattamente a questo che serve: a fabbricare e dare il massimo risalto alle fake news prima, e letteralmente a nascondere le notizie vere poi.

Un pallone aerostatico”, scriveva il 4 Febbraio scorso su la Repubblichina l’inarrivabile Paolo Mastrolilli, “può sembrare uno strumento di spionaggio rudimentale e ovviamente non è l’unico mezzo di cui dispone la Cina, che ha anche satelliti e armi moderne come i missili ipersonici. Però”, ci avvisa Mastrolilli, “l’atto di sfida, o di irresponsabilità, rivela il vero umore di Xi”.

Subito sotto, l’ineffabile Di Feo, che ha fatto della necessità di parlare di cose che palesemente non conosce una vera e propria arte, rilanciava, e metteva in allerta contro pericolose sottovalutazioni. Questi giganteschi palloni aerostatici, sottolineava Di Feo, “sono spie di sorprendente semplicità ma anche efficacia, capaci di attraversare i continenti cavalcando le correnti per raccogliere informazioni top secret”.

C’è poco da fare ironia, rilanciava Stefano Piazza su La Verità. “Occorre ricordare” infatti, scriveva, “che in Montana si trova nientepopodimeno che la Malmstrom Air Force Base, una delle tre basi americane con missili nucleari, e nello Stato sono presenti 150 missili balistici intercontinentali”.

È per questo che, come scriveva Maurizio Stefanini su Libero, “il governo degli Stati Uniti non ha la minima voglia di scherzare sul pallone proveniente dalla Repubblica Popolare che ha sorvolato una base con missili nucleari

Quella che però in assoluto c’ha marciato di più, ovviamente, è la mitica Giulia Pompili, che le spara così grosse da essersi guadagnata un posto al sole nella capitale web dei bimbiminkia italiani nota come la miniera di Ivan Grieco. “La Cina ha ammesso che si tratta di un suo dirigibile”, scrive, che però sarebbe molto banalmente uno strumento “civile, di quelli usati da quasi tutte le agenzie metereologiche per fare rivelazioni atmosferiche”.

Ma, sostiene la Pompili, “è completamente falso: i palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, perché funzionano con strumenti miniaturizzati, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”.

Per un attimo, avevo sperato che la totale incompetenza della Pompili fosse limitata ai temi economici. E invece in tema di cazzate è proprio tuttologa la ragazza.

Come avevamo sottolineato proprio mentre questa gara incredibile a chi la sparava più grossa era in pieno svolgimento, infatti, le sarebbe bastato dare un’occhiata veloce al sito della NASA, dove da anni si descrivano nei minimi dettagli missioni che sono in corso da decenni e che prevedono l’impiego di palloni aerostatici “in grado di contenere un intero stadio di football dentro” per missioni scientifiche che mediamente durano oltre 45 giorni (https://www.nasa.gov/scientific-balloons/types-of-balloons).

Ma quello che preoccupa ancora di più la Pompili, non è cosa fa quel pallone, che tanto ormai tutti spiano tutti, ma la sfacciataggine. “Non è una novità che la Cina spii l’America”, sottolinea infatti la nostra istrionica minatrice, “ma la crisi politica e diplomatica che il pallone da ricognizione ha aperto riguarda soprattutto un’operazione sfacciata, visibile, una violazione dello spazio aereo con un messaggio chiaro: arriviamo ovunque”.

Ma anche sulla provocazione sfacciata, duole dirlo, la Pompili non ci aveva visto proprio benissimo, diciamo. Il pallone cinese infatti, ha dichiarato domenica scorsa Milley, sarebbe entrato in territorio USA involontariamente, a causa del vento: “A quelle altitudini il vento è incredibilmente forte”, ha dichiarato il Generale, “i motori di quel pallone non sono in grado di andare contro quel genere di vento a quell’altitudine”. Alla ricerca spasmodica dell’ennesimo casus belli immaginario, la Pompili ha continuato a ricamare sulla faccenda per giorni e giorni, articoli su articoli.

