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I Marines USA sbarcano nelle Filippine per la grande guerra contro la Cina – ft. Josef Gregory Mahoney

Isola di Itbayat, il territorio più a nord delle Filippine, 156 chilometri a sud dall’estremità inferiore di Taiwan: un plotone armato di fucili automatici e mitragliatrici salta giù dai Black Hawk; subito dietro seguono elicotteri Boeing ch-47 dai quali saltano fuori altre dozzine di uomini con taniche di carburante, sacchi di pasti pronti, casse di forniture mediche, piccoli droni e apparecchiature per le comunicazioni satellitari. Sono membri delle forze armate filippine e, soprattutto, statunitensi: appartengono al terzo Marine Littoral Regiment, completamente ridisegnato appena due anni fa come parte di una riorganizzazione complessiva per permettere al corpo dei Marines di prepararsi al meglio per la nuova fase di scontro tra grandi potenze, dopo decenni passati a combattere nemici infinitamente più deboli in Iraq e Afghanistan. “Questa” sottolinea il Wall Street Journal “era un’esercitazione militare: le armi non avevano munizioni e i lanciamissili Javelin non avevano missili. Ma i Marines si stanno preparando per un conflitto nel mondo reale, mettendo a punto una strategia che considerano fondamentale per combattere la Cina dalla catene di isole più vicine”; in caso di conflitto reale, continua il Journal, “questi Marines avanzerebbero il più lontano e il più velocemente possibile con missili e radar. Si distribuirebbero in piccoli gruppi attraverso le isole e le coste e poi continuerebbero a muoversi in modo che i missili, i sensori e i droni cinesi non li trovino”. L’avversario, ha commentato al Journal il colonnello John Lehane, dovrebbe “spendere un sacco di risorse per capire dove siamo e cosa stiamo facendo”; l’obiettivo, sottolinea, è “complicare il suo processo decisionale”. “In pratica” sottolinea però il Journal “potrebbe non essere così facile”: operare in luoghi austeri e lontani, infatti, presenta diversi problemini; è vero che alcune isole sono attrezzate con piste di notevoli dimensioni, ma il grosso può contare al massimo su un piccolo eliporto. Le aree costiere remote poi, continua il Journal, spesso non sono collegate da strade adeguate per trasportare sistemi radar e batterie missilistiche e “I Marines avrebbero bisogno di piccole navi da manovrare, ma non le hanno”; in caso di conflitto aperto, inoltre, ogni luogo sarebbe vulnerabile: la Cina, infatti – sottolinea il Journal – “dispone di un formidabile arsenale di missili e droni di ogni forma e dimensione” oltre ad avere un vantaggio colossale. Qui si tratterebbe, infatti, di combattere nel suo cortile di casa, in prossimità della sua flotta navale, delle sue basi militari e di una rete di sorveglianza pervasiva e ultra-sofisticata”. L’obiettivo dei Marines però, spiega il Journal, sarebbe fondamentalmente “quello di impantanare la Cina nelle prime fasi di un conflitto, guadagnando tempo affinché altre forze statunitensi entrino in azione. Dalla linea del fronte, sarebbero in grado di fornire un’immagine ravvicinata dello spazio di battaglia utilizzando sensori e piccoli droni e avrebbero l’opportunità di lanciare missili per distruggere le navi cinesi o rispedire dati precisi sul posizionamento del nemico agli aerei da guerra o alle navi statunitensi e alleate”; “Il caso ideale”, avrebbe dichiarato al Journal Bernjamin Jensen del Center for Strategic and International Studies di Washington, “è che ci siano queste forze fluide che scorrono su e giù per la prima catena di isole e che costringono costantemente la Cina a dargli la caccia”, perché “Ogni sensore utilizzato dalla Cina per cercare un reggimento costiero del Corpo dei Marines è un sensore che non viene utilizzato su un altro obiettivo”. Negli ultimi due anni questo reggimento si è addestrato in giro per le isole Hawaii, in particolare concentrandosi sulle tattiche che permettono di comunicare rimanendo nascosti ai sensori cinesi come, ad esempio, attraverso la creazione di rumore nello spettro elettromagnetico.

