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Tag: liberalismo

ANDREA ZHOK e la critica del nichilismo liberale

Nessuno può permettersi di non dichiararsi liberale: è questa la prima regola del fight club che è diventato il dibattito pubblico; la seconda: Nessuno deve chiedersi liberale cosa significa sul serio.
Ci ha provato Andrea Zhok in Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente; il termine liberale, infatti, è diventato molto banalmente sinonimo di tutto ciò che è tolleranza, apertura e civiltà: l’esatto contrario di populismo che, invece, sarebbe sinonimo di tutto ciò che è intolleranza, ottusità e dominio incontrastato degli istinti più bassi. Non esattamente un utilizzo rigorosissimo del linguaggio, diciamo. Per ridare un senso alle parole Zhok, allora, cerca di andare oltre la propaganda e fa uno sforzo titanico per ricostruire la genesi storica del liberalismo: come sarebbe effettivamente emerso e da quali processi. Buona visione.

Andrea Zhok

Quando parliamo di liberalismo politico parliamo, scrive Zhok, di un “orientamento politico magmatico, privo di una forma precisa, definito di volta in volta da ciò contro cui combatte, il cui minimo comune denominatore ideologico è in ultima istanza solo una concezione della libertà negativa, individuale ed economica. La particolarità di questa concezione della libertà è la sua neutralità assiologica: non è libertà per fare alcunché, ma libertà da interferenze altrui”. (p.151) Possibile che un sistema di pensiero così minimalista abbia avuto tanto successo? Quali sono i fattori che lo innervano e che, uniti, hanno dato forza a una proposta politica tanto misera e superficiale? Zhok individua la genesi della ragione liberale come un processo prodotto dalla convergenza di quattro ingredienti essenziali nati nel mondo antico e premoderno, e cioè la libertà individuale, il denaro, la tecnoscienza e lo Stato: “È la convergenza di questi quattro momenti, ciascuno a suo modo capace di incrementare le forze sociali e produttive disponibili” scrive l’autore “a caratterizzare lo sviluppo socioeconomico del mondo occidentale negli ultimi due secoli, per poi estendersi nella seconda metà del XX secolo a gran parte del resto del pianeta”.
Partiamo dalla libertà individuale: la sua genesi è fatta risalire dall’autore alla svolta storica prodotta dell’invenzione della scrittura alfabetica nella Grecia antica; senza la scrittura alfabetica infatti, sostiene l’autore, è sostanzialmente impossibile pensare all’individuo, e cioè a un soggetto che riflette su di sé e sul mondo circostante e che è capace di pensarsi – proprio come faceva Socrate – come qualcosa di distinto dalla comunità di riferimento. L’individualismo moderno, che caratterizza la società occidentale e contemporanea, è figlio di questa svolta storica che ha subìto un’accelerazione a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili e, in seguito, dell’informatica: la libertà individuale sarà intesa nel liberalismo come libertà negativa e cioè, sostanzialmente, mancanza di impedimenti; l’individuo si libera dai legami comunitari e solidali. Non è più partecipazione, come per gli antichi, ma isolamento egoistico, la libertà di farsi gli affari propri; svincolato da valori comuni, l’individuo deve semplicemente calcolare vantaggi e svantaggi economici del proprio agire all’interno di una società di mercato. L’avvento della tecnoscienza, invece, è quello che rende possibile la rivoluzione industriale, ma che rivoluziona completamente anche il nostro modo di pensare la natura stessa: con la tecnoscienza, infatti, la