NON SIAMO NATI PER SOFFRIRE – storia della società senza classi e gerarchie dei nativi americani
Due giorni dopo il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese si riaccendeva la nenia preferita per la buonanotte delle coscienze occidentali, cantata in coro dall’establishment politico e mediatico: “C’è un aggressore e c’è un aggredito”. L’intellettuale d’avanspettacolo nella scena pop delle polarizzazioni rassicuranti, questa volta, era Beppe Severgnini, che intonava il carosello con cui – abitualmente – si intende aprire e chiudere ogni finto tentativo di serio confronto pubblico: “C’è un aggressore e c’è un aggredito”, appunto. Non solo: l’aggressore questa volta – sottolineava Severgnini – si era presentato con un’efferatezza superiore a quella del già animale Putin, come era stato definito dal nostro ministro degli esteri Luigi di Maio. Come mai tanta furia? Marco Travaglio, retoricamente, replicava così a Severgnini: “La domanda è: perché ci odiano tutti? Sono tutti rincoglioniti? Sono tutti nati cattivi o abbiamo fatto qualcosa anche noi?”. La risposta l’aveva già data, in giornata, il ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant: “Ho ordinato l’assedio completo di Gaza: niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”. La risposta ovvia alla domanda retorica c’era, ma era quella assurda: sono nati cattivi, animali. Eppure, tale opzione interpretativa non è tanto assurda, anche se può sembrarci così; anzi, a tale concezione politica si fa risalire la scienza politica moderna, cui si rifanno filosofi e politologi di tutte le specie. Quelle origini sono individuate in Hobbes che, per primo, ha ritenuto di fondare qualsiasi ragione e giustificazione politica su quella che da tutti, dopo di lui, è stata ritenuta un’evidenza: homo homini lupus. Gli uomini sono proprio degli animali, congenitamente dei lupi gli uni per gli altri: è nella loro natura arraffare e distruggere tutto ciò che vogliono fintanto che possono.
Come mai, allora, si ritrovano a vivere in società e a rispettare leggi e costumi, se, per loro natura, li violerebbero a piacimento? La risposta è semplice: perché non ci riescono. Essi sono troppo deboli per arraffare tutto ciò che vogliono senza mettere a repentaglio la loro esistenza, perché vivrebbero sotto il rischio costante di cadere vittime dell’analogo comportamento dei loro simili. Ecco che i popoli non diventano civili per aver scoperto dei valori diversi dal soddisfacimento animalesco, ma per un calcolo che glielo consenta quanto più possibile: costumi e leggi sono accordi impliciti ed espliciti su come ci si salvaguardi reciprocamente dall’egoismo congenito di ogni individuo. L’Europa prima, e ciò che chiamiamo Occidente ora, avrebbe scoperto questo meccanismo naturale, che è ciò che consente di convivere senza annientarsi a vicenda. I popoli che non ne sono divenuti consapevoli costituirebbero una minaccia per l’umanità; così – in questa prospettiva – ci si può considerare superiori nei confronti del resto del mondo e, allo stesso tempo, giustificare la sua oppressione. Si è civili sia perché non ci si opprime e sopprime a vicenda come dei selvaggi nello stato di natura, sia perché si opprimono e sopprimono coloro che, invece, vivrebbero come dei selvaggi nello stato di natura.
Che questo inconscio collettivo occidentale sia una logica conseguenza dei fondamenti filosofici della scienza politica moderna lo affermano anche l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengrow nella loro monumentale opera L’alba di tutto, pubblicata nel 2021; in particolare spiegano che, per esempio, questi sono i risultati dell’”hobbesiano moderno per eccellenza”: lo scienziato cognitivo Steven Pinker, uno dei guru per eccellenza dei multimiliardari della Silicon Valley. La sua opera risulta “un’apologia retroattiva del genocidio” – scrivono Graeber e Wengrow – “perché […] la riduzione in schiavitù, lo stupro, lo sterminio di massa e la distruzione di intere civiltà – inflitti dalle potenze europee al resto del mondo – sono soltanto l’ennesimo esempio di esseri umani che si comportano come hanno sempre fatto”. A essere davvero significativo, piuttosto – prosegue questa tesi – è il fatto che questo permise la diffusione di quelle che Pinker considera idee puramente europee di libertà, di uguaglianza davanti alla legge e di diritti umani dei sopravvissuti. Ingenuamente crederemmo che il motto thatcheriano There is no alternative identifichi un solo particolare indirizzo politico: quello neo – liberale; e invece si radica, piuttosto, in una concezione filosofica dell’essere umano che comporta l’egoismo, l’individualismo e la mercificazione consumistica, indicandoli come valori inevitabili e radicati nella natura umana. Per questo i partiti e gli indirizzi politici sono andati via via dissolvendosi: perché non è rimasto che amministrare l’ovvio.