Joseph Gregory Mahoney

Insomma: le condizioni sono complicate e richiedono una preparazione incredibilmente sofisticata, ma tutto sta procedendo per non lasciare niente al caso: i mezzi pesanti USA, a partire dalle portaerei, hanno accesso a 9 basi sparse per il paese che gli statunitensi stanno investendo massicciamente per ammodernare; queste nove basi, più tutte quelle nelle isole meridionali del Giappone, sono potenzialmente raggiungibili dai missili cinesi, ma è la quantità a fare la qualità. I sistemi d’arma che possono in modo efficace raggiungere queste postazioni direttamente dalla terraferma non sono infiniti e non sono gratis: se protette adeguatamente, colpirle non è banale; colpirle in poco tempo tutte, irrealistico. I piccoli battaglioni che occupano gli avamposti più vicini a Taiwan, allora, avrebbero il compito non semplice (ma non impossibile) di impedire alle forze navali cinesi di superare la prima catena di isole e, quindi, rendere il più complicato possibile colpire i mezzi USA parcheggiati a distanza di semi-sicurezza: “I Marines” sottolinea inoltre il Journal “mirerebbero anche a contrastare la strategia anti-accesso della Cina volta a bloccare l’area e a rendere troppo pericoloso per le forze statunitensi avvicinarsi a Taiwan”; “Teniamo il piede nella porta in modo che la porta non possa essere chiusa di colpo per il resto delle forze congiunte e questo ci mette potenzialmente in pericolo” avrebbe dichiarato al Journal il tenente colonnello James Arnold, che dirige il battaglione antiaereo del reggimento. “Ecco perché lavoriamo ogni giorno su tattiche che ci consentano di farlo in modo efficace e duraturo”.
Vista dal Pacifico, si capisce anche a che gioco stanno giocando in Ucraina: l’obiettivo, infatti, a noi pare sia sempre quello di continuare a tenere impegnata la Russia sul fronte occidentale e, visto che ad oggi la partita non è andata esattamente benissimo e le forze ucraine sono più che stremate, questo necessariamente implica prendersi anche qualche rischio di un escalation più violenta di quanto si vorrebbe. Ma non c’è niente di irrazionale o di scriteriato: è una necessità strategica del tutto razionale; è il prezzo di aver dichiarato la guerra totale al resto del mondo. E le evoluzioni potrebbero essere, al solito, più rapide del previsto perché se oggi il blocco imperialista ha bisogno ancora di tempo per preparare la guerra del Pacifico, ha anche bisogno di fare in fretta perché la sproporzione enorme – in termini di base industriale – a favore della Cina trasforma ogni minuto che passa in un un ulteriore vantaggio per la Cina. Finalmente, quale sia la partita in corso cominciano a capirlo anche alcuni politici di peso del vecchio continente; ieri Melenchon, probabilmente primo in assoluto tra i politici europei, ha fatto delle dichiarazioni che colgono il cuore della battaglia in corso: “Il centro del mondo” ha dichiarato “in quest’ora in cui si prepara la più terribile delle guerre, non è sul suolo europeo. E’ laggiù, tra le coste delle Americhe e le coste dell’Asia”. Gli USA, continua Melenchon, “vogliono la guerra perché lì si produce il 50% della ricchezza mondiale” e per lo scambio di questi beni “i dollari non saranno più utilizzati come prima”; in questo modo “l’impero viene colpito nel profondo, perché il suo nucleo è la valuta, che può stampare quanto vuole perché non è vincolato da nessuna delle regole che si applicano a tutte le altre nazioni” e “il giorno in cui le nazioni si metteranno d’accordo tra di loro per pagare nelle loro valute, è finita. L’impero crolla”.
Della partita che, a livello prettamente strategico e geopolitico, si sta consumando nel Pacifico, avevamo parlato un po’ di tempo fa con Josef Gregory Mahoney, professore di relazioni internazionali alla East China Normal University: quello che vi presentiamo oggi è un piccolo estratto doppiato in italiano di quella straordinaria intervista che potete vedere in integrale qui, sul nostro canale in lingua inglese.