natura diventa un semplice aggregato misurabile di cose che servono a far quattrini e il sapere scientifico è tanto più importante quanto più permette di dominare il mondo naturale e umano. E qui veniamo alla terza componente, che è il denaro perché, per rendere tutto misurabile, serve un’unità di misura universale: il denaro consente di facilitare gli scambi, misurare e accumulare valore ed è in grado di esercitare il suo potere a prescindere dalla sua genesi sociale; quello del denaro è un potere asociale e ademocratico. Il denaro, come ricchezza liquida, estende sempre più il proprio potere – diventando pervasivo – dall’Ottocento, in una società sempre più urbanizzata e monetizzata; in un mondo senza alcun valore obiettivo tutto diventa prezzabile, quindi acquistabile attraverso il denaro. Per finire c’è lo Stato, posto a garanzia dell’ordine tramite esercito, polizia e sistema giuridico; lo Stato liberale è svuotato da progetti politici che facciano capo a decisioni valoriali: non è altro che gendarme degli interessi dell’élite. Lo Stato deve soltanto favorire il mercato e i suoi attori: il politico, nel liberalismo, è ridotto al tecnico; il governo degli uomini che, normalmente, richiederebbe la costruzione di valori condivisi e scelte legittimate da cittadini, diventa così sovrapponibile all’amministrazione delle cose.
Finché questi quattro ingredienti sono rimasti separati, però, non accadde alcuna rivoluzione; solo dalla loro miscela esplosiva nell’Inghilterra del Settecento scoppiò la rivoluzione permanente, tuttora in corso: “Sarà nella cornice statale inglese, tra Seicento e Settecento” scrive Zhok “che l’individualismo etico della riforma protestante, una matura circolazione monetaria, e i successi della razionalità tecnoscientifica convergeranno sinergicamente, portando alla luce per la prima volta la ragione liberale e il suo correlato operativo, l’economia capitalistica”. Senza l’imporsi del capitalismo come sistema di produzione, la ragione liberale sarebbe rimasta una ideologia tra le altre; come sintetizza Zhok: “Del successo storico della ragione liberale è stata poi parte essenziale la sua istituzionalizzazione in forma capitalistica, con la creazione della scienza economica e con l’asservimento della natura (e degli uomini) alle finalità del “sistema economico”. (p.85)
Questo modello, infine, raggiungerà un suo compimento nel neoliberismo, l’imporsi del quale – alla fine degli anni settanta del Novecento – venne salutato da Fukuyama come, letteralmente, la fine della storia. Contro questa lettura trionfalistica, Zhok mette in risalto le crisi e degenerazioni che questa supposta vittoria comporta: dalla frammentazione dell’identità personale a quella dell’identità collettiva, allo sviluppo sempre più accelerato di tecnologie prive di controllo sociale, all’inquinamento ambientale; il sistema liberale finisce col minare i suoi stessi presupposti sociali, cercando di rattoppare queste contraddizioni con palliativi come il consumismo, la diffusione di droghe e psicofarmaci, l’industria dell’intrattenimento e dello svago, la pervasività del diritto che norma ogni aspetto della vita. E quando queste “toppe”, questi palliativi, non bastano più, il liberalismo risponde con l’opzione autoritaria degli stati d’eccezione; si compie, in questo modo, quella che potremmo chiamare la trappola di Hobbes: la conseguenza logica della ragione e della società liberale è la guerra di tutti contro tutti, che ha come conseguenza la necessità del Leviatano, di un potere totalitario in grado di portare ordine là dove c’è guerra e autodistruzione.

