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Tag: linguaggio

COME WASHINGTON E LE OLIGARCHIE HANNO PRIVATIZZATO ANCHE IL NOSTRO LINGUAGGIO

Resilienza, riforma, modernizzazione, Spendig review, governance. Anche nel 2024, nell’occidente collettivo, si continuerà a combattere una guerra invisibile ma decisiva. Il campo di battaglia sono le nostre parole, e l’obiettivo finale è il controllo totale del nostro linguaggio e quindi del nostro pensiero. Come nel romanzo 1984 di Georg Orwell, nel quale un distopico governo totalitario coniava una neolingua che rendeva di fatto impossibile criticare il regime o anche solo formulare idee critiche e non allineate, anche il regime neoliberale è da tempo partito all’assalto del nostro vocabolario per coniarne uno nuovo più funzionale ai propri scopi. La neo-lingua liberista, sotto la sua patina smart e human friendly, ha lo scopo deliberato di mascherare in modo perverso la realtà delle cose e, come scrive Orwell, “di far suonare vere le menzogne e rispettabile l’assassinio”. Anche in Italia, con buona pace della nostra millenaria cultura e tradizione linguistica, molti termini scompaiono per fare posto a una retorica d’accatto infarcita di locuzioni ideologiche e parole anglosassoni, che, come sottolinea il giornalista Luciano Lago, “non hanno apportato niente di nuovo rispetto ai concetti del vecchio vocabolario ma che piuttosto hanno il più delle volte mascherato concetti relativi all’ideologia del mercato caratterizzati da elusione di responsabilità, di limitazione o taglio di diritti, di spese sociali e di compatibilità con il mercato”.
Il nuovo lessico neoliberista ha quindi adottato le stesse tecniche messe in atto dai precedenti regimi totalitari con l’obiettivo di rieducare le masse. Esempi tangibili sono il linguaggio utilizzato in fondamentali progetti politici neoliberali come il Jobs act e il Recovery plan, o ancora, come dimostrato da Marco D’Eramo nel suo libro La guerra Invisibile, il nuovo significato che stanno assumendo parole come “ottimizzazione”, “efficientamento”, “progresso”. Clamoroso in questo senso è il caso di “Riforma”, che per il nostro stato sociale e per gli interessi del 99 per cento è diventato sinonimo di minaccia e maledizione; “riforma delle pensioni” significa lavorare sempre più a lungo per sempre meno contributi; “riforma della scuola” significa assorbimento dell’educazione pubblica nelle logiche del capitale e del mercato privato; “riforma del welfare” significa riduzione delle protezioni sociali; “riforma della sanità” significa tagli pubblici alla sanità pubblica e nuovi incentivi alla sanità privata e “riforme strutturali” significa riadattamento dello stato nazionale democratico alle necessità economiche del neoliberismo.

Ma questa subdola e pervasiva neolingua, che tenta di mascherare l’ ideologia neoliberista e gli interessi delle oligarchie finanziarie, non è che il sintomo terminale della nostra sottomissione culturale e politica nei confronti di queste stesse oligarchie, e della definitiva sottomissione del resto dell’occidente agli Stati Uniti, che attraverso il controllo delle parole mira a governarci senza troppe polemiche e rotture di scatole.

Siamo sicuri di volerglielo lasciar fare?

HOLLYWOOD È FALLITA (e anche la Cina se la passa malino)

Svolta storica: sì all’Ucraina in Europa”; Zelensky: “una vittoria per tutti”; dopo una lunga sequenza di pessime notizie, venerdì mattina le redazioni di tutti i principali quotidiani italiani si sono svegliate con l’oro in bocca. Ma quale fallimento dell’Ucraina? Popo’ di gufacci maledetti!