Nel 1999 ci sono stati tre eventi in particolare che qualcuno a Pechino ha interpretato come un tentativo deliberato da parte degli Stati Uniti di provocare le fazioni più nazionaliste e dividere il partito: il primo è stato una fornitura massiccia di armi a Taiwan; il secondo fu il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado e il terzo fu quando Clinton respinse la richiesta cinese di aderire al WTO e nel farlo rivelò la posizione negoziale della Cina, dove sembrava che la Cina, pur di vedere approvata la sua adesione, fosse sostanzialmente disposta a tutto, e fu qualcosa che fece letteralmente imbestialire i più nazionalisti. Per quanto riguarda l’attacco all’ambasciata, dobbiamo ricordare che in quel momento a Belgrado c’erano sostanzialmente solo due edifici che erano totalmente off limits: l’ambasciata russa e l’ambasciata cinese e gli Stati Uniti ne colpirono uno con numerose bombe. L’ex premier Li Peng sosteneva che l’attacco fosse chiaramente deliberato e che bisognava reagire; il premier in carica Zhu Rongji invece sosteneva che non potevamo essere certi si trattasse di un attacco deliberato: quello che però era certo è che gli USA non ci rispettano abbastanza da prendere tutte le misure necessarie per evitare di colpirci. A quanto pare, il presidente Jiang Zemin allora si rivolse ai militari e chiese: c’è qualcosa che possiamo fare per rispondere? E la risposta fu: in realtà, no. Ed è proprio da lì che cominciamo ad assistere alle grandi riforme delle forze armate. Da qua iniziano investimenti imponenti: ora sappiamo che gli USA sono in conflitto con noi; dobbiamo accettare questa realtà e prepararci per gli eventi futuri.
Non venne rivista la linea di base che, appunto, vedeva nella pace e nello sviluppo la tendenza storica, ma divennero sempre più cauti e diffidenti; e questo è un punto importante, perché in Occidente c’è questa percezione che la Cina, nel tempo, è diventata più aggressiva e che la Cina ha spinto gli USA – per reazione – in una posizione aggressiva. Ma no, no e ancora no: non è quello che è successo; da lì in poi la Cina ha cominciato a sviluppare queste capacità belliche asimmetriche. Le due prime grosse novità furono, in particolare, i missili anti-portaerei e quelli che vengono definiti i radar fantasma; i missili anti-portaerei sappiamo tutti cosa sono: sono, appunto, missili che possono abbattere le gigantesche portaerei statunitensi. La marina USA continua a sostenere di poterli intercettare, ma non è vero; ne possono intercettare 1 o 2, ma non ne arriverebbero 1 o 2: ne arriverebbero a mucchi. Quindi questo è stato uno sviluppo significativo che ha fortemente ridotto la capacità degli USA di dispiegare flotte di portaerei in acque vicine.
La seconda, appunto, sono quelli che a volte vengono definiti i radar fantasma: quando gli USA ti attaccano, la prima cosa che cercano di fare, ovviamente, è accecarti; per farlo, hanno aerei che volando a quote molto alte sono capaci di eludere il controllo dei radar. Questi aerei trasportano missili anti-radar e hanno il compito di neutralizzare queste installazioni; quello che fanno questi radar fantasma è creare migliaia di quelle che chiamiamo firme radar e, praticamente, rendono molto difficile individuare le installazioni. Inoltre molto spesso questi radar sono mobili e questi aspetti insieme, in sostanza, impediscono agli USA di fare la prima mossa. Ora, una cosa importante è che gli USA sono sempre stati convinti che la Cina avesse una dottrina che escludeva il first strike nucleare; quindi, fintanto che sfidi la Cina sul terreno convenzionale, la Cina non passerà al nucleare. Quindi l’idea degli USA era che se possiamo dominare con la deterrenza convenzionale, domineremo la Cina: questo spiega perché negli anni ‘80 i cinesi erano ossessionati con la Siria. Perché? Perché in Siria c’era una grande base sovietica e gli USA si stavano impelagando in Libano; l’idea allora era: se cade l’Unione Sovietica – e ricordate sempre che Mao è sempre stato convinto che sarebbe crollata, sin dagli anni ‘50 – quando crollerà, insomma, cosa succederà? Cosa succederà in Afghanistan? La preoccupazione era che gli USA si sarebbero fatti strada in Asia Centrale attraverso la Siria ed è per questo che hanno sviluppato la seconda, la terza e anche la quarta linea difensiva in regioni come il Gansu o lo Xinjiang; il timore era quello di