Karl Polanyi, la grande trasformazione e la leggenda del libero mercato
Il mito fondativo dell’era del trionfo del neoliberismo in cui siamo immersi più o meno suona così: il mercato è il frutto spontaneo della natura umana; lo Stato con le sue regole, invece, è un artificio. Poi – vabbé – al limite ci si divide un po’ tra quelli che sostengono che sia un artificio che ha fatto anche cose buone e altri che, invece, sono convinti che abbia fatto solo ed esclusivamente danni, e meno c’è meglio è, ma sul mito fondativo il consenso è abbastanza trasversale.
La storia dell’economia è la storia della lotta tra il mercato e lo Stato, ma non per Karl Polanyi; storico, antropologo ed economista ungherese, nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale se ne venne fuori con una tesi che di primo acchito venne considerata piuttosto strampalata e che, in estrema sintesi, suona così: il libero mercato è tutt’altro che un fenomeno naturale, ma è un artificio e a renderlo possibile è Stato proprio lo Stato. Fa un po’ strano, no? A meno di situazioni straordinarie, lasciato in balìa di se stesso il mercato, alla fine, si regola da solo. Storpiando completamente l’idea di Adam Smith, nel tempo questo affermazione è diventata parte integrante del nostro senso comune; eppure, dice Polanyi – che oltre che economista era pure storico e antropologo – questa fede in un mercato in grado autoregolarsi non è insita nell’uomo. Anzi, è piuttosto recente e a promuoverla è Stato proprio quello che viene spesso considerato il suo più acerrimo nemico: lo Stato. “Il libero mercato” scrive infatti Polanyi “è frutto di scelte politiche. Il mercato come agente regolatore dell’economia non è derivato dal libero sviluppo del mercato arcaico, ma è Stato frutto dell’assalto della controrivoluzione capitalista, che ha distrutto le vecchie consuetudini per creare una società basata sul mercato”; uno di questi interventi statali è, ad esempio, l’abolizione del sistema di sussidi ad inizio Ottocento in Inghilterra. “La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in continuo interventismo centralmente organizzato e controllato. Rendere la semplice e naturale libertà di Adam Smith compatibile con la necessità di una società umana era una questione estremamente complicata”; il quadro dipinto da Polanyi mette in luce una contraddizione fondamentale: “Lungi dall’eliminare la necessità di controllo, regolamentazione ed intervento” scrive l’economista ungherese “l’introduzione di mercati liberi ne avevano accresciuto la portata. Gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema” e – guarda un po’ – “anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo Stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello Stato, non potevano far altro che affidare allo Stato stesso i suoi poteri organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”: per usare un francesismo, laissez-faire un par di palle. L’affermazione del mercato ha consistito, per Polanyi, nella creazione di un mercato autoregolato per il lavoro prima, per la terra poi e, infine, per la moneta, ma l’illusione è durata poco perché l’autoregolazione di questi tre mercati – e cioè l’assunto fideistico che le semplici forze della domanda e dell’offerta avrebbero potuto, sempre e in qualsiasi luogo, condurre la società a trovare un equilibrio ottimale – era destinata a scontrarsi subito con la dura realtà della vita economica concreta. Dalla libertà del mercato del lavoro emergevano povertà, disoccupazione e degrado; dalla libertà della terra scaturiva una concorrenza agguerrita nei mercati delle materie prime che minava gli interessi agrari e minerari e dalla libertà del mercato della moneta scaturivano crisi finanziarie, inflazione e pure deflazione, che mangiavano i profitti, rendevano gli investimenti rischiosi e distruggevano il commercio internazionale. E così lo Stato dovette tornare a intervenire per mettere un po’ di toppe in qua e in là per evitare che la nave affondasse; paradossalmente quindi, “Mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato” riassume Polanyi “le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”.
Altro che Stato contro mercato quindi: quando lo Stato ha pianificato scientemente qualcosa, quel qualcosa era, appunto, un mitologico libero mercato fondato sulla libertà dei più ricchi di arricchirsi a dismisura a scapito della salute dell’economia stessa; e quando, per salvare capra e cavoli, lo Stato è dovuto intervenire per mettere qualche paletto, non ha seguito un piano strutturato per ridimensionare lo strapotere delle oligarchie, ma si è limitato a mettere qualche toppa dove poteva. Per Polanyi doveva essere solo l’antipasto: “La società industriale”, scrive, potrà tornare ad esistere solo “quando l’esperimento utopistico di un mercato autoregolato non sarà altro che un ricordo orribile”.
Nei decenni successivi, le democrazie costituzionali moderne a quell’esperimento utopistico gli hanno dato una discreta mazzata, senza però riuscire a mettere definitivamente in soffitta quell’assurdo mito fondativo che, dopo una piccola parentesi di ragionevolezza, è tornato a imporsi con la grande controrivoluzione neoliberista: ancora una volta un esempio da manuale di fantomatici mercati autoregolamentati creati con la forza dallo Stato attraverso una meticolosa pianificazione fatta di delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione e demolizione delle istituzioni democratiche. Immancabilmente, però, anche a questo giro l’esperimento utopistico del mercato autoregolato è tornato nell’arco di pochi anni a presentare il conto, dopo aver raso al suolo la nostra società industriale; solo che, a questo giro, per ora di interventi pezzi e bocconi dello Stato per mettere qualche paletto qua e là in realtà non è che se ne vedano molti. Eppure la grande crisi ormai è in corso da 15 anni abbondanti, almeno da quando Lehman Brother fu obbligata a chiudere baracca; lo stimolo finale, l’altra volta, venne dalla guerra, che costrinse anche gli ultraliberisti britannici a convertirsi dal giorno alla notte a una specie di economia pianificata per non venire definitivamente rasa al suolo. Ecco: noi, sinceramente, per riportare un po’ di ragionevolezza nella politica mainstream vorremmo evitare di dover aspettare la terza guerra mondiale; chiediamo troppo?
Per rispondere, seguiteci domani sera, mercoledì 17 gennaio, a partire dalle 21 in diretta con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica: ospite d’onore il nostro caro Marco Bertilorenzi, che è un po’ il nostro cicerone quando cerchiamo di addentrarci nella storia del pensiero economico. E, nel frattempo, se come noi pensi che ci sarebbe bisogno come il pane di un media che invece che fare da ripetitore alla propaganda delle oligarchie provi a darci gli strumenti per capire che un’alternativa c’è – e magari anche in cosa dovrebbe consistere – aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Donald Reagan