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Tag: letta

Draghi l’americano vs Letta il francese: la guerra per decidere a chi vendere i lavoratori italiani

La fase terminale dell’imperialismo e le manovre messe in campo da Washington per prolungarla, causano danni giganteschi alle economie di tutti i paesi vassalli. Per rispondere ai crescenti mal di pancia del mondo produttivo europeo, le istituzioni hanno deciso di mettere in campo due pesi massimi della politica europea: Mario Draghi ed Enrico Letta, il futuro dell’Europa come ha affermato la Von der Leyen, ma sebbene entrambi propongano sostanzialmente di scaricare il costo della ristrutturazione capitalistica radicale necessaria per tenere in vita un sistema ormai decotto, le ricette potrebbero rivelarsi non facilmente conciliabili: Mario Draghi l’americano continua ad immaginare un Europa a trazione tedesca completamente subalterna alle oligarchie finanziarie USA, delle quali San MarioPio da Goldman Sachs è sempre stato un umile servitore; Enrico Mitraglietta, invece, espressione delle oligarchie finanziarie francesi, immagina un processo di feroce finanziarizzazione dell’economia europea nel tentativo di creare un polo finanziario subordinato geopoliticamente agli USA, ma autonomo e incentrato, appunto, sugli interessi concreti dei suoi mandanti. Chi prevarrà? Riusciranno a trovare una sintesi? E sarà sufficiente per tenere a bada l’insofferenza del mondo produttivo?

Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi.

Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

Giorgio Napolitano: il “comunista preferito” di Washington che odiava la democrazia

1975, tre tra le più prestigiose università degli USA decidono di invitare un importante dirigente del Partito Comunista Italiano per un ciclo di conferenze.

Apriti cielo: in quegli anni, infatti, il Partito Comunista Italiano stava attraversando una fase di espansione incredibile, che alle elezioni politiche dell’anno successivo lo portò a conquistare oltre il 34% dei consensi, con una crescita rispetto alle elezioni precedenti di quasi 10 punti percentuali.

Ma non solo: dopo il tragico esito dell’incredibile avventura dell’Unione Popolare in Cile sotto la guida di Salvador Allende, il PCI di Berlinguer da un paio di anni aveva sposato la strategia del così detto “compromesso storico” e l’eventualità dell’ingresso del PCI in un Governo di unità popolare si faceva giorno dopo giorno più verosimile.

L’avanzata del PCI in Italia”, dichiarerà trent’anni dopo in un intervista a La Stampa l’ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner, “era la questione più grave che ci trovavamo ad affrontare in Europa”. Ed ecco così che un altro ambasciatore, quel John Volpe che si era già contraddistinto per aver nominato quel criminale “uomo dell’anno” nel 1973, il banchiere mafioso e piduista Michele Sindona, taglia la testa al toro e decide di non concedere il visto al dirigente comunista. Ma era solo il primo capitolo di una storia lunga e tortuosa.

Tre anni dopo, marzo 1978

Aldo Moro, il principale alleato di Berlinguer nell’attuazione della strategia del “compromesso storico” , viene rapito in modo rocambolesco dalle Brigate Rosse. Nel frattempo all’ambasciata USA, Gardner era subentrato a Volpe e appena un mese dopo il rapimento, il visto che a quel dirigente comunista tre anni prima era stato solennemente negato, magicamente viene concesso. Era la prima volta per un comunista dal 1952.

Quel dirigente comunista si chiamava Giorgio Napolitano, “il mio comunista preferito”, come lo definiva il compagno Henry Kissinger, dall’alto dei suoi 100 e passa anni di crimini di guerra di ogni specie.

Miglioristi”, li chiamavano: erano quella corrente del PCI che aveva rinunciato all’idea di distruggere il capitalismo e tutto sommato anche a riformarlo. Che comunque riformarlo, quando ancora la sinistra non si era completamente bevuta il cervello, significava sempre volerlo trasformare alla radice, solo più gradualmente, e senza ricorrere alla violenza. I miglioristi invece facevano un passo oltre: il capitalismo volevano solo “migliorarlo”.