venire completamente circondati: da una parte gli USA avevano tutte le loro installazioni in Corea, in Giappone e in Thailandia e, dall’altra, sarebbero potuti avanzare in Asia Centrale. L’obiettivo di Washington, del quale ho sentito parlare direttamente, era sostanzialmente fare in modo che ogni singolo angolo della Cina fosse raggiungibile con armi convenzionali nell’arco al massimo di 15 minuti, chiaro? Ed ecco quindi perché la Cina ha iniziato ad essere assertiva e ha cominciato a investire nella costruzione di organizzazioni come la Shanghai Cooperation Organization, dove lavorano fianco a fianco con la Russia, perché la Russia gioca un ruolo di primo piano in tutta l’Asia Centrale. Tenete sempre presente che, a lungo, in Occidente c’è sempre stato questo paradigma strategico che era molto popolare nel Regno Unito, ma anche in Russia e anche negli USA e, cioè, che chiunque controlli l’Afghanistan controlla l’Asia Centrale e, quindi, controlla l’Asia; quindi la Cina da sola non può controllare l’Asia Centrale e nemmeno la Russia, ma se lavorano assieme attraverso un’organizzazione come la SCO, dove si crea una partnership tra tutti i paesi coinvolti, beh, allora è possibile creare un framework per la sicurezza e lo sviluppo in grado di prevenire queste penetrazioni esterne e metterci al sicuro. Questa è la logica: devi indebolire la capacità di attacco convenzionale. E la Cina c’è riuscita: non hai più le basi ostili in Asia Centrale e gli Stati Uniti sono andati via dall’Afghanistan e, con i missili, tieni lontane le portaerei nel Pacifico. Quindi tutte le minacce convenzionali sono state sensibilmente ridimensionate, ma c’è una minaccia che non è stata rimossa ed è quella nucleare.
Ma dove sono i missili per un eventuale first strike
nucleare USA? In Giappone? In realtà no: sono nell’Artico, sotto il ghiaccio; sono i sottomarini, i sottomarini che viaggiano sotto il ghiaccio dell’Artico. Questi sottomarini, ovviamente, possono presidiare anche i mari del Sud, ma lì corrono il rischio di essere avvistati dai satelliti, tracciando il calore che viene rilasciato; sotto il ghiaccio, invece, riescono a nascondersi. Ora, come fai a contrastare questa minaccia? Devi mandare dei cacciatori di sottomarini sotto il ghiaccio e provare a mappare dove sono parcheggiati i sottomarini avversari, quindi devi mandare i tuoi sottomarini in avanscoperta, ma c’è un piccolo problema: è che gli Stati Uniti hanno portato i loro sottomarini e controllano tutti i movimenti con i loro sonar. La Cina ha sostanzialmente due basi principali per i suoi sottomarini: una nel nord e una nel sud; i sottomarini cinesi sono discreti, ma sono un po’ più rumorosi di quanto spererebbero i cinesi, quindi, nel momento stesso che lasciano la base, i sonar USA li identificano e ne tracciano i movimenti. Ora, chi è invece che può tracciare i sottomarini statunitensi? La Russia. Quindi la Cina è costretta a collaborare a una partnership strategica con la Russia per mitigare quest’ultima minaccia rimasta in piedi; il motivo di tutte le tensioni intorno alle isole Diaoyu e nel Mar Cinese Meridionale hanno sostanzialmente a che fare con questo. Il problema è che devi avere la possibilità di portare i tuoi sottomarini nel mare aperto prima che vengano identificati dagli USA: le Diaoyu sono essenziali per avere questa via di fuga a nord e il mar cinese meridionale a sud, altrimenti perché i cinesi starebbero rovinando le loro buone relazioni con i Paesi del Sudest asiatico su questioni inerenti il Mar Cinese Meridionale? Per avere accesso a più fonti fossili? O al pesce? Ovviamente non ha senso: possono comprare il pesce dall’Indonesia; la Cina, però, non vuole ammettere chiaramente di avere dei problemi di sicurezza strategica, non vuole rendere pubbliche le sue vulnerabilità. Preferisce, piuttosto, che il modo si convinca che è diventata forte e assertiva, che è quello che l’Occidente sostiene. I cinesi insistono col dire che stanno affermando il loro diritto storico a questi territori, secondo la linea dei nove tratti, ma, in realtà, la storia non c’entra: quello che scatena queste tensioni è l’esigenza strategica di garantirsi sicurezza e sovranità, che ha a che fare con quello che gli USA hanno cominciato a fare dopo che la Cina stessa ha sviluppato la capacità di respingere l’accerchiamento convenzionale degli USA sia dalla terra che dal mare.