A ringalluzzire i sogni bagnati di una propaganda alla disperata ricerca di uno spillo di buone notizie in un pagliaio di schiaffi a doppia mano, è il sì definitivo all’inizio dei negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea: “E’ molto semplice” scrive gasatissimo l’impareggiabile Iacoboni sul suo profilo Twitter; “L’Ucraina sta combattendo per le democrazie, e dunque il suo posto è nel consesso più alto delle democrazie, l’Europa”. “Il vero sconfitto è Putin” scrive Il Giornale; “politicamente distrutto” e, fra poco, anche militarmente: “Sul campo” infatti, ammette Il Giornale, “la storia sarà ancora lunga e complessa. Ma il vento è cambiato per davvero.”
Mi sa che hanno cantato vittoria un po’ troppo presto: mentre i nostri giornalai, infatti, erano a fare bisboccia dopo aver chiuso queste edizioni trionfalistiche, a Bruxelles la festa si trasformava repentinamente nel solito vecchio corteo funebre. E così, quando venerdì mattina ci siamo messi a fare la solita rassegna stampa quotidiana, ci siamo trovati di fronte a questo scenario schizofrenico: da un alto la propaganda italica che stappava lo spumante per l’Europa che finalmente risollevava definitivamente le sorti ucraine; dall’altro, sui media internazionali: “L’UE non sostiene gli aiuti all’Ucraina” (Bloomberg); “L’Ungheria blocca gli aiuti all’Ucraina” (New York Times); “L’UE non riesce ad approvare un pacchetto di finanziamenti da 50 miliardi di euro per l’Ucraina” (Financial Times).
Quasi a presa di culo, infatti, immediatamente dopo la chiusura degli inutili giornali italiani Orban si era preso la sua rivincita e aveva messo il veto all’approvazione del bilancio, pacchetto di aiuti all’Ucraina compreso; insomma, nell’arco di poche ore l’Unione Europea aveva salvato il culo all’Ucraina a chiacchiere, per poi lasciarla precipitare nell’abisso nei fatti e quello che pochi minuti prima Iacoboni – nel suo solito italiano non esattamente brillantissimo, diciamo – aveva definito il consesso più alto delle democrazie ecco che, nel suo stesso profilo, diventa magicamente un’organizzazione disfunzionale con un bisogno disperato di cambiare radicalmente le sue regole. Dai, coerente!

Lucio Caracciolo

Ora, avremmo potuto decidere di ricamarci sopra per una settimana, anche perché la bocciatura del pacchetto di aiuti europei arriva poche ore quella degli aiuti USA e rischia veramente di mettere fine a tutti i giochi in modo ancora più drastico e drammatico di quanto non andiamo sostenendo su questo canale da un po’ di tempo a questa parte: per tutti questi aspetti vi rimando all’intervista di martedì (19 dicembre 2023 n.d.r) alle 18.30 con Lucio Caracciolo, uno dei pochissimi che, pur ostinandosi – per lo meno – a non vivere nell’universo parallelo della propaganda più surreale, continua ancora ad essere accolto nei salotti buoni dei media che contano e che, sempre venerdì, ancora prima che si sapesse del blocco del pacchetto di aiuti della UE, aveva invitato dalle pagine de La Stampa a una doccia di realismo. “Kiev è uno stato fallito” aveva dichiarato; “Zelensky ha perso e non recupererà i territori. E a pagare il conto saranno gli europei”. Ecco: con grande gioia degli analfoliberali tutto questo, per adesso, lo rimandiamo e – invece – ci concentriamo su un altro aspetto, e cioè l’annosa domanda “quanto a lungo ancora e fino a che punto siamo ancora disposti a farci prendere così sfacciatamente per il culo?”. E non intendo in particolare sull’Ucraina, o sulle beghe dell’Unione Europea… No, no: intendo proprio in generale, cioè quanto distaccata dalla realtà deve diventare la narrazione che cercano di rifilarci prima che – non dico io o gli ottoliner – ma, in generale, il grosso della gente comune si rompa definitivamente i coglioni? E dopo mezzo secolo di colonialismo culturale a stelle e strisce e di involuzione antropologica dettata dalla controrivoluzione neoliberista, è ancora possibile immaginarsi un’alternativa radicale? E da dove potrebbe nascere?