Cosa possiamo fare dunque? L’autore stesso ci lancia un salvagente, ricordandoci che “Nella storia le determinazioni non sono mai cause necessitanti […] ma circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità”. (p. 14) Questo significa che abbiamo sempre la possibilità, per quanto ristretta, di agire per modificare la realtà storica attuale, sottraendoci al dilemma che vede come conclusioni necessarie l’autodistruzione sociale o una sua torsione totalitaria. Per chi vuole riflettere insieme a noi su come farlo concretamente, l’appuntamento è per mercoledì 24 gennaio alle 21.00 in diretta su Ottolina Tv con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta filosofica: ospite d’onore Andrea Zhok, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano e autore di Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente (Meltemi, 2020).
E se nel frattempo anche tu credi che per una democrazia sostanziale occorra combattere il liberismo reale, aiutaci a costruire il primo vero e proprio media che dà voce agli interessi concreti del 99%: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin

Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni

Anche tu, come noi, riponevi ancora qualche speranza nell’umanità? Bene, da domenica sera direi che è definitivamente arrivato il momento di abbandonare ogni speranza: la vittoria – e pure con ampio margine – di Javier Milei alle presidenziali in Argentina è la prova più palese possibile immaginabile dell’assoluta inadeguatezza delle masse di scegliersi liberamente un governo nell’ambito delle regole della democrazia liberale, almeno a questo stadio di sviluppo; e non tanto perché un personaggio assolutamente impresentabile come Milei dovrebbe essere escluso a prescindere da ogni possibilità di ricoprire un qualsiasi incarico di responsabilità, ma soprattutto perché la sua elezione è avvenuta in Argentina. Sin dalla sua fondazione, l’Argentina – infatti – periodicamente è precipitata tra le grinfie delle solite identiche oligarchie compradore che sistematicamente ne hanno devastato l’economia con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione: uno schema quasi noioso da quanto è diventato prevedibile e sempre identico a se stesso. Raramente un popolo, al mondo, ha avuto la stessa possibilità che hanno avuto gli argentini di individuare con chiarezza – a partire dalla loro vita concreta quotidiana – l’esatto gruppo di potere e il tipo di proposta politica direttamente responsabili di tutti i loro problemi. Da due secoli!
Javier Milei, il gruppo di potere che lo ha sostenuto e le sue ricette politiche sono le stesse identiche medicine che, periodicamente, vengono riproposte al popolo argentino con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione, e un furto sistematico di ricchezza da parte di una minuscola oligarchia predatoria. La differenza è che, in passato, per imporle servivano golpe e giunte militari; oggi l’involuzione antropologica è tale che la gente se le sceglie da sola, a larga maggioranza.
Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni”: così Esteban Almiron, nel dicembre scorso, intitolava un suo lungo articolo – pubblicato da Geopolitical economy review – dove cercava di tirare le somme di due secoli di devastazione sistematica dell’economia Argentina da parte delle sue oligarchie, legate a doppio filo a Londra prima e a Washington poi. La storia inizia nel lontano 1824 quando, appena 8 anni dalla dichiarazione di indipendenza dall’impero spagnolo, l’unione delle province – che sarebbe poi diventata la Repubblica argentina – ottiene un prestito di 1 milione di sterline, equivalenti a 110 miliardi attuali, da una banca privata britannica: “Il prestito, denominato in sterline” ricorda Almiron “sarebbe dovuto servire a finanziare il porto di Buenos Aires e altre infrastrutture strategiche”. Poco meno di metà del debito andò in commissioni di ogni genere agli intermediari e il resto “evaporò rapidamente in una guerra con il Brasile”. Risultato: già nel 1827 l’Argentina non era più in grado di pagare gli interessi e dichiarò il suo primo default; da lì in poi, per ripagare quel primo debito impiegò la bellezza di 80 anni e – alla fine – aveva sganciato 8 volte il suo valore iniziale. L’Argentina, allora, sviluppò una certa sana diffidenza verso il debito internazionale e conobbe i suoi anni migliori raggiungendo, nella prima parte del secolo scorso, un reddito pro capite tra i più alti dell’intero pianeta; è per questo che quando – una volta finita la seconda guerra mondiale – venne istituito il Fondo Monetario Internazionale, l’allora presidente populista e progressista Juan Domingo Peron decise di tenersene alla larga.