Anche quando ormai negli USA la situazione era ormai completamente sfuggita di mano

Alla Fox News uno squadrone di attivisti neoconservatori a libro paga di vari think tank finanziati dall’industria bellica si alternava, affermando all’unisono che Pechino stava usando i palloncini per “preparare il campo di battaglia” per un intervento militare diretto sul suolo statunitense.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg affermava che il pallone spia non rappresentava solo un’evidente minaccia per gli USA, ma anche per tutti gli alleati. “Il pallone sopra gli Stati Uniti”, aveva dichiarato pubblicamente, “conferma il modello di comportamento cinese. Abbiamo bisogno di essere consapevoli del rischio costante rappresentato dall’intelligence cinese e intensificare le nostre azioni per proteggerci e reagire”.

Il top però era stato raggiunto solo alcuni giorni dopo, quando gli USA spinti dalla follia sinofobica dell’opinione pubblica, in preda al panico, avevano cominciato a tirar giù tutto quello che di gonfiabile vedevano nel cielo; fino a quando un gruppo di amatori dell’Illinois aveva denunciato che un suo pallone per le misurazioni atmosferiche da appena 12 dollari di valore, era stato tirato giù con un missile che di dollari da solo ne costava poco meno di 450 mila.

L’analisi della Pompili? “L’America abbatte quattro oggetti volanti”, scrive. Ma “non è isteria, è un messaggio chiaro alla Cina”. “Il messaggio è trasparente, chiaro”, scrive enfaticamente la Pompili, “ed è diretto contro la Cina, che invece porta le sue contro-accuse come un semplice show di propaganda”. Che tra l’altro dimostra come la Pompili, oltre a spararle grosse, scriva quasi peggio di David Puente. Ma con tutti i quattrini che c’hanno per fare propaganda, non lo trovano un pennivendolo altrettanto servizievole ma che almeno sappia scrivere decentemente?


Ma al di là della ghiotta occasione per perculare per l’ennesima volta l’Armata Brancaleone del giornalismo analfoliberale italiano e per raccontare un caso concreto di come funziona la macchina della propaganda del partito unico della guerra e degli affari, le nuove rivelazioni del Generale Milley sono interessanti anche, se non soprattutto, da un altro punto di vista. Per quanto possa apparire ridicolo infatti, le fake news sul pallone spia non sono state semplicemente l’ennesimo esercizio di retorica suprematista, ma hanno avuto conseguenze politiche piuttosto pesanti.

Come sicuramente ricorderete, poco prima si era celebrato il G20 di Bali, durante il quale Xi e Biden si erano stretti la mano, e avevano promesso una “nuova distensione”. Il primo passo, sarebbe dovuto essere il viaggio ufficiale di Blinken a Pechino previsto proprio per quel Febbraio. Ma l’isteria scatenata dall’incidente del pallone, strumentalizzata a più non posso dalle fazioni USA più radicalmente sinofobe, aveva spinto l’amministrazione Biden ad annullarlo.

I mesi successivi, hanno rappresentato probabilmente il livello più basso delle relazioni tra le due grandi potenze da qualche anno a questa parte. Nel giro di pochi mesi i cinesi hanno sfornato una quantità gigantesca di documenti, studi e report che denunciavano tutte le storture degli USA con un linguaggio di un’aggressività che raramente si era vista prima: dalla critica al sistema economico e alle diseguaglianze che genera, a quella sulle violazioni sistematiche del diritto internazionale.