Come sosteniamo dal febbraio del 2022, quella a cui stiamo assistendo è la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo e nessun fronte si spegnerà finché la guerra totale non sarà conclusa; gli unici che possono spegnerla siamo noi, quelli che i costi della guerra li pagano sulla loro pelle. Per farlo, ci dobbiamo organizzare e, per organizzarci, abbiamo bisogno – prima di tutto – di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è tutto Stoltemberg

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Mettiamo fine all’Unione europea? – Perché il progetto comunitario è fallito e deve finire

Ti dichiari un europeista convinto? Pensi che, per essere competitiva, il destino dell’Italia non possa che essere negli Stati Uniti d’Europa? Sogni il giorno in cui, finalmente, portoghesi e moldavi potranno vivere in uno stesso Stato? Allora questo è il video giusto per te perché a giugno ci saranno le elezioni europee e, come ogni 4 anni, si presentano partiti e liste minacciose e figure ancora più ambigue e sinistre che si candidano a guidare le istituzioni: e, allora, oggi ci tocca fare un discorso che sappiamo un po’ per tutti difficile da digerire perché si tratta di nientepopodimeno che di mettere in discussione l’ultima grande utopia politica di almeno un paio di generazioni di europei (e anche noi, in fondo in fondo, ci abbiamo un po’ creduto); ma, arrivati a questo punto, sarebbe peggio continuare a far finta di nulla, riempirci la testa di rassicurante propaganda e aspettare che la catastrofe diventi irreversibile. E allora facciamo un bel respirone e diciamocelo senza paura: l’entrata dell’Italia nell’euro è stata un fallimento e questa Unione europea è un progetto finito. E, preso atto di tutto questo, le forze popolari europee hanno oggi il compito urgente di proporre una seria alternativa sociale e democratica a queste istituzioni comunitarie fondate sugli interessi delle oligarchie finanziarie, sulla guerra e sulla politica estera americana.
“Ma certo, hai ragione” penserà adesso l’europeista convinto “e il problema sono i sovranisti che impediscono una vera federazione; la soluzione è che ci vuole ancora più Europa! Il nostro destino sono gli Stati Uniti d’Europa; da soli gli Stati nazionali non potranno mai farcela da soli” (cit. europeista convinto). Calma! Calma! Perché su questo argomento non possiamo più permetterci di essere banali, superficiali o ideologici, ed è anzi questa adesione quasi religiosa al progetto di questa Unione europea e alla sua moneta ad aver causato i maggiori danni e ad aver tradito la speranza e l’idea di un vero soggetto geopolitico indipendente e competitivo con le altre superpotenze del mondo. Sì, perché – purtroppo – quando in Italia si parla di euro ed Unione europea ci si scontra ancora con un muro; un muro – come scrive il professore di economia Eugenio Pavarani nel suo articolo per La Fionda Il male della banalità – fatto prima di tutto di “luoghi comuni, di false credenze, di falsi miti, di informazioni distorte, di banalità”.
L’europeismo in Italia non è, infatti, una posizione politica tra le altre, ma è diventato come un tabù religioso; e persino sugli effetti negativi della moneta unica per la nostra economia, ormai dimostrati da una copiosa letteratura scientifica, non si può avere una discussione franca e razionale e, piuttosto che mettere in discussione la bontà e la speranza del suo sogno federalista, l’europeista convinto preferisce non ascoltare e guardare dall’altra parte. “L’euro è assurto a ruolo di indicibile, di totem, di feticcio” scrive il professore di economia a Cassino Gabriele Guzzi su Limes; “Invece di procedere in analisi equanimi ci si nasconde dietro a una religiosità europeista spesso molto sterile. Malgrado questo” conclude “lo iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale si fa ogni anno più insostenibile.” In questo video, non solo richiameremo alcuni dati fondamentali che dimostrano i danni del mercato unico e dell’euro per molte economie europee (compresa la nostra), ma ci soffermeremo soprattutto sulle resistenze culturali che, ancora oggi, impediscono a tanta opinione pubblica di affrontare in maniera obiettiva e realistica l’argomento della moneta comune e del progetto comunitario; un video europeista nello spirito perché avere a cuore il destino del nostro continente e dei popoli europei significa oggi ammettere il fallimento delle sue recenti e contingenti istituzioni politiche e la necessità, dalle loro ceneri, di costruire qualcosa di completamente nuovo.