Evita e Juan Domingo Peron

Durò pochino: nel ‘55 Peron fu cacciato a suon di bombardamenti aerei sul palazzo presidenziale da un sanguinoso colpo di stato, e sotto la feroce dittatura di Pedro Aramburu decise – finalmente – di aderire all’FMI. Ma per vedere il delirio neoliberista in tutto il suo splendore bisognerà aspettare un altro colpo di stato, 20 anni dopo, quando l’esercito arresta l’allora presidente regolarmente eletta Evita Peron e, con il sostegno di Washington, dà il via a una stagione di terrorismo di stato fatto di “stupri, torture sistematiche, detenzioni arbitrarie, sorveglianza distopica e desaparecidos”. Sotto la guida feroce del dittatore Jorge Videla, nell’ambito di quello che venne denominato il “processo di riorganizzazione nazionale” – proprio come nel Cile di Pinochet -, il posto di guida dell’economia venne affidato a una conventicola di invasati ultra – liberisti: da Adolfo Diaz – l’allievo di Milton Friedman – messo a capo della Banca Centrale, a Martinez de Hoz – l’amico di David Rockefeller – nominato ministro dell’economia. “Quasi subito dopo l’ascesa al potere di Videla” ricorda Almiron “De Hoz ottenne un prestito dall’FMI di 100 milioni di dollari di allora”: in cambio, si impegnò ad implementare la solita ricetta lacrime e sangue fatta di abbattimento delle barriere commerciali, deindustrializzazione e restrizioni salariali, mentre l’inflazione continuava a correre non a due, ma addirittura a tre cifre. Risultato: il potere d’acquisto dei lavoratori diminuì di poco meno del 50% nell’arco di appena un anno. Nel frattempo, gli amici oligarchi della giunta militare guadagnavano una quantità di quattrini spropositata attraverso una vera e propria truffa promossa e finanziata dal regime e denominata bicicleta financiera. A costo di distruggere le esportazioni e le aziende locali, il governo aveva introdotto un sistema di regolazione del cambio tra pesos e dollari USA che aveva fortemente rivalutato e stabilizzato la moneta locale; a quel punto “con il sostegno del governo” scrive Almiron “gli speculatori potevano ottenere prestiti a basso interesse denominati in dollari all’estero, mentre a loro volta concedevano prestiti in pesos agli argentini a tassi stratosferici, intascando la differenza”: un giochino che costò alle casse dello Stato un aumento del debito pubblico denominato in dollari di 5 volte nell’arco di appena 7 anni. Un debito che divenne sostanzialmente non più solvibile quando, dopo due anni di festa grossa per le oligarchie locali, il governo abbandonò di punto in bianco la regolamentazione del cambio tra peso e dollaro comportando una svalutazione repentina della valuta locale.
Nel 1983, al regime di Videla subentrò il governo di Raul Alfonsin che, sottolinea Almiron, “avrebbe potuto contestare la legittimità del debito. Dopotutto” continua Almiron “era stato contratto da un regime dittatoriale sostenuto dalla CIA, e che sotto l’influenza USA favoriva gli interessi stranieri rispetto a quelli argentini. Purtroppo però” conclude Almiron “il governo Alfonsin e la nuova, fragile democrazia erano troppo deboli per una simile sfida”. E con un debito del genere sul groppone il nuovo governo argentino era destinato al fallimento; per stare in piedi non aveva altra scelta che affidarsi, di nuovo, a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che imposero una nuova stagione di riforme lacrime e sangue che, ancora una volta, pochi anni dopo, portarono a un’altra gigantesca crisi economica che raggiunse il suo apice nel 1989 “quando” ricorda Almiron “salari e risparmi evaporarono rapidamente, povertà ed estrema povertà salirono alle stelle, e cominciarono a scoppiare rivolte e saccheggi”. Il sogno di un governo moderatamente progressista, preoccupato dagli interessi della nazioni più che a quelli delle solite oligarchie, si sciolse così come neve al sole: era arrivata l’ora di un’altra bella shock therapy.
A infliggerla – sotto l’egida del neo eletto Carlos Menem – il famigerato Domingo Cavallo, altro neo – liberista purosangue coccolatissimo dai media occidentali. La ricetta era sempre la stessa: primo step, sopravvalutare artificialmente il pesos e ancorarlo al dollaro; come sottolinea Almiron “tutti potevano scambiare liberamente pesos e dollari, ora sostenuti dallo Stato con le sue riserve”. In soldoni, quindi, la Banca Centrale limitava l’emissione di nuovi pesos alla presenza di altrettanti dollari tra le sue riserve, togliendo così ossigeno all’economia. Ma non solo: quei pochi dollari che, comunque, la Banca Centrale accumulava come riserve erano ottenuti nel più barbaro dei modi e cioè con “una delle più grandi operazioni di privatizzazione della storia”. “In pochi anni” ricorda Almiron “vennero privatizzati il sistema pensionistico, le ferrovie nazionali, le banche pubbliche, la rete telefonica, la compagnia aerea di bandiera, i porti, il servizio postale, la rete idrica, quella del gas, quella elettrica, diverse reti televisive e radiofoniche e alcuni servizi di assistenza sanitaria”. Le multinazionali statunitensi ed europee, poi, ebbero l’occasione di fare shopping a prezzi di saldo nell’industria navale, in quella chimica e in quella aerospaziale; anche qui, le oligarchie locali i quattrini li facevano sempre come sotto Videla. Cavallo aveva imposto per legge che ogni pesos potesse essere scambiato con un dollaro; gli oligarchi emettevano prestiti in pesos a tassi altissimi – perché di pesos in circolazione ce n’erano pochini – e tutti gli interessi che intascavano li convertivano in dollari, e poi con questi dollari ci andavano a comprare un po’ di immobili di prestigio negli USA. Nel frattempo, la disoccupazione – da meno del 6% – sfiorava quota 20% e l’Argentina entrò in una profonda recessione che sarebbe durata la bellezza di 4 interminabili anni. Menem, che nel frattempo faceva il tamarro girando il paese a bordo di una Ferrari, divenne il politico più odiato del paese. Alle presidenziali successive il paese cerca una via d’uscita eleggendo La Rua che, però, continua sulla stessa falsa riga e – alla fine – decide di riaffidarsi nuovamente a Domingo Cavallo, nominato un’altra volta ministro dell’economia; ed ecco così che si arriva al 2001, quando il timore per un tracollo finanziario definitivo scatena una corsa epica agli sportelli e, alla fine, porta al default dell’Argentina con un debito di 95 miliardi di dollari. Era la prova provata di come le ricette neo – liberiste non funzionassero, ed ecco così che alle elezioni successive si fa avanti un semisconosciuto governatore di una piccola provincia meridionale.