Ma non solo. Convinta di non poter trovare nessun interlocutore minimamente serio ed affidabile oltrepacifico, la Cina ha passato mesi e mesi a premere sull’acceleratore dei rapporti sud-sud, incentivando così quel processo di contrapposizione tra Sud Globale e Nord Globale che fino ad allora aveva sempre cercato di stemperare. In quanto di gran lunga prima potenza economica globale reale infatti la Cina ha tutto l’interesse a mantenere almeno una parvenza di pace e di ordine e poter così procedere tranquillamente con gli affari e con il commercio. In tempo di pace il declino relativo del Nord Globale e degli USA in particolare, e l’ascesa cinese, sono letteralmente inarrestabili. Ma quando arrivi a far saltare un incontro di quel livello a causa di una vaccata come quella del pallone gigante, significa che probabilmente fare lo sforzo di provare a concordare alcuni paletti per evitare un’escalation potrebbe essere una totale perdita di tempo e pure di dignità, che è una cosa che da quelle parti ha ancora un certo valore.

Ed ecco così che la nuova distensione è andata a farsi benedire.

Quando le acque poi si sono calmate però, gli USA hanno per lo meno fatto finta di voler riprendere quel percorso: la visita di Blinken alla fine c’è stata e poi pure quella della Yellen, del Segretario di Stato al Commercio e molte altre ancora. Tutti che affermavano esplicitamente che l’idea stessa di disaccoppiare le due economie è una follia e che non hanno nessuna intenzione di ostacolare lo sviluppo cinese, ma che semplicemente vogliono emanciparsi dalla Cina per tutta una serie di materie prime e di prodotti strategici, e che non sono disposti ad aiutare la Cina a colmare il gap con gli USA in termini di capacità militare.

Nel frattempo però le sanzioni unilaterali non solo sono sempre tutte lì, ma sono pure peggiorate, a partire dal decreto che ha sancito l’impossibilità per i capitali occidentali di andare a investire in Cina nei settori tecnologici più avanzati: dall’intelligenza artificiale, al quantum computing.

Insomma, pochi fatti, e tante chiacchiere.

E dopo la pagliacciata del pallone spia, i cinesi le chiacchiere che non sono accompagnate anche dai fatti hanno deciso che non gli bastano più.

E negli USA c’è chi comincia a credere che forse è arrivato il caso di dimostrare un po’ di buona volontà in più. Anche tra le fila della destra.

John Muller è uno degli analisti di punta del Cato Institute, il famigerato think tank fondato e finanziato dal miliardario ultrareazionario Charles Koch e su Foreign Affairs ha appena pubblicato un lungo articolo che traccia la strategia che gli anarcocapitalisti made in USA vorrebbero adottare nei confronti della Cina. “Il caso contro il contenimento”, si intitola. Quella “strategia non ha vinto la Guerra Fredda e non sconfiggerà la Cina”. Nell’articolo Muller fa una lunga disamina della strategia del contenimento adottata dagli USA contro l’URSS durante la Guerra Fredda, e che imponeva a “Washington di respingere i progressi politici e militari sovietici ovunque apparissero, cercando così di impedire la diffusione del comunismo internazionale, e controllando il potere dell’unione sovietica senza dover ricorrere a una guerra diretta”. Secondo Muller la buona fama di cui gode questa strategia, sarebbe del tutto ingiustificata. “In realtà”, scrive, “più che il contenimento, furono gli errori e le debolezze dell’Unione Sovietica a causarne la caduta”.

Muller ricorda come quella strategia fosse stata descritta in dettaglio in un altro articolo del 1947 pubblicato proprio su Foreign Affairs. “Le fonti della condotta sovietica”, si intitolava. Firmato dal padre ufficiale della strategia del contenimento: l’ambasciatore e studioso di Scienze Politiche George Frost Kennan. Ma “Nei decenni successivi all’articolo”, sottolinea Muller, “il contenimento, oltre a ispirare fallimenti come l’invasione della Baia dei Porci e la guerra del Vietnam, sembrava aver impedito a pochi paesi di diventare comunisti

Nei confronti diretti dell’espansionismo sovietico, invece, riflette Muller, il contenimento era tutto sommato inutile. “I sovietici”, scrive Muller, “non avevano bisogno di essere scoraggiati: cercavano di aiutare e ispirare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, ma non avevano mai avuto interesse a condurre qualcosa di simile al ripetersi della Seconda Guerra Mondiale” e “dopo aver analizzato gli archivi sovietici, lo storico Vojtcch Mastny osservò che tutti i piani di Mosca erano difensivi e che l’enorme rafforzamento militare in Occidente “era irrilevante nel scoraggiare una grande guerra che il nemico per primo non aveva intenzione di lanciare””.