Ma il punto ovviamente è: migliorarlo per chi? Un indizio significativo risale al 1976, al Governo c’era Giulio Andreotti. Un “Governo di solidarietà nazionale”, veniva definito. Ma Napolitano aveva un modo di intendere la solidarietà tutto suo. Secondo la sua tesi, bisognava si tutelare l’ “interesse generale”, ma a pagare il conto dovevano essere solo gli operai. Per superare la crisi, era la proposta del Peggiore, non c’è niente di meglio che abbassare lo stipendio di chi lavora.

Avvocato agnelli, la scongiuro, non sia timido, la vedo in difficoltà, mi trattenga un pezzo di stipendio. poi se le avanza del tempo gradirei anche mi infilasse una bella scopa su per il culo così le dò una bella ramazzatina alla stanza”. così si sarebbe dovuto esprimere il militante comunista ideale secondo Re Giorgio. Nel tempo “migliorista” diventò poi sostanzialmente sinonimo di moderato e realista. Ma forse è solo un grosso equivoco, di quelli in cui cade spesso quell’ “estremismo, malattia infantile del comunismo” che già Lenin ebbe modo di redarguire ferocemente. Moderazione e realismo infatti non sono altro che attitudini necessarie per chiunque veda nella politica, nella lotta per la conquista del potere e nel suo esercizio strumenti per cambiare concretamente in profondità l’esistente, senza cedere alla tentazione infruttuosa se non addirittura del tutto controproducente dello slancio ideale fine a se stesso. Ma nell’azione di Napolitano non c’è mai stato assolutamente niente di moderato. Il suo disprezzo per ogni forma di democrazia fu sempre contrassegnato da un fervore ideologico vicino al messianesimo. Da questo punto di vista, la militanza comunista di Napolitano non fu che un gigantesco equivoco. Acriticamente fedele ai dictat sovietici quando l’influenza sovietica nel pianeta era in rapida ascesa, nella formula dittatura del proletariato, si riconosceva solo in uno dei due termini…e non era proletariato.

Ed ecco così che quando l’Unione Sovietica alla fine crollò, per Giorgio fu una vera e propria liberazione. Ora il mondo aveva un unico padrone chiaro, le oligarchie statunitensi e il governo di Washington forgiato a loro immagine e somiglianza. Finalmente Napolitano poteva mettersi al servizio di una vera dittatura globale, che però non si ponesse l’obiettivo, per quanto contraddittorio, dell’emancipazione dei subalterni. Interpretò questa era di neodispotismo con malcelata ferocia. superando a destra qualsiasi forza politica nazionale, che anche quando interpretava un’agenda reazionaria, doveva perlomeno sempre fare un po’ di conti con il consenso e con l’interesse Nazionale. Come quando Berlusconi tentò timidamente per la prima volta nella storia della seconda Repubblica di mantenere le distanze da Washington, cercando di rimanere ai margini dell’intervento in Libia. La cronaca racconta che Napolitano lo dissuase, ma è decisamente un eufemismo. Ed è proprio il rapporto ambivalente con Berlusconi e il Berlusconismo a gettare luce sull’idea perversa del potere che permeava l’azione di Napolitano che, infatti, a lungo assecondò in ogni modo tutte le peggiori nefandezze del Governo Berlusconi. Fino a quando un bel giorno non decise di rendersi complice di un vero e proprie golpe bianco per escluderlo dai giochi per sempre.

IV Governo Berlusconi – Attribuzione: Quirinale.it

Schizofrenia? Assolutamente no.

Semplicemente, nel frattempo, era intervenuto un potere di ordine superiore. Da questo punto di vista Re Giorgio, in realtà, Re non lo è mai stato più di tanto. Intendiamoci, il modo autoritario con il quale ha interpretato il suo doppio mandato da Presidente [della Repubblica, ndr] profuma di eversione da mille miglia di distanza, come d’altronde il tentativo di riforma costituzionale dettato da Napolitano e poi naufragato grazie all’antipatia viscerale che suscitava Matteo Shish Renzi.

Ma il punto è un altro.

Totalmente insensibile a ogni istanza popolare e anche ai timidi tentativi da parte del nostro Paese di ritagliarsi una qualche forma di autonomia, più che un Re, Napolitano ricordava un amministratore delegato, pronto a ricorrere ai tatticismi più subdoli pur di assecondare i desiderata di un potere superiore. Quando quel potere superiore non era incarnato fisicamente da qualcuno, subentrava la subalternità fideistica a un principio ordinatore di carattere sostanzialmente religioso: il vincolo esterno.