Cristina e Néstor Kirchner

Si chiamava Néstor Kirchner. Non era chissà quale militante marxista leninista; era un moderato, un umile avvocato di provincia che però non era a libro paga di nessuno, e i risultati si fecero vedere subito. Durante il suo mandato il PIL crebbe a ritmi cinesi di poco meno del 10% l’anno, la disoccupazione crollò al 7,3% e le riserve internazionali – da zero – superarono quota 30 miliardi. Ma, soprattutto, ha sfanculato il Fondo Monetario Internazionale: “il 16 dicembre 2005” ricorda infatti Almiron “Kirchner annuncia che l’Argentina avrebbe ripagato integralmente e in anticipo l’intero debito del FMI con le sue riserve estere”. Le riserve erano state accumulate facendo esattamente il contrario dei predecessori: invece di ancorare il pesos al dollaro, Kirchner l’aveva fatto svalutare, aumentando così le esportazioni e incassando valuta pregiata, e ora era in grado di dimostrare che tutti quelli che l’avevano preceduto avevano usato l’FMI come scusa per imporre ricette lacrime e sangue che – prima ancora che il fondo stesso, o gli USA – beneficiavano i loro amici oligarchi.
Ma la partita era solo all’inizio perché, ben oltre il debito col fondo monetario internazionale, a zavorrare l’Argentina c’era il debito denominato in dollari contratto con i privati attraverso l’emissione di bond; con la stragrande maggioranza dei creditori, Nestor prima e la moglie Cristina – che gli è succeduta alla presidenza del paese per ben due mandati – poi, sono riusciti a trattare e a rinegoziare, ma c’era una piccola minoranza che di mollare la presa non ne aveva nessuna intenzione. Sono i famosi “fondi avvoltoio” e cioè i fondi speculativi USA che, di mestiere, comprano i bond dei paesi in crisi a prezzi stracciati: un’attività molto remunerativa ma ad alto rischio, almeno se la fai te, o me. Se la fanno loro, meno; gli unici rischi che si accollano questi fondi, infatti, è a quanto ammonterà la parcella degli avvocati, perché il paradosso del mercato dei bond sovrani è questo: se la tua economia non è perfettamente in salute, per convincere gli investitori a comprarli devi pagare interessi altissimi perché il rischio che quello Stato non sia in grado di ripagarti è alto, ma se sei un fondo con la sede negli USA e hai abbastanza soldi per pagarti i migliori avvocati – e magari provare la stessa causa in diverse corti, fino a che non trovi il giudice giusto – in realtà quel rischio non lo corri mai. La legge è costruita in modo che, alla fine, se non demordi vinci sempre.
Lo sa bene Paul Singer, il capo del fondo Elliott: per provare a farsi ridare tutti i soldi investiti (con una montagna di interessi sopra) ha ingaggiato una guerra legale lunga 15 anni. “Sono terroristi economici” aveva tuonato Cristina rivolgendosi all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2014 “che destabilizzano l’economia di un paese e creano povertà, fame e miseria, e tutto in nome della speculazione”; quando, dopo 8 anni di presidenza, per legge ha dovuto fare un passo indietro, il debito di Singer era ancora lì. Finalmente il popolo aveva trovato una classe dirigente che stava dalla sua parte ma, molto saggiamente, ha deciso di gettarla nel cesso. Durante gli ultimi anni della presidenza di Cristina, le oligarchie avevano cominciato ad alzare il tiro mettendo in piedi i soliti teatrini che tanto piacciono agli analfogiustizialisti; è lo stesso identico copione che abbiamo visto anche in Brasile contro Lula e la Roussef: una casta di giudici corrotti, legati a doppio filo alle oligarchie, che trasferiscono nei tribunali una battaglia politica che non sono riusciti a vincere nel resto del paese e che la propaganda dei media – di proprietà degli stessi oligarchi – riesce a spacciare in lotta contro la corruzione. Il bue che dà del cornuto all’asino.