Secondo Muller, tutte le sconfitte subite dal comunismo in quegli erano autoinflitte: dai conflitti interni al campo comunista stesso, alle repressioni anticomuniste in alcuni paesi del sud del mondo, come la carneficina indonesiana. E quando invece vincevano da qualche parte, era una vittoria di Pirro, come nel caso del Mozambico nel ‘77, o in Nicaragua nel ’79.

Tutti paesi, scrive Muller, che “presto divennero casi disperati a livello economico e politico”. E anche nel crollo finale dell’impero sovietico, il contenimento secondo Muller c’entrerebbe poco o niente. “A quel punto”, sostiene Muller, “Washington aveva da tempo assunto che la Guerra Fredda fosse finita e aveva ufficialmente abbandonato quella politica. E Anche Mosca”.

Ora, ovviamente si tratta di una sequenza di puttanate che suscita quasi ammirazione. Se fosse italiano Muller lavorerebbe senz’altro per Il Foglio. Ma le implicazioni di questa analisi totalmente delirante invece sono bellissime. Secondo Muller infatti, come il contenimento non avrebbe avuto nessun ruolo nell’ostacolare l’ascesa dell’Unione Sovietica, allo stesso modo sarebbe del tutto inefficace per contrastare quella cinese. “La cosa più preoccupante per la Cina, come lo è stata per l’Unione Sovietica”, scrive Muller, in realtà, “è la sua crescente serie di difficoltà interne”.

Muller a questo punto fa un altro lungo elenco completamente delirante dei fallimenti immaginari della Cina: dalla corruzione endemica, al degrado ambientale, passando per il rallentamento della crescita e pure ovviamente il sostanziale fallimento della Via della Seta. Quasi per caso in mezzo a questa sequela di minchiate, ne dice una giusta. Come per l’Unione Sovietica, sottolinea infatti Muller, “la maggior parte delle mosse espansionistiche della Cina non hanno nulla a che fare con la forza. Come ha affermato l’ex diplomatico statunitense Chas Freeman: “Non esiste una risposta militare a una grande strategia costruita su un’espansione non violenta del commercio e della navigazione”.

Quindi non c’è motivo di allarmarsi, e basta “sedersi tranquilli ed aspettare

Si tratta della saggezza di restare indietro”, scrive Muller, “mantenere la calma e lasciare che le contraddizioni nel sistema del tuo avversario diventino evidenti”. “I politici”, conclude Muller, “dovrebbero tenere a mente una massima di Napoleone Bonaparte: “Non interrompere mai il tuo nemico quando sta commettendo un errore””.

Ecco, esatto. È quello che diciamo pure noi di fare per accelerare il declino.

Che vi state a sgolare a fare voi analfoliberali. Il globalismo neoliberista è un modello di sviluppo troppo superiore rispetto al multipolarismo industriale e produttivo, è evidente.

Basta che abbiate un po’ di pazienza, la smettiate di fare colpi di stato, cambi di regime, guerre e sanzioni economiche illegali a destra e manca e il vostro amato sistema alla lunga non potrà che dimostrare tutta la sua superiorità. E alla fine vincerete, insieme a Koch, a Giulia Pompili, a Federico Rampini e a John Muller.

Più o meno intorno al 31 settembre del duemilacredici.

Se anche tu sei per un media che incentivi gli analfoliberali a crogiolarsi nelle loro fantasie suprematiste senza rompere troppo i coglioni mentre il mondo nuovo avanza e gli prepara il funerale, aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU).

E chi non aderisce è Giulia Pompili.

Il giornalismo Occidentale è una truffa: Le confessioni di un sicario dei media mainstream

Malafede e assegni in bianco”.