Partiamo da un presupposto che dovrebbe essere ovvio e che, invece, non lo è per nulla: criticare la moneta unica, o le forme giuridiche e istituzionali dell’attuale unione a 27 membri, non vuol dire essere anti – europeisti; già questa equazione tra l’essere europeisti ed essere a favore del progetto delle politiche della Banca Centrale Europea e della Commissione puzza di ideologia e di propaganda da lontano un miglio. “Un paese maturo” scrive infatti Guzzi “dovrebbe valutare razionalmente l’opportunità di rimanere in un’istituzione come l’Ue. Non dovrebbe cimentarsi in petizioni di principio del tutto astratte. Uno Stato potrebbe considerare l’Europa il proprio punto di riferimento da un punto di vista storico, culturale, persino politico. Ma non dovrebbe porre nell’ambito dei valori una particolare istituzione storica, nata trent’anni fa, o peggio una moneta come l’euro. Su questa tipologia di decisioni è il pensiero critico, ossia la continua valutazione realistica delle opportunità, la dimensione su cui uno Stato maturo dovrebbe porsi. Non vaghi atti di fede.” E quindi questo video, lo sottolineo, non è nemmeno lontanamente un video anti – europeista, ma un video mosso da spirito costruttivo che, da una parte, riporta alcuni dati che dimostrano come l’Italia, insieme a molti altri paesi, sia stata oggettivamente danneggiata dalla moneta unica e, dall’altra, che riflette sul fatto che una nuova Unione tra le nazioni europee fondata sulla solidarietà, sul primato della politica sull’economia e sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti è, nei fatti, strutturalmente incompatibile con le attuali istituzioni comunitarie.
Partiamo dalla situazione attuale; negli ultimi due anni, l’idea che l’epidemia avesse rappresentato un momento rifondativo per l’Ue grazie all’emissione di eurobond si è scontrata con la realtà: non c’è stato nessun salto di qualità, nessuna prospettiva federalista. “Mentre il mondo brucia tra guerre e divisioni” scrive Guzzi “l’Ue continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa” e questo, come vedremo, non perché lo impediscono i sovranisti alla Orban (come subito starà pensando l’europeista convinto), ma perché sono esattamente queste le fondamenta e il progetto dell’Unione europea che emergono dai trattati. E’ esattamente questa l’Unione europea che hanno voluto le élite e che continuano a volere. Non è un incidente. Non è un errore da correggere per poter tornare sulla giusta carreggiata. È così che funziona perché è così che è stata pensata e, oltre agli Stati Uniti che sono da sempre dietro al progetto comunitario, anche piccole cerchie del grande capitale stanno infatti continuando a beneficiarne, naturalmente a spese dei ceti medi e popolari.
Ma partiamo dalla moneta unica: l’euro, ci dicevano, avrebbe reso più ricco e competitivo tutto il continente; a vent’anni dalla sua introduzione, i dati ci dicono esattamente l’opposto. L’Europa, prima dell’euro, aveva il PIL pro capite pari a quello degli Stati Uniti; oggi è a circa la metà. Nel frattempo, nessuna politica fiscale comune è stata fatta e questo non perché ci sono i sovranisti cattivi che lo hanno impedito (come ribatterà il nostro europeista convinto), ma perché non è nemmeno mai stata proposta in quanto non coerente con gli stessi principi fondativi dell’Unione europea. Nel contesto poi di questa perdita di competitività di tutto il continente – che già confuta uno degli argomenti preferiti degli europeisti secondo cui l’Unione europea e l’euro sarebbero fondamentali a competere meglio con le superopotenze – alcune economie hanno ricavato vantaggi dalla moneta unica e altre no (vantaggi a danno degli altri paesi membri, si intende). “Nei propositi iniziali” scrive Guzzi “l’euro avrebbe dovuto raggiungere diversi obiettivi. Tra gli altri, promuovere la crescita economica, ridurre le divergenze tra paesi, diventare un credibile competitore rispetto al dollaro. Dopo venticinque anni, possiamo dire che tutti questi obiettivi non sono stati raggiunti.” “Certo!” penserà l’europeista convinto: “E’ successo perché alcune classi dirigenti nazionali sono state più in grado di altre di sfruttare la moneta unica; non è colpa dell’euro, non è colpa della UE: è, come al solito, colpa dell’incompetenza dei singoli Stati nazionali ed è la prova che ci vuole più Europa!” (europeista convinto)
Ma, ormai, lo abbiamo imparato a conoscere il nostro europeista convinto; è la solita strategia argomentativa del benaltrismo, utile per non mettere mai in discussione la sua fede a prescindere da qualunque dato o argomento: per la strategia del benaltrismo i problemi non sono mai e poi mai legati all’Unione europea e all’euro che sono, sempre e comunque, un bene in sé, ma sempre e solo ai problemi interni delle nazioni, problemi che, invece, si risolverebbero – ça va sans dire – se queste si donassero completamente alle istituzioni comunitarie. Peccato che le cose non stiano proprio così e il caso dell’Italia è paradigmatico: da circa 20 anni il nostro paese ha smesso di crescere e sta vivendo un drammatico declino strutturale che ha inizio nella seconda metà degli anni ’90, proprio in coincidenza temporale con la fissazione del cambio nei confronti dell’ECU che poi, in continuità, è divenuto euro nel 1999; due grafici, che ricaviamo dall’illuminante articolo di Pavarani, fotografano la tempistica e l’entità del declino e non richiedono molti commenti.