In questa incredibile fase storica nella quale il declino relativo dell’Occidente globale e dell’egemonia USA sta attraversando un’accelerazione spaventosa al di là di ogni previsione e da sostanzialmente tutti i punti di vista, c’è un aspetto in particolare dove, invece, si fa fatica a vedere anche solo il barlume di una possibile alternativa: quello che c’abbiamo nella capoccia. Nei meandri delle reti neuronali che c’abbiamo nel cervello, l’uomo nuovo partorito da 50 anni di controrivoluzione neoliberista continua a regnare incontrastato nonostante i segnali che arrivano continuamente dal mondo empirico non facciano altro che indicargli che, proseguendo in questa direzione, va contro i suoi stessi interessi, compreso quello primario di conservazione della specie; la propaganda e il lavaggio del cervello hanno sconfitto addirittura la biologia. D’altronde non dovrebbe sorprendere più di tanto.
A mettere a repentaglio l’ordine costituito in campo militare, politico ed economico – infatti – non è qualche movimento di massa o qualche partito politico nato nel cuore delle nostre società, ma l’ascesa inarrestabile degli stati sovrani del Sud globale che rivendicano con forza il loro posto nel mondo e che sempre di più hanno la forza materiale per farlo, a partire dalla Cina che però, nonostante gli incredibili successi su ogni fronte – diplomatico, economico, tecnologico -, dal punto di vista del soft power dire che arranca è un eufemismo. Intendiamoci: nelle ristrettissime cerchie delle persone più politicizzate sono stati fatti passi avanti considerevoli; quando ho cominciato ad appassionarmi alla Cina io, ad esempio (ormai un po’ più di una quindicina di anni fa), in Italia a non considerarla un inferno turbocapitalista – patria mondiale dello sfruttamento e dell’abbrutimento più distopico – eravamo veramente una manciata di persone. 15 anni dopo, tra le persone dotate di qualche neurone e che non sono proprio spudoratamente razziste e suprematiste, quella visione caricaturale degna della peggiore propaganda maccartista è diventata piuttosto minoritaria, e si è fatta strada – per lo meno – una qualche forma di rispetto e anche di curiosità ma, ciononostante, la Cina rimane ancora ben lontana dall’insinuare nei cuori delle popolazioni del Nord globale qualcosa di comparabile al sogno americano ma con caratteristiche cinesi. Certo, a pesare c’è sicuramente anche un dato materiale macroscopico: per quanto la Cina sia già oggi di gran lunga la prima potenza economica mondiale, tutta questa ricchezza è comunque distribuita in una popolazione che è oltre 4 volte superiore a quella USA che, tradotto, significa che la Cina – da tanti punti di vista – è ancora oggi un paese in via di sviluppo con un tenore di vita medio ancora lontano dagli standard più elevati del Nord globale, anche se con sempre più eccezioni. Il sogno americano, in buona parte, altro non è che l’ambizione di avere un posto a tavola nel posto più ricco dell’Occidente, ma ridurre tutto a questo aspetto potrebbe essere fuorviante; un ruolo rilevante, senza dubbio, ricopre – infatti – proprio la capacità di conquistare il nostro immaginario e, da quel punto di vista, i fallimenti della Cina sono talmente ampi ed evidenti da non poter essere liquidati con un’alzata di spalle – e non certo perché, anche su questo fronte, la secolare egemonia USA e del suo modello non presenti sempre più crepe.