Questi i due termini selezionati con cura da Patrick Lawrence per annunciare l’uscita del suo prossimo imperdibile lavoro sulla morte del giornalismo negli USA, e quindi in generale nel Nord Globale. Una storia vissuta in prima persona. Lawrence infatti dopo essersi fatto le ossa tra le scrivanie del leggendario National Guardian, “tra gli esempi più straordinari di giornalismo del ventesimo secolo”, ha continuato per decenni a girare il globo in lungo e in largo per il New Yorker e l’International Herald Tribune. Almeno fino a quando, scrive Lawrence, “il declino dei media americani divenne evidente anche tra i non addetti ai lavori. A quel punto, amici e conoscenti cominciarono a porsi tutti la stessa domanda: i giornalisti credono davvero a ciò che scrivono? oppure sanno che ciò che scrivono è fuorviante, se non addirittura totalmente falso, ma lo scrivono lo stesso per mantenere il loro posto di lavoro?”.

Bella domanda e bella pure la risposta: agli amici curiosi”, scrive Lawrence, “dico sempre che i giornalisti non sono bugiardi. non in senso stretto, per lo meno. “un uomo non mente su ciò che ignora”, scrive Sartre ne l’Essere e il nulla, e non si può dire propriamente che menta “quando diffonde una menzogna della quale è lui stesso la prima vittima””.

Per capire il dramma del giornalismo ai tempi del dominio incontrastato delle oligarchie finanziarie, sostiene Lawrence, bisogna capovolgere Cartesio: ”penso, quindi sono”, scrive Lawrence, “diventa “sono, quindi penso.” Sono un giornalista del Washington Post e questi, quindi, sono i miei pensieri e la mia visione del mondo. Non ho mai incontrato un giornalista capace di riconoscere ciò che ha fatto a se stesso nel corso della sua vita professionale: la sua alienazione, l’artificio di cui è fatto lui e il suo lavoro. L’autoillusione è la totalità della sua coscienza”.
Nel mio piccolo (rif a Giuliano Marrucci, ndr), posso solo che confermare. Tutti i pennivendoli che ho conosciuto in vita mia, si autoconvincono che quello che fa comodo scrivere per compiacere l’editore, è la verità. D’altronde, non è un fenomeno che riguarda esclusivamente i giornalisti. Anche il grosso degli imprenditori, mentre si appropria di un pezzo di ricchezza collettiva, si autoconvince di creare ricchezza e opportunità per i suoi dipendenti. Ma qui è già più facile trovare qualche eccezione: di imprenditori che sono perfettamente consapevoli che stanno prendendo e non dando, ce ne sono assai e in parecchi se ne vantano anche. Di giornalisti che sono consapevoli di mentire, o comunque di inquinare i pozzi, decisamente meno e il paradosso è che al contrario dei giornalisti, a volte, gli imprenditori in realtà la ricchezza la creano davvero. Certo, non le oligarchie finanziarie, che sono esclusivamente parassitarie e non hanno nessuna funzione sociale positiva, ma il medio piccolo imprenditore che vive ancorato alle dinamiche dell’economia reale, a’ voglia. I giornalisti quindi, probabilmente, sono l’unica categoria che vive interamente nella menzogna proprio in quanto categoria, e non semplicemente in quanto singoli individui.

Ma come si fa a spingere un’intera categoria, tra l’altro composta di persone mediamente istruite, ad autoingannarsi in modo così sistematico? Beh, in realtà non è che ci voglia proprio la scienza…

I quattrini bastano e avanzano: quattrini, e proprietà dei mezzi di produzione del consenso.

Come scrive Lawrence, “esiste qualche autoinganno sotto il sole che il denaro non può chiedere e che non può ricevere?”. Qui, la mente di Lawrence va a quello che è probabilmente il capolavoro per eccellenza della critica al funzionamento dei media in una società capitalistica, The Brass Check, l’Assegno di Ottone, la monumentale opera del 1919 di Upton Sinclair. “Una denuncia spietata del potere che ha il capitale di corrompere la stampa”, scrive Lawrence.

