Skip to main content

Tag: libero mercato

Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

Karl Polanyi, la grande trasformazione e la leggenda del libero mercato

Il mito fondativo dell’era del trionfo del neoliberismo in cui siamo immersi più o meno suona così: il mercato è il frutto spontaneo della natura umana; lo Stato con le sue regole, invece, è un artificio. Poi – vabbé – al limite ci si divide un po’ tra quelli che sostengono che sia un artificio che ha fatto anche cose buone e altri che, invece, sono convinti che abbia fatto solo ed esclusivamente danni, e meno c’è meglio è, ma sul mito fondativo il consenso è abbastanza trasversale.

Karl Polianyi

La storia dell’economia è la storia della lotta tra il mercato e lo Stato, ma non per Karl Polanyi; storico, antropologo ed economista ungherese, nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale se ne venne fuori con una tesi che di primo acchito venne considerata piuttosto strampalata e che, in estrema sintesi, suona così: il libero mercato è tutt’altro che un fenomeno naturale, ma è un artificio e a renderlo possibile è Stato proprio lo Stato. Fa un po’ strano, no? A meno di situazioni straordinarie, lasciato in balìa di se stesso il mercato, alla fine, si regola da solo. Storpiando completamente l’idea di Adam Smith, nel tempo questo affermazione è diventata parte integrante del nostro senso comune; eppure, dice Polanyi – che oltre che economista era pure storico e antropologo – questa fede in un mercato in grado autoregolarsi non è insita nell’uomo. Anzi, è piuttosto recente e a promuoverla è Stato proprio quello che viene spesso considerato il suo più acerrimo nemico: lo Stato. “Il libero mercato” scrive infatti Polanyi “è frutto di scelte politiche. Il mercato come agente regolatore dell’economia non è derivato dal libero sviluppo del mercato arcaico, ma è Stato frutto dell’assalto della controrivoluzione capitalista, che ha distrutto le vecchie consuetudini per creare una società basata sul mercato”; uno di questi interventi statali è, ad esempio, l’abolizione del sistema di sussidi ad inizio Ottocento in Inghilterra. “La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in continuo interventismo centralmente organizzato e controllato. Rendere la semplice e naturale libertà di Adam Smith compatibile con la necessità di una società umana era una questione estremamente complicata”; il quadro dipinto da Polanyi mette in luce una contraddizione fondamentale: “Lungi dall’eliminare la necessità di controllo, regolamentazione ed intervento” scrive l’economista ungherese “l’introduzione di mercati liberi ne avevano accresciuto la portata. Gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema” e – guarda un po’ – “anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo Stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello Stato, non potevano far altro che affidare allo Stato stesso i suoi poteri organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”: per usare un francesismo, laissez-faire un par di palle. L’affermazione del mercato ha consistito, per Polanyi, nella creazione di un mercato autoregolato per il lavoro prima, per la terra poi e, infine, per la moneta, ma l’illusione è durata poco perché l’autoregolazione di questi tre mercati – e cioè l’assunto fideistico che le semplici forze della domanda e dell’offerta avrebbero potuto, sempre e in qualsiasi luogo, condurre la società a trovare un equilibrio ottimale – era destinata a scontrarsi subito con la dura realtà della vita economica concreta. Dalla libertà del mercato del lavoro emergevano povertà, disoccupazione e degrado; dalla libertà della terra scaturiva una concorrenza agguerrita nei mercati delle materie prime che minava gli interessi agrari e minerari e dalla libertà del mercato della moneta scaturivano crisi finanziarie, inflazione e pure deflazione, che mangiavano i profitti, rendevano gli investimenti rischiosi e distruggevano il commercio internazionale. E così lo Stato dovette tornare a intervenire per mettere un po’ di toppe in qua e in là per evitare che la nave affondasse; paradossalmente quindi, “Mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato” riassume Polanyi “le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”.
Altro che Stato contro mercato quindi: quando lo Stato ha pianificato scientemente qualcosa, quel qualcosa era, appunto, un mitologico libero mercato fondato sulla libertà dei più ricchi di arricchirsi a dismisura a scapito della salute dell’economia stessa; e quando, per salvare capra e cavoli, lo Stato è dovuto intervenire per mettere qualche paletto, non ha seguito un piano strutturato per ridimensionare lo strapotere delle oligarchie, ma si è limitato a mettere qualche toppa dove poteva. Per Polanyi doveva essere solo l’antipasto: “La società industriale”, scrive, potrà tornare ad esistere solo “quando l’esperimento utopistico di un mercato autoregolato non sarà altro che un ricordo orribile”.
Nei decenni successivi, le democrazie costituzionali moderne a quell’esperimento utopistico gli hanno dato una discreta mazzata, senza però riuscire a mettere definitivamente in soffitta quell’assurdo mito fondativo che, dopo una piccola parentesi di ragionevolezza, è tornato a imporsi con la grande controrivoluzione neoliberista: ancora una volta un esempio da manuale di fantomatici mercati autoregolamentati creati con la forza dallo Stato attraverso una meticolosa pianificazione fatta di delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione e demolizione delle istituzioni democratiche. Immancabilmente, però, anche a questo giro l’esperimento utopistico del mercato autoregolato è tornato nell’arco di pochi anni a presentare il conto, dopo aver raso al suolo la nostra società industriale; solo che, a questo giro, per ora di interventi pezzi e bocconi dello Stato per mettere qualche paletto qua e là in realtà non è che se ne vedano molti. Eppure la grande crisi ormai è in corso da 15 anni abbondanti, almeno da quando Lehman Brother fu obbligata a chiudere baracca; lo stimolo finale, l’altra volta, venne dalla guerra, che costrinse anche gli ultraliberisti britannici a convertirsi dal giorno alla notte a una specie di economia pianificata per non venire definitivamente rasa al suolo. Ecco: noi, sinceramente, per riportare un po’ di ragionevolezza nella politica mainstream vorremmo evitare di dover aspettare la terza guerra mondiale; chiediamo troppo?

Marco Bertilorenzi

Per rispondere, seguiteci domani sera, mercoledì 17 gennaio, a partire dalle 21 in diretta con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica: ospite d’onore il nostro caro Marco Bertilorenzi, che è un po’ il nostro cicerone quando cerchiamo di addentrarci nella storia del pensiero economico. E, nel frattempo, se come noi pensi che ci sarebbe bisogno come il pane di un media che invece che fare da ripetitore alla propaganda delle oligarchie provi a darci gli strumenti per capire che un’alternativa c’è – e magari anche in cosa dovrebbe consistere – aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donald Reagan