Il logo di Netflix

Ne abbiamo parlato in dettaglio in un video giusto l’altra settimana: partendo da un’analisi dell’incredibile popolarità che stanno riscuotendo i contenuti di ogni genere a sostegno della causa palestinese sulle piattaforme social – o, per lo meno, su quelle che come TikTok non cercano di reprimere il fenomeno con varie forme di censura più o meno esplicite – abbiamo sottolineato come la spietata logica capitalistica applicata all’industria dell’intrattenimento abbia comportato un processo di concentrazione talmente feroce da ridurre gli attori veramente significativi addirittura appena a un paio. Risultato? Stiamo sempre più incollati davanti a qualche forma di schermo ma le cose che vediamo sono sempre più uguali tra loro: le migliaia di serie che Netflix sforna senza soluzione di continuità sono sostanzialmente indistinguibili tra loro, e il 50% degli incassi al botteghino ormai sono destinati ad appena una decina di film l’anno – e sono tutti sequel di storie inventate decenni fa; per continuare a colonizzare con successo il nostro immaginario, un po’ pochino. La forza prorompente che ha permesso agli USA di colonizzare culturalmente il grosso del pianeta, infatti, si è sempre fondata anche sulla capacità di riassorbire al suo interno una gigantesca varietà di messaggi, compresi quelli più critici; banalizzando, è un po’ la logica espressa magistralmente da due grandissimi intellettuali italiani che, come pochi altri, incarnano alla perfezione lo spirito dei tempi: Nathalie Tocci e David Parenzo. Ve li ricordate?
Di fronte a chi gli ricordava gli innumerevoli crimini di guerra commessi dal mondo liberale e democratico negli ultimi decenni, la risposta – a suo modo geniale – era che “almeno noi poi ne discutiamo, e facciamo autocritica”. Ecco; la forza della narrazione hollywoodiana è, in buona parte, sempre stata esattamente questa: anche gli USA e il mondo democratico in generale è attraversato da terribili ingiustizie, ma la forza del modello liberaldemocratico è proprio che queste, immancabilmente, a un certo punto vengono sempre alla luce e alla fine il bene vince sempre, come Sylvester Stallone in Rocky IV. E’ esattamente la stessa logica che oggi guida tutta la retorica woke che permea ogni singola serie di un certo livello di Netflix o ogni produzione della Disney: certo, la nostra società è attraversata da mille tipi di discriminazione, ma a differenza dei regimi oscurantisti e totalitari noi ne parliamo apertamente e, alla fine, il processo democratico ci permette sempre di superarle. Perché, allora, parliamo di una crisi di questo potentissimo schema narrativo? Il punto è che la narrazione mainstream è sì in grado di riassorbire anche le voci più critiche, ma solo fino a quando queste critiche, ovviamente, non mettono in discussione alcuni principi fondamentali: la libertà, la democrazia – ovviamente sempre tutti rigorosamente declinati in chiave neoliberale. La versione annacquata dei diritti civili che vediamo nella propaganda di Netflix ha esattamente questa caratteristica: non solo non mette in discussione gli assi portanti del sistema neoliberista e imperiale, ma anzi, da un certo punto di vista, li rafforza; il problema, sembrano spesso suggerire, non è che ci sono troppo neoliberismo e troppo imperialismo, anzi! Paradossalmente, è che ce ne sono troppo pochi. Per mero interesse economico, le nostre classi dirigenti corrotte scendono a compromessi con la peggio feccia del pianeta: i dittatori cinesi, i tagliagole iraniani, i petrolieri, i trumpiani, ma le democrazie liberali – è il pensiero di fondo – hanno tutti gli anticorpi per reagire a questo declino morale; basta ridare agli individui la possibilità di farsi gli stracazzi loro e tornare a mostrare i muscoli contro l’asse del male ed ecco che la giustizia tornerà a trionfare.