Per giornalismo, in America”, scrive Sinclair, “intendiamo l’attività e la pratica di presentare le notizie del giorno nell’interesse del potere economico”. Forse, in maniera ancora più drastica, del potere di quello Stato che del potere economico è il garante ultimo. Insomma, come diciamo noi complottisti, HA STATO LA CIA!

Lawrence ricorda come nel gennaio del 1953 il Washington Post pubblicò un editoriale dal titolo “choice or chance”, scelta o possibilità. Parlava del rapporto tra CIA e media. L’organizzazione allora aveva appena cinque anni e quel poco che si sapeva su come operava concretamente sollevava più di qualche dubbio. Sostanzialmente, ci si chiedeva se era legittimo che l’intelligence non si limitasse ad analizzare le informazioni, ma operasse per crearle. Ovviamente, sottolinea Lawrence: “non si può accusare la CIA di aver inventato le operazioni clandestine, i colpi di stato, gli omicidi extragiudiziari, le campagne di disinformazione, le truffe elettorali e la corruzione delle alte sfere”. Piuttosto, quello che stava diventando evidente in quegli anni, e che preoccupava anche il Post, è che “la CIA stava istituzionalizzando tali intrighi, e stava definendo la condotta che avrebbero tenuto gli USA durante la Guerra Fredda”

Il Post ovviamente non metteva in alcun modo in questione la necessità di contrapporsi al mondo sovietico senza se e senza ma, ma sollevava seri dubbi sul funzionamento dell’agenzia, le cui attività accusava esplicitamente di essere “incompatibili con la democrazia”. Ma come sottolinea Lawrence, “interessante quanto l’editoriale del Post, fu il silenzio assoluto che seguì. sull’argomento, non venne più pubblicato nient’altro”. Pochi mesi dopo, l’operato della CIA rovesciava i governi democratici e patriottici di Mossadegh in Iran prima e di Arbenz in Guatemala poi e mese dopo mese, ricorda Lawrence, diventava sempre più creativa, “dal sigaro esplosivo nel deumidificatore di Fidel Castro, al film pornografico con un attore sosia che impersonava Sukarno”.

Una storiellina succulenta che forse merita un breve accenno. Era il 1962, quando la CIA decise infatti di provare a screditare l’immagine di Sukarno facendolo passare per un uomo di facili costumi. Decisero così di realizzare un film porno, con un attore che doveva fare da sosia al Presidente anticolonialista indonesiano. Purtroppo, non ne trovarono uno adatto, ed ecco allora il colpo di genio: una raffinata maschera in lattice che riproduceva i lineamenti del leader. Speravano che il grosso della popolazione alla quale si rivolgevano, i contadini semianalfabeti dell’Indonesia, fossero così fessi da non capire la differenza: ovviamente fu un flop enorme. Tre anni dopo si rivolsero a strumenti più tradizionali. Con il sostegno dei servizi britannici avviarono una gigantesca campagna di disinformazione tesa ad attribuire le difficoltà economiche dell’Indonesia al rapporto che Sukarno stava stringendo con la Cina comunista di Mao. Seguì il tradizionalissimo massacro di circa 1 milione di militanti comunisti indonesiani. Ma ormai lo spirito combattivo che il post aveva dimostrato oltre dieci anni prima si era completamente dissolto e di quella strage i cittadini americani seppero poco o nulla.

Tutto merito del lavoro certosino di Frank Wisner.

Allen Dulles, il leggendario direttore della CIA entrato in servizio appena un mese dopo lo storico editoriale del Post, lo aveva voluto a capo delle “black operations”. “Questo”, ricorda Lawrence, “includeva il reclutamento di giornalisti come agenti, con la benedizione di editori e direttori di rete”.

Il mio potente Wurlitzer”, li definiva Wisner, riferendosi ai mitici pianoforti elettrici, che, come scrive Lawrence, “eseguivano magie musicali semplicemente premendo un tasto”. Tutti lo sapevano, ma nessuno usò dire niente per 20 anni.