“Il termine disuguaglianza” scrivono Graeber e Wengrow “è un modo di inquadrare i problemi sociali che ben si adatta a un’epoca di riformatori tecnocratici, inclini fin dall’inizio a dare per scontato che una visione della trasformazione sociale non sia nemmeno in esame”. Tecnocrazia è, infatti, proprio la gestione disincantata degli esperti, dei competenti, degli scienziati. L’evidenza, presupposto dell’azione tecnica – spiegano Graeber e Wengrow – è proprio quella teorizzata da Hobbes nel testo fondante della teoria politica moderna, il suo Leviatano (1651). La società umana, in questa concezione” scrivono Graeber e Wengrow “si fonda sulla repressione collettiva degli istinti più vili, che diventa ancora più necessaria quando gli uomini vivono in gran numero nello stesso luogo”. Due sono, dunque, i pilastri del riformismo tecnocratico: il primo assevera che “La società umana […] si fonda sulla repressione collettiva degli istinti più vili, che diventa ancora più necessaria quando gli uomini vivono in gran numero nello stesso luogo”: il secondo, invece, asserisce che “La disuguaglianza è l’inevitabile risultato del vivere in una qualunque società grande, complessa, urbana, tecnologicamente sofisticata”. Ecco dove può agire, tutt’al più, il riformismo della tecnocrazia: nel far sì che le disuguaglianze – inevitabili e implicite nella natura umana – non siano tali da minare la società stessa. Con la loro opera, invece, Graeber e Wengrow hanno l’ambizione di mettere in dubbio alla radice tutta questa concezione: “Come ci siamo ritrovati prigionieri di catene concettuali così strette da non riuscire più nemmeno a immaginare la possibilità di reinventarci?” si chiedono gli autori. La tesi del libro è che, in realtà, i risultati dell’archeologia e dell’antropologia suggerirebbero con sempre maggior forza che la concezione della natura umana e della società di cui siamo andati persuadendoci si adatti solo ad alcune società passate, simili alla nostra attuale, che abbiamo assurto a riferimento, ma risulterebbe del tutto inadeguata a spiegare altre civiltà che sono esistite ed hanno prosperato ma che abbiamo declassato a primitive, selvagge, inferiori. L’etnocentrismo e lo scientismo suprematisti dell’Occidente, insomma, insegnano che There is no alternative, ma lo fanno trascurando scientemente gli insegnamenti che provengono dal passato dell’umanità. Questo atteggiamento dogmatico è in continuità con l’atteggiamento che prevalse nell’età moderna, quando ad essere liquidato non fu un passato lontano, ma il presente straordinario che esploratori e coloni, a un certo punto, si ritrovarono di fronte: era il Nuovo Mondo, che – oggi come allora – ad occhi inesperti si presenta come primitivo, selvaggio, inferiore, ma che all’epoca seppe irrompere nell’immaginario come una possibilità inaudita, come uno scandalo da prendere sul serio.