Il problema però, a questo punto, è che di fronte alle plateali distorsioni che caratterizzano l’impero in declino e i suoi vassalli, aumentano le critiche che non sono più compatibili con questo schema pigliatutto distopico: con sempre più frequenza emergono critiche radicali al pensiero unico neoliberista che – per quanto in modo disarticolato e spesso anche sguaiato e inconcludente, se non addirittura all’insegna di ricette che sono anche peggio del male stesso – mettono comunque in discussione le fondamenta stesse dell’intera impalcatura e violano, così, le linee rosse dell’industria dell’intrattenimento. Queste critiche, invece di essere riassorbite, vengono escluse sistematicamente: ed ecco così che c’è un pezzo sempre più grande di società e di idee che nelle 25 mila milioni di serie sfornate da Netflix non trova nessunissima forma di rappresentazione; e se questo accade in modo consistente sotto i nostri occhi nelle nostre società che sono, ormai da decenni, totalmente colonizzate culturalmente, immaginiamoci quale possa essere la dimensione del fenomeno in quello che definiamo il Sud globale. E – mi pare evidente – non si tratta di qualcosa di passeggero legato a una singola crisi. Certo, il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini arabi a Gaza è senz’altro un evento a suo modo eccezionale che amplifica a dismisura questa frattura, ma il disallineamento tra la narrazione dell’impero egemone e pezzi sempre più consistenti di società va ben oltre, e sembra essere destinato ad aumentare in modo inesorabile.

Marcello Lippi quando allenava la nazionale cinese

Ora, questa condizione strutturale mi pare evidente che, potenzialmente, rappresenti un’occasione straordinaria proprio per la crescita del soft power cinese che però, incredibilmente, rimane al palo: perché? Sicuramente le ragioni sono molteplici. In alcuni casi, dei tentativi sono stati fatti: il caso più eclatante, probabilmente, è stato quello del pallone; Xi Jinping credeva talmente tanto nel ruolo del calcio come veicolo per aumentare il soft power cinese da averlo trasformato in un ambizioso progetto di portata nazionale, con soldi a profusione riversati in impianti all’avanguardia, accademie di ogni genere, ingaggi miliardari e chi più ne ha più ne metta, ma – a quasi 10 anni di distanza – il fallimento è plateale e universalmente riconosciuto, a partire dai cinesi stessi. E “Mentre la Cina pasticcia con le sue ambizioni calcistiche” riflette Han Feizi su Asia Times “ha anche lasciato cadere la palla sui suoi sogni di avere un impatto su altre arene culturali globali: film, musica, media. Dopo un decennio di massicci investimenti e supporto normativo” continua Feizi “la Cina non ha ancora né un suo K-Pop, né i suoi Pokemon, né i suoi K-drama, né la sua CNN. E certamente nessun universo cinematografico Marvel da esportare”. Alcuni attribuiscono questi fallimenti a un non meglio precisato torpore della creatività cinese che deriverebbe dalle restrizioni alla libera circolazione delle idee e al contrasto all’insorgere di ogni forma di pensiero critico tipico di ogni regime autoritario; nonostante si tratti di un aspetto non del tutto peregrino, sinceramente rimango un po’ scettico: per 10 anni ho sentito ripetere questo tipo di argomentazioni a supporto dell’idea che la Cina era sì bravissima a copiare, ma negata a inventare e a innovare; oggi i tassi di innovazione tecnologica cinese fanno letteralmente impallidire il resto del mondo e quelle argomentazioni si sono rivelate essere fondate più sul nostro suprematismo che non su un’analisi equilibrata e razionale della realtà. Inoltre, se è vero che l’industria dell’intrattenimento cinese non ha fatto breccia nei cuori dei consumatori globali, un discorso completamente diverso va fatto per il mercato interno: il mercato domestico dell’intrattenimento ha raggiunto dimensioni gigantesche e, in grandissima parte, è completamente in mano a produttori cinesi; secondo alcuni, in realtà, questo non sarebbe altro che il frutto del protezionismo cinese e sicuramente questo aspetto ha giocato un ruolo non marginale, ma – anche a questo giro – sono argomentazioni che ho già risentito.