Ecco: qui vediamo la famosa Italietta della liretta aumentare stabilmente il proprio PIL pro capite fino alla metà degli anni 90, diventando una delle più ricche e prospere comunità del pianeta, per poi cominciare il suo triste declino in coincidenza con l’introduzione dell’euro; questa curiosa coincidenza temporale, come scrive Pavarani, appare ancora più marcata se confrontiamo – secondo i dati Eurostat – il reddito pro capite italiano con la media dei 15 Paesi dell’eurozona più sviluppati.
Dalla tabella seguente e dal relativo grafico è possibile rilevare che, dopo un lungo inseguimento culminato a metà degli anni ’90, la distanza del reddito pro capite italiano dalla media (livello zero nel grafico) è bruscamente tornata su valori negativi e fortemente decrescenti.

Nel 1996 fu definitivamente stabilito il cambio della lira prima nei confronti dell’ECU, divenuto poi euro. “Dal confronto dei due grafici” scrive Pavarani “emerge una più precisa puntualizzazione temporale dell’inizio del declino, che viene a coincidere con la definitiva perdita della flessibilità del cambio”. Semplice coincidenza temporale? Si può anche continuare a pensarlo e sostenere che sia tutta colpa dei populisti che parlano alla pancia invece che alla testa delle persone, ma – come sottolinea Pavarani – ci si pone allora in aperto contrasto con una ormai corposa letteratura scientifica che ha individuato chiare relazioni di causa ed effetto; ad esempio l’economista J. E. Stiglitz che, nella sua opera dedicata all’euro (L’Euro), scrive che “La causa della crisi è da attribuire alla struttura stessa dell’Eurozona e alle politiche da essa imposte, non alle mancanze dei singoli Paesi”. Persino Giuliano Amato, non proprio un sovranista della prima ora, dichiarava “Abbiamo fatto una moneta senza Stato; abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta, senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato […]; non abbiamo voluto ascoltare le indicazioni della letteratura e oggi possiamo dire che era davvero difficile che l’unione monetaria potesse funzionare e ne abbiamo visto tutti i problemi”.
Non mi soffermerò adesso sugli aspetti tecnico – economici che stanno alla base dei gravi effetti negativi che l’euro ha avuto per la nostra economia e, per chi avesse voglia di farsi una prima idea su questo argomento, metto qui sotto in descrizione gli articoli di Pavarani e Guzzi; sta di fatto che il processo di integrazione e la moneta unica, per come sono stati progettati, non potevano che essere fonte di vantaggi per alcuni e, simmetricamente, di svantaggi per altri: fa parte del suo DNA, ma questo non ci deve stupire. Nata nel clima culturale della controrivoluzione neoliberista, è questa l’ideologia politica su cui si fondano i Trattati Europei e l’euro e che, tutt’oggi, guidano le istituzioni comunitarie; un’ideologia, come sappiamo bene, intrinsecamente oligarchica e fondata sul primato dell’economia sulla politica: “L’intervento dello Stato nel mercato, le politiche distributive, la tutela dei diritti sociali, sono contrastate dalle regole che l’Ue si è data e ostacolate dalle riforme che essa richiede ai Paesi membri” scrive Pavarani. “Le regole del gioco sono quelle del mercato e della concorrenza che premiano e penalizzano”; “Naturalmente” conclude il professore di economia all’Università di Parma “tutto questo è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al progetto di società prefigurato nella nostra Costituzione, e infatti l’Italia è stata fortemente penalizzata dalle dinamiche comunitarie, anche più di altri Stati, proprio per la difficoltà di adeguare il proprio modello sociale (e gli assetti giuridici, economici, politici e sociali) al paradigma imposto dall’UE.”