Se fosse stata una ragazzina delle medie, Napolitano con le immagini del vincolo esterno ritratto in pose ammiccanti c’avrebbe tappezzato la cameretta.

Il contenuto di quel vincolo esterno tutto sommato era abbastanza secondario. Era l’esistenza del vincolo esterno in se, come principio astratto, ad affascinare Napolitano. Un Vincolo Esterno da assumere sempre e comunque come dato naturale, che permette di mettere un freno a ogni istanza di democratizzazione, e impedire così l’irruzione nelle sfere del potere del volgo e dei suoi inaffidabili leader politici a digiuno di galateo.

Un pensiero elitario”, sintetizza efficacemente Salvatore Cannavò su “il fatto quotidiano”, “degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è sempre appartenuto nonostante la lunga militanza nel PCI che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia”. Un pensiero elitario che ancora più che nella repulsione epidermica per ogni forma di movimento quando era ancora tra le fila del PCI, si palesò in tutta la sua portata con l’emergere dei 5 stelle. Dopo averci consegnato via golpe bianco alla macelleria sociale del governo Monti, in assoluto il peggior della seconda repubblica, Napolitano è stato costretto controvoglia a concederci il voto. Gli italiani hanno votato chiaramente per un ruolo di primo piano dei 5 stelle, che da niente hanno raccolto oltre il 25% dei consensi, ma Napolitano c’ha consegnato a due Governi a guida PD, Letta prima e Renzi poi. In questo modo comunque, ha definitivamente distrutto il peggior partito della fintasinistra neoliberista del continente. Insomma, ha fatto anche cose buone, ma solo quando non erano volute. Ma ancor più che al “miglior liberal-conservatorismo europeo”, l’avversione atavica di Napolitano all’irruzione del volgo nelle stanze del potere e a ogni forma di democratizzazione dell’ordine sia Nazionale che ancor più di quello internazionale, spiega la profonda affinità manifestata in più di un’occasione da Henry Kissinger. Come quando, nel 2015, volle consegnarli personalmente il premio che porta il suo nome e che è destinato alle “personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici”. Kissinger infatti è stato per eccellenza l’uomo delle trame segrete e dei cambi di regime manu militari per imporre su scala globale la controrivoluzione neoliberista nella sua accezione più estrema e feroce, come con Pinochet in Cile. Una controrivoluzione che ha significato molte cose, ma più di ogni altra, l’utilizzo dell’idea di un fantomatico vincolo esterno imposto da mercati immaginari per reagire alla crescita del potere dei subalterni e distruggere così l’idea stessa di democrazia moderna, com’era stata sancita nelle Costituzioni post seconda guerra mondiale. Non a caso Napolitano fu a lungo il più acerrimo dei nemici di Enrico Berlinguer, il leader politico italiano che probabilmente più di ogni altro comprese l’essenza dell’Unione Popolare di Allende e fece sua quella profonda riflessione sul nesso tra democrazia, sovranità popolare e nuovo ordine multipolare che sola avrebbe potuto rappresentare una risposta adeguata alla controrivoluzione neoliberista incombente.

Una cosa sola va riconosciuta a Napolitano: uomo del novecento, e persona colta e raffinatissima, proprio come Kissinger, è stato un più che degno rappresentante di un lungo periodo storico durante il quale ancora anche nel nord globale chi puntava alle gestione del potere, per il potere, dedicava tutta la sua vita alla politica. Da questo punto di vista, e solo a questo, bene hanno fatto i politici e i pennivendoli di oggi a scriverne all’unisono e senza eccezioni una ridondante e stucchevole apologia. Se Napolitano è stato l’amministratore delegato della controrivoluzione neoliberista e tra l’altro anche negli anni della sua inarrestabile e trionfale avanzata, loro ne sono al massimo il personale delle pulizie, nella fase del suo plateale e catastrofico declino. Se al posto dei media di regime che di lavoro ramazzano le macerie lasciate dal disastro del neoliberismo credi anche tu ci sia bisogno del primo media che sta dalla parte del volgo che vuole entrare nella stanza dei bottoni, aiutaci a costruirlo:

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