Questa campagna di delegittimazione fondata sulla post verità comunque dà i frutti sperati: alle presidenziali successive la sinistra peronista perde di un soffio e alla guida del paese arriva Mauricio Macri. E’ il rampollo di una famiglia dell’oligarchia nazionale che si è arricchita grazie al sostegno politico alla dittatura militare e non delude le aspettative: a pochi mesi dall’insediamento salda il debito con Elliott – 2,28 miliardi di dollari a fronte di un investimento iniziale di appena 177 milioni – ed è solo la punta dell’iceberg. Nel giro di pochi giorni, l’Argentina di Macri sgancia ai fondi avvoltoio la bellezza di 9,3 miliardi: “per un paese che si dice sovrano, una vera e propria umiliazione” scrive Almorin “che ha fatto anche arrabbiare molti piccoli investitori, compresi pensionati e lavoratori, che hanno perso il grosso dell’investimento con la rinegoziazione del debito, mentre un piccolo gruppo di miliardari statunitensi e speculatori di ogni genere hanno fatto fortuna”. Ed era solo l’antipasto: dopo quell’operazione, il governo Macri ha cominciato a accumulare debito su debito passando, in un solo anno, da un rapporto debito PIL del 56% all’86%. Una quantità incredibile di dollari che non sono andati – nemmeno in minima parte – nelle infrastrutture necessarie per far ripartire l’economia reale, ma direttamente nelle tasche delle oligarchie, che hanno convertito in dollari i loro pesos e poi li hanno portati fuori dal paese. Il paese era di nuovo sull’orlo della bancarotta, ed ecco così che si ritorna a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale che, a regola, avrebbe dovuto rispondere picche; secondo il suo regolamento, infatti, “un membro non può utilizzare le risorse generali del fondo per far fronte a un deflusso ampio o prolungato di capitali”, a meno che non lo chieda il vero unico padrone di casa: il governo degli USA.
Che è esattamente quello che è successo: alla Casa Bianca, infatti, nel frattempo era arrivato il compagno Donald Trump, che era alla ricerca di alleati regionali per provare a fare le scarpe al governo rivoluzionario del Venezuela. Macri si presta allegramente al gioco: riconosce immediatamente e ufficialmente il politico fantoccio USA Juan Guaido come presidente legittimo auto – nominatosi del Venezuela e, in cambio, ecco che magicamente le porte dell’FMI si spalancano di nuovo. Pochi mesi dopo, il fondo stanzia a favore del governo Macri la bellezza di 44 miliardi “ma” ricorda Almorin “nemmeno un dollaro inviato dal Fondo è mai stato visto dal popolo argentino, né utilizzato per alcun progetto di sviluppo economico. Piuttosto, nell’arco di appena 11 mesi il denaro è letteralmente evaporato, finendo nelle tasche degli oligarchi nazionali e stranieri” e – nell’agosto del 2019 – l’Argentina doveva dichiarare nuovamente default, “il primo ufficiale del Paese per mancanza di fondi dal 2001”. Nonostante il disastro, la potenza della propaganda è tale che alle elezioni successive Macri perde sì – ma manco poi di tanto – e per sconfiggerlo Cristina and company sono costretti a fare un passo di lato, presentare un candidato più moderato e mettere in piedi una coalizione così vasta da risultare abbastanza inconcludente. Ciononostante, rispetto ai rapinatori di professione la presidenza Fernandez è oro colato: intraprende subito una guerra a 360 gradi contro il debito contratto dall’élite compradora che li ha preceduti, si avvicina gradualmente alla Cina e ai Brics fino ad ufficializzare l’ingresso e quando in Brasile, dopo il golpe giudiziario, torna al potere Lula, comincia a lavorare all’integrazione dell’area del Mercosur per tentare di sganciarsi dal dollaro. Ma il paese che Fernandez ha ereditato da Macri è un paese sull’orlo del baratro e la crisi pandemica non fa che peggiorare la situazione a dismisura: perseguitato dal debito denominato in dollari, Fernandez si ritrova travolto dall’ennesima spirale inflattiva che cerca – in ogni modo – di non scaricare interamente sulle masse popolari rincominciando a stampare moneta e svalutando il pesos, che è la scelta socialmente meno iniqua ma che, sicuramente, non permette di riportare l’inflazione sotto controllo. Ed ecco qui, allora, che avviene quello che fa definitivamente perdere ogni speranza nell’umanità: sulla scena politica si affaccia un invasato che ha chiamato i suoi cani con i nomi dei guru della setta neoliberista e che, per prendere le decisioni più importanti, organizza delle sedute spiritiche durante le quali invoca lo spirito dei suoi cani morti.