Ma in che cosa consistevano quei contenuti stravolgenti, quegli stili di vita scandalosi? Padre Pierre Biard, ex docente di teologia incaricato, nel 1608, di evangelizzare i mi’kmaq della Nuova Scozia, scrive ad esempio che “Si considerano migliori dei francesi perché, dicono, voi combattete e litigate continuamente; noi viviamo in pace. Voi siete invidiosi e vi calunniate senza sosta; siete ladri e impostori; siete avidi e non siete generosi né gentili; quanto a noi, se abbiamo un pezzo di pane, lo dividiamo con il nostro vicino”. Vent’anni dopo, frate Gabriel Sagard scrisse della nazione wendat “Non intentano cause legali e non si affannano per ottenere i beni di questa vita, per i quali noi cristiani ci angustiamo tanto, e per la nostra avidità eccessiva e insaziabile nella loro acquisizione veniamo giustamente e ragionevolmente rimproverati dalla loro esistenza tranquilla e dalle loro indoli pacifiche”; “Ricambiano l’ospitalità e si aiutano a vicenda così tanto” continua Sagard “che le necessità di tutti sono soddisfatte senza che ci sia alcun mendicante indigente nelle loro città e nei loro villaggi; e la consideravano una pessima cosa quando sentivano dire che in Francia c’erano moltissimi di quegli accattoni bisognosi, e pensavano che dipendesse dalla mancanza di carità in noi e ci accusavano aspramente per questo”.
Nel 1644, padre Lallemant – invece – scriveva: “Non credo esistano popoli sulla terra più liberi di loro, e meno capaci di permettere la sottomissione delle volontà a qualsivoglia potere, tanto che qui i padri non hanno alcun controllo sui figli, o i capitani sui sottoposti, o le leggi della nazione su uno qualunque di loro, se non nella misura in cui ciascuno si compiace di sottomettervisi. Non vi sono punizioni inflitte ai colpevoli né criminali che non siano certi che la propria vita e i propri averi non siano in pericolo […]”. Molte di queste testimonianze si trovano nelle Relations des jésuites de la Nouvelle-France, delle quali “Probabilmente” sottolineano Graeber e Wengrow “qualunque famiglia del ceto medio nella Amsterdam o nella Grenoble del XVIII secolo [ne] custodiva nella libreria almeno una copia”. Il resoconto di Sagard – dal titolo Le grand voyage du pays des Hurons – “diventò un best-seller influente in Francia e in tutta Europa” e fu citato da Locke e Voltaire “come fonte principale per le loro descrizione delle società americane”. Importante è notare che tutte le testimonianze concordano nel rilevare che gli americani indigeni vivessero in società libere, al contrario degli europei; ciò su cui non concordavano – e intorno a cui si accese il dibattito – era l’auspicabilità di una tale libertà. Non era per niente ovvio che le libertà di cui godevano fossero un bene, anzi: le libertà che noi diamo per scontate – pur essendo ancora così lontane e povere rispetto alle loro – furono una faticosa e lenta acquisizione (cui abbiamo dato il nome di Illuminismo) nonché il portato delle rivoluzioni francese e americana. “Quando si tratta della libertà personale, della parità tra uomini e donne, dei costumi sessuali o della sovranità popolare – e persino, se è per questo, delle teorie della psicologia del profondo -” sottolineano i nostri due autori “gli atteggiamenti degli americani indigeni sono probabilmente molto più vicini a quelli del lettore rispetto a quelli degli europei del XVII secolo”.
Per i gesuiti tutto ciò era scandaloso: benché, per esempio, Lallemant concedesse che il loro sistema generasse “molto meno disordine di quanto ve ne sia in Francia”, aggiungeva che, complessivamente, i gesuiti si opponevano alla libertà; “Questa, senza dubbio” scriveva “è una propensione contraria allo spirito della fede, che ci impone di sottomettere non solo la volontà, ma anche la mente, il giudizio e tutti i sentimenti dell’uomo a un potere sconosciuto ai nostri sensi, a una legge che non è della terra e che è interamente contraria alle leggi e ai sentimenti della natura corrotta”.