E poi, scoppiò il caso watergate.

William colby”, ricostruisce Lawrence, “era stato da poco nominato a capo della CIA, e decise di rispondere con quella che per l’agenzia era ormai diventata una tecnica standard: quando le notizie ti stanno per scoppiare contro, rivela il minimo, seppellisci il resto, e mantieni il controllo di ciò che ora chiamiamo “la narrativa””. Ed ecco così che Colby passa la sua polpetta avvelenata a un giornalista del Washington Star-News, si chiamava Oswald Johnston. Un giornalista piuttosto inutile, ma molto servizievole. Il 30 novembre del 1973 Johnston pubblica l’articolo della sua professionalmente insignificante vita. “La CIA”, si legge, “ha circa tre dozzine di giornalisti americani che lavorano all’estero per lei come informatori sotto copertura”. Ma non c’è da allarmarsi: “si ritiene che Colby abbia ordinato il licenziamento di questa manciata di giornalisti-agenti”.

Il resto della stampa”, scrive Lawrence, “lasciò che le rivelazioni di Johnstone affondassero senza ulteriori indagini”. Due anni dopo il congresso dette vita alla famosa Commissione Church. “Doveva essere il primo tentativo concertato di esercitare un controllo politico su un’agenzia che da tempo, come diciamo ora, era “diventata canaglia”, scrive Lawrence. Peccato fosse destinata al fallimento: nessuno della stampa è stato chiamato a testimoniare, nessun corrispondente, nessun redattore, nessuno dei vertici dei principali quotidiani o delle emittenti”. In piccola parte, ricorda Lawrence, laddove non arrivò la commissione Church, arrivò il mitico Carl Bernstein. In un lunghissimo articolo pubblicato da Rolling Stone, provò a riportare lo scandalo alla sua reale dimensione: a libro paga della CIA non c’erano tre dozzine di giornalisti, ma oltre 400. “C’erano tutte le testate”, ricorda Lawrence, “times, post, cbs, abc, nbc, newsweek, the wires”.

Non era il problema di qualche mela marcia. Era il cuore del funzionamento dell’informazione, che sugli aspetti delicati per la sicurezza nazionale, era e rimane pura propaganda. Quelli, sottolinea Lawarence, erano bei tempi perchè appunto, ad essere pura propaganda almeno era solo una parte dell’informazione. Una parte cruciale, intendiamoci. ma pur sempre una parte. “Oggi” invece, sottolinea giustamente Lawrence, “tutto il giornalismo mainstream è “embedded”, perchè oggi il campo di battaglia è ovunque”.

Grazie Patrick, per averlo scritto così chiaramente.

È quello che come OttolinaTV sosteniamo da sempre, e che ci ha spinto a imbarcarci in questa avventura: il mondo nuovo avanza, e il vecchio mondo è in assetto di guerra e l’informazione ufficiale non è altro che la costruzione quotidiana del fantastico mondo incantato della Post Verità. Lawrence però, come noi, non è tipo da scoraggiarsi e abbandonarsi al pessimismo: non c’è motivo di aspettarsi che i media mainstream rivendichino l’indipendenza che hanno ceduto molto tempo fa”, sottolinea, “ma attraverso i media indipendenti i giornalisti oggi hanno la possibilità di fare la cosa giusta. e i media indipendenti sono destinati a contare sempre di più”.

Per farlo però, hanno bisogno del sostegno di tutti. Per parlarne insieme, ti aspettiamo da giovedi 14 settembre all’Hotel Terme di Fiuggi insieme agli amici dell’associazione Idee Sottosopra.

Un’altra tappa fondamentale per prepararci a quello che abbiamo definito l’autunno caldo della controinformazione. Nel frattempo, come fare a sostenere concretamente la creazione finalmente di un primo vero e proprio media indipendente, ma di parte, lo sai già:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Bruno Vespa