Javier Milei

Javier Milei ripropone – pari pari – le ricette che, appena 5 anni fa, avevano fatto esplodere il debito pubblico e riportato l’Argentina al default. Solo, on steroids: invece che di semplice rivalutazione del pesos e di ancoraggio al dollaro, promette esplicitamente di abolire la Banca Centrale tout court e di adottare come moneta nazionale direttamente il dollaro, e promette di farlo circondato da un team di tutto rispetto. Fenomeno da baraccone mediatico privo di qualsiasi struttura politica, nonostante l’imbarazzante retorica anti – casta si consegna mani e piedi alla cerchia ristretta di Macri, gli eredi di quella élite nazionale che, da 200 anni, saccheggiano il paese senza ritegno senza aver mai conseguito un risultato positivo che sia uno. Cosa mai potrebbe andare storto?
La vittoria di Milei non è semplicemente l’ennesimo caso di vittoria di chi gioca a fare l’underdog e poi si rivela inesorabilmente non essere per niente under ma solo dog dei soliti interessi; è proprio la prova provata di un’involuzione antropologica epocale che impedisce – in questa fase di caos sistemico e di iper – informazione alle masse popolari – di riconoscere minimamente i propri interessi basilari, anche quando sono palesi. E’ l’era del trionfo totale delle ideologie più inverosimili e della post verità: per superarla, la battaglia culturale e di controinformazione da fare è titanica e lunghissima.
Tocca attrezzarsi con gli strumenti adeguati, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Javier Milei