Non solo: era una novità sconvolgente anche per le teorie politiche laiche, sia antiche che moderne. Lo rende esplicito Leibniz in una lettera a Wilhelm Bierling, nel 1710: “È senz’altro vero” scrive “che gli americani di queste regioni vivono insieme senza alcun governo ma in pace; non conoscono né lotte, né odi, né battaglie, o molto poco, eccetto contro degli uomini di nazioni o di lingue differenti. Direi che si tratti quasi di un miracolo politico, sconosciuto ad Aristotele e ignorato da Hobbes”. La sua fonte più prossima era costituita da un grande conoscitore dei wendat, Lahontan (come si fece chiamare l’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce), che da giovane prestò servizio in Canada fino a diventare il vice del governatore generale, per poi cadere in rovina e abbracciare, da ultimo, il successo con la pubblicazione di una serie di libri sulle sue avventure; diventato una celebrità, si trasferì alla corte di Hannover, dove risiedeva Leibniz: in questa circostanza diventarono amici. Di quella serie di libri, due erano memorie dei suoi soggiorni in America mentre il terzo, pubblicato nel 1703, si componeva di quattro conversazioni tra Lahontan stesso e Kondiaronk, un personaggio straordinario dei wendat, che fu “un guerriero coraggioso, un oratore brillante e un abile politico”. In questo testo si trovano quelle critiche alla società europea già registrate dai primi missionari: “Ci punzecchiano di continuo con i difetti e i disordini che hanno osservato nelle nostre città” scrive Lahontan “asserendo che sono provocati dal denaro. È inutile cercare di far notare loro quanto sia utile la distinzione della proprietà per il mantenimento della società: si fanno beffa di qualunque cosa si dica a tal proposito. In breve, non litigano né si scontrano, né si calunniano a vicenda; deridono le arti e le scienze e dileggiano la differenza di ranghi che si osserva da noi. Ci etichettano come schiavi e ci chiamano anime sventurate la cui vita non è degna di essere vissuta, accusandoci di esserci degradati assoggettandoci a un uomo [il re] che possiede tutto il potere e che non è vincolato da alcuna legge se non la sua volontà”; inoltre, continua Lahontan “Ritengono inammissibile che un uomo abbia più di un altro e che i ricchi godano di più rispetto dei poveri. In poche parole, dicono, il nome di selvaggi, che noi attribuiamo loro, sarebbe più adatto a noi, giacché non vi è nulla nelle nostre azioni che assomigli alla saggezza”. “Ho trascorso sei anni a riflettere sullo stato della società europea” avrebbe affermato Kondiaronk “e non riesco ancora a farmi venire in mente un solo modo in cui essa non agisca in maniera disumana, e credo sinceramente che ciò continuerà ad accadere fin quando vi atterrete alle distinzioni tra mio e tuo. Affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi. Immaginare di poter vivere nel Paese del denaro e conservare la propria anima è come immaginare di poter serbare la propria vita sul fondo di un lago. Il denaro è il padre del lusso, della lascivia, degli intrighi, degli inganni, delle menzogne, del tradimento, della disonestà: di tutti i peggiori comportamenti del mondo, insomma. I padri vendono i figli, i mariti le mogli, le mogli tradiscono i mariti, i fratelli si uccidono tra loro, gli amici sono falsi, e tutto per il denaro. Alla luce di ciò, dimmi che noi wendat non abbiamo ragione quando ci rifiutiamo di toccare l’argento, o anche solo di guardarlo”; “Se abbandonaste i concetti di mio e tuo” continua Kondiaronk “tali distinzioni tra gli uomini si dissolverebbero; e allora un’uguaglianza livellatrice prenderebbe il loro posto tra voi come fa ora tra i wendat. E sì, per i primi trent’anni dopo l’eliminazione dell’interesse personale, senza dubbio vedresti una certa desolazione, giacché coloro che hanno solo la capacità di mangiare, bere, dormire e dedicarsi al piacere languirebbero e morirebbero. La loro progenie, tuttavia, sarebbe idonea per il nostro stile di vita. Ho elencato più volte le qualità che, secondo noi wendat, dovrebbero definire l’umanità – saggezza, ragionevolezza, uguaglianza eccetera – e ho dimostrato che l’esistenza di interessi materiali separati ne impedisce lo sviluppo. Un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.
Insomma, Kondiaronk provava a spiegare ai coloni che There is an alterative, c’è un’alternativa; e senz’altro più di una; se la nostra ristrettezza di orizzonti temporali e la nostra limitatezza concettuale ci ha fatto credere che questo nostro mondo neo – liberale postmoderno fosse il solo possibile, e il solo possibile per una natura umana identificata con quanto di peggio ha dato nella sua storia e nella sua preistoria, ora sappiamo che c’è già stato molto altro e che non ci tocca per forza sorbirci questo mondo di merda. Dipende da noi.
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