Per giustificare l’affermazione dei giganti cinesi del web 2.0, appunto, il pensiero suprematista è sempre ricorso al tema del protezionismo che – intendiamoci, di nuovo – non è del tutto peregrino; la messa al bando, in Cina, dell’oligopolio delle piattaforme digitali USA è stata senz’altro una condizione fondamentale per la crescita e l’affermazione dei campioni nazionali, ma dopo 15 anni le piattaforme alternative cinesi non sono certo rimaste un fenomeno domestico: WeChat è la superapp all inclusive che tutti in Occidente vorrebbero imitare (senza successo) e TikTok è, senza dubbio, la piattaforma social tecnologicamente più avanzata di tutto il mercato. D’altronde – come sa benissimo qualsiasi storico dell’industria – il protezionismo è sempre una condizione necessaria per permettere a chi parte svantaggiato di affermare i suoi campioni nazionali: non esiste sostanzialmente al mondo grande gruppo industriale che non si sia affermato grazie a una prima fase di politiche protezionistiche. Nel caso del mondo digitale la realtà parla chiaro: chi non ha adottato misure protezionistiche, come l’Europa o l’India o il Giappone, molto banalmente è stato colonizzato dai giganti USA – tra l’altro tutti abbondantemente sostenuti direttamente da Washington; eppure quello che è successo con le piattaforme digitali cinesi non è successo con l’industria dell’intrattenimento. I campioni nazionali dell’entertainment che hanno avuto l’opportunità di crescere in un ambiente protetto non sono stati in grado di conquistare i mercati globali: ma il mercato locale invece sì, eccome, nonostante – in realtà – siano stati molto meno protetti che non le piattaforme digitali. “Sebbene la Cina non sia riuscita a penetrare nei mercati culturali globali” ricorda infatti sempre Feizi su Asia Times “i film nazionali hanno sovraperformato di gran lunga quelli di Hollywood, conquistando nel 2023 tutti i primi 10 posti negli incassi al botteghino”: in Italia, per dire, i primi 10 film sono TUTTI, e dico TUTTI, made in USA, e dei primi 25 tutti a parte 3.
Ma torniamo alla Cina: il punto, quindi, non è che c’è la dittatura e non c’è la concorrenza di Hollywood – anzi, per Hollywood il mercato cinese è diventato vitale -, ma di fronte alle grandi produzioni cinesi, per il mercato locale, semplicemente, è perdente; e quindi, ancora, perché mai i film cinesi che in casa sbancano i botteghini non conquistano i mercati globali come TikTok e WeChat? E qui entriamo nell’ambito delle speculazioni infondate del Marrucci: per risolvere questo mistero, infatti, a mio avviso può essere utile fare un parallelo tra il sistema globale dell’industria culturale e il sistema globale dei flussi di capitali, e anche provare a capire come questi due fenomeni siano intimamente interconnessi; come nei mercati finanziari, infatti, assistiamo al dominio incontrastato del dollaro, così nell’industria globale dell’intrattenimento assistiamo a un dominio incontrastato di Hollywood – inteso come simbolo dell’intero oligopolio dell’industria culturale made in USA. Ora, il dominio globale del dollaro si è affermato attraverso la globalizzazione neoliberista: questa, infatti, ha comportato lo smantellamento delle varie specificità nazionali nel tentativo di creare un mercato globale dei capitali il più omogeneo possibile, all’interno del quale far circolare liberamente i capitali; e in questo mondo piatto e privo di barriere la valuta che rappresentava i capitali più forti si è imposta come l’unica vera valuta globale. Allo stesso modo, in questo mondo piatto dove sono state scientemente cestinate tutte le specificità nazionali si è affermato anche un altro monopolio: quello della costruzione dell’immaginario; nel mondo piatto, cioè, si sono affermati dei linguaggi universali: il linguaggio universale dei capitali che si chiama dollaro e il linguaggio universale dei sogni che si chiama Hollywood. Il punto, però, è che non tutti sono caduti nel tranello: la Cina, in particolare, ha accettato – obbligatoriamente – di far parte del mondo unipolare fatto a immagine e somiglianza del dollaro, ma ha mantenuto il controllo sulla circolazione dei capitali e, in questo modo, è riuscita a finanziare il suo sviluppo e a consolidare la sua sovranità e la sua indipendenza. Allo stesso modo, la Cina ha deciso di proteggere la sua identità culturale nazionale ed è sfuggita così, almeno in parte, al colonialismo culturale a stelle e strisce: questa cosa, da un lato, oggi le permette di avere un’industria culturale nazionale fondata su alcuni campioni nazionali e di non essere una succursale di Hollywood ma, dall’altro, è probabilmente proprio il singolo aspetto che maggiormente le impedisce di conquistare i mercati globali, e questo proprio perché i mercati globali dell’immaginario parlano la lingua universale imposta da Hollywood – che è esattamente quella che la Cina ha deciso di non imparare per proteggere la sua identità culturale nazionale. L’industria culturale cinese, così, oggi parla una lingua diversa da quella che si è imposta nei mercati globali e quindi, sostanzialmente, ne è esclusa; e questa cosa, tutto sommato, dovrebbe rassicurare tutte le persone che sono affette da qualche forma di sinofobia: il chiodo fisso di ogni sincero sinofobo, infatti, è sempre “Eh, vabbeh, l’egemonia USA è cattiva. Ma, finita l’egemonia USA, ecco che arriva quella cinese, che è pure peggio”.
Ora, il timore che finita un’egemonia ne arrivi un’altra, potenzialmente anche peggiore, può anche essere astrattamente un timore giustificato; la buona notizia, però, è che quando dall’astrazione passiamo al mondo reale, il timore – in questo caso – si rivela piuttosto infondato: come abbiamo provato a spiegare diverse volte, infatti, non c’è nessuna possibilità che al declino dell’egemonia del dollaro segua l’ascesa dell’egemonia dello yuan. Una valuta, infatti, per diventare valuta di riserva globale deve essere emessa da uno stato che garantisce la libera circolazione dei capitali, il che significa necessariamente che quello stato si identifica totalmente con gli interessi delle oligarchie finanziarie che, in questo schema, sono i veri detentori del potere sia economico che politico: esattamente quello che la Cina vuole evitare a ogni costo; in Cina a comandare è il partito comunista cinese e non le oligarchie finanziarie che, tra l’altro, è esattamente il motivo per cui la Cina viene definita un regime autoritario. Nella neolingua del Nord globale finanziarizzato e rigorosamente neoliberista, un regime autoritario – come dice sempre Michael Hudson – “è qualsiasi regime dove lo stato mantenga potere a sufficienza da ostacolare le ambizioni politiche delle sue oligarchie finanziarie”. Ecco; un ragionamento, tutto sommato, piuttosto simile lo possiamo fare anche per il colonialismo culturale; anche nel caso di un eventuale collasso dell’egemonia culturale USA non c’è motivo di temere l’affermazione di una qualche forma di pensiero unico made in China: ammesso e concesso che gliene freghi qualcosa, molto banalmente non sono in grado e – appunto – non perché non sono creativi perché c’è la dittatura, ma molto semplicemente perché hanno un linguaggio completamente diverso dal nostro, che è quello del mondo piatto costruito a immagine e somiglianza delle ambizioni imperiali USA.
Il buon Han Feizi su Asia Times riporta un esempio piuttosto eclatante: il secondo film d’animazione campione d’incassi al botteghino in Cina nel 2023, ricorda, si intitola “30 mila miglia da Chang’an”; 170 minuti, sottolinea Feizi, “senza stratagemmi hollywoodiani a buon mercato, nessuna storia d’amore gratuita, e nessun osso gettato ai bambini”. “La storia” riassume Feizi “segue l’amicizia di una vita tra Gao Shi, un onorevole militare e poeta minore, e l’incandescente Li Bai, un poeta dal talento celestiale e dall’infinita dissolutezza. A collegare le storie, ci sono 48 poesie della dinastia Tang e innumerevoli cameo di poeti, generali, musicisti e calligrafi Tang”; “un film” continua Feizi “di portata tolstoiana: un inno all’amicizia, all’essere giovani, all’invecchiamento, all’ambizione, alla lealtà, alle scelte che facciamo, alle gioie dell’alcol, a ciò che dobbiamo al talento, alla seduzione del potere e al rimpianto”.

Fabio Volo

Che riesca a colonizzare culturalmente uno come me, che non è mai riuscito ad arrivare alla fine di un film sveglio in vita sua e che sbava dietro a Christian de Sica e a Checco Zalone, la vedo dura, diciamo. La domanda, allora, a questo punto è: ma se l’avversario strategico degli USA non è minimamente in grado di sostituirne l’egemonia culturale, chi o cosa potrebbe farlo? Margherita Buy? Fabio Volo? Il problema, infatti, non è solo che il monopolio USA sull’industria culturale globale – esattamente come il monopolio delle piattaforme digitali – ha totalmente raso al suolo le industrie nazionali; il problema è che, per come stiamo messi, è una fortuna che sia andata così: almeno i prodotti culturali made in USA son tutti uguali, ma sono tecnicamente e narrativamente ineccepibili. Per staccare il cervello vanno più che bene; i nostri, anche se stacchi il cervello, ti fanno comunque venire l’orchite, e anche qui il parallelo con il declino dell’egemonia del dollaro potrebbe esserci utile. Anche in quel caso, il declino del sistema valutario unipolare fondato sul dollaro – e l’impossibilità dello yuan di sostituirlo – apre potenzialità gigantesche, ma anche rischi e, quindi, responsabilità: in un eventuale nuovo ordine valutario multipolare starà anche ai singoli paesi sovrani, o alle federazioni regionali dei singoli paesi sovrani, sviluppare una politica economica e monetaria in grado di garantirgli un posto in un mondo sempre più complesso. In un nuovo eventuale ordine multipolare conviveranno paesi che adottano un modello simile a quello saudita con paesi che adottano un modello simile a quello norvegese, con paesi che adottano un modello simile a quello cubano, nel quadro di alcune regole condivise: saranno anche un po’ stracazzi nostri, insomma, e ci troveremo a comunque a doverci fare gli stracazzi nostri a partire da quello che abbiamo ereditato dai decenni precedenti, e cioè una devastazione sistematica del tessuto produttivo e della capacità di creare ricchezza; insomma, ci saremo liberati da una forma insostenibile di schiavitù, ma da lì a raggiungere una forma sostenibile di libertà ce ne passa, e ci dovremo mettere del nostro.
Per l’industria culturale e la ricerca di una nuova identità culturale nazionale le cose potrebbero essere ancora più complesse perché, in 50 di mondo piatto fatto a immagine e somiglianza del dollaro e di Hollywood, non è solo il nostro tessuto produttivo ad essere stato asfaltato ma, appunto, la nostra capoccia: una volta che ci saremo tolti Hollywood e Netflix dai coglioni, continueremo ad averceli dentro la testa e l’involuzione antropologica imposta da decenni di neoliberismo continuerà a farci compagnia a lungo; e magari, per darci un’identità, la condiremo con una bella dose di xenofobia, di omofobia e di tutte le sfumature di negazionismo che oggi vanno così di moda nel microcosmo dei cosiddetti anti-sistema.
Per capire su cosa fondare la gigantesca battaglia culturale che ci aspetta per sostituire la fuffa di Hollywood con un’autentica cultura nazionale in grado di sostenere la nostra emancipazione – invece che relegarci all’imbarbarimento – però io, sinceramente, grossi strumenti non ne ho, e allora vi rimando a domani, lunedì 18 dicembre, quando alle 18 e 30 pubblicheremo la straordinaria intervista al filosofo Vincenzo Costa che abbiamo registrato ieri mattina insieme al nostro socio Gabriele Germani. Nel frattempo, per prepararci adeguatamente alla battaglia culturale, di sicuro quello di cui abbiamo urgentemente bisogno è un nuovo media pronto a dare battaglia affinché il mondo nuovo che ci aspetta sia un passo avanti e non tre passi indietro. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Volo