Ma se la stragrande maggioranza dell’impresa italiana è stata colpita, anche se in modi diversi, dalle politiche di austerità e dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro paese e solo piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato (e continuano a beneficiarne), come spiegare la persistente adesione di buona parte della classe media italiana alla fede europeista senza se e senza ma? È chiaro che le ragioni economiche non bastano e che siamo di fronte ad una forte resistenza ideologica e culturale che impedisce di guardare in maniera lucida e pragmatica alla realtà; e per capire più in profondità cosa ha significato e significa l’euro e l’Unione europea nel nostro inconscio collettivo, bisogna fare un po’ di storia. La firma del trattato di Maastricht avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia; l’anno prima c’era stata la caduta dell’Unione Sovietica con le sue catastrofiche conseguenze sul pensiero di sinistra occidentale. In quegli anni, insomma, l’Italia – con la fine della DC e del PCI – si ritrova in piena crisi istituzionale e sprovvista delle due grandi ideologie politiche che avevano dato un senso alla sua vita politica fino a quel momento: “Un intero sistema era collassato” riflette Guzzi “e le élite italiane valutarono il nostro paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali”; è allora qui che troviamo le radici dell’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica e al progetto comunitario che, per noi, non sono mai stati solo un utile strumento per mantenere la pace e portare avanti gli interessi nazionali, ma sono diventati la nuova grande utopia politica a cui fare riferimento, un’ideologia politica con caratteri quasi millenaristici che permea tutta la nostra cultura politica del terzo millennio. “L’unificazione europea divenne la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare quelle attese millenaristiche che caratterizzavano entrambe le tradizioni [comunista e cattolica]” sottolinea Guzzi: “un marchingegno teologico – politico per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato”; “Anche l’euro” continua “fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nuova identità strategico – culturale del paese”.
Ed è per questo che è così difficile, in molti ambienti, parlare realisticamente e serenamente di queste cose: perché l’ideologia europeista è fortemente intrecciata con la vicenda biografia del paese, con la nostra identità individuale e collettiva, con tutto il senso del nostro agire politico. Alla fine, però, la forza dell’evidenza colpisce sempre più forte e la realtà sono anni che ha incominciato a bussare nuovamente alla porta. Arrivati a questo punto manca, però, un ultimo gradino: senz’altro, l’europeista convinto si sente adesso un po’ scosso e sente forse i primi dubbi presentarsi alla sua coscienza, ma non si sente ancora pronto a rinunciare al suo sogno, alla sua più intima speranza e, cioè, che tra mille inciampi e contraddizioni, è in fondo solo questione di tempo e, prima o poi, gli Stati nazionali europei metteranno da parte le divergenze, di litigare tra loro e si convinceranno che l’unica cosa veramente razionale da fare è di dare vita agli Stati Uniti d’Europa “perché sarà anche vero che l’Unione europea è un progetto neoliberista che ha contributo a distruggere la nostra socialdemocrazia, sarà anche vero che l’euro ci ha danneggiati, che l’Europa ha perso competitività con le altre superpotenze e che gli Stati Uniti dirigono oggi la politica estera europea con ancora più facilità. Ma la federazione delle nazioni europee in stile americano! Quello, se vogliamo sopravvivere, non può che essere il nostro destino!” pensa l’europeista convinto. E non essendo altro che una fede, di fronte a questa prospettiva tutto è possibile, tutto è permesso, tutti i sacrifici sono giustificati; per l’europeista convinto gli italiani potranno, tra 30 anni, anche finire a cibarsi di vermi purché gli dicano che stiamo comunque andando nella direzione del Grande Progetto Federale. Scriveva Carlo Caracciolo su La Stampa il 16.11.2022: “L’idea d’Europa è immortale. Perché perfettamente irrealistica. Non mettendosi alla prova o rifiutandone gli esiti, resta articolo di fede… L’europeismo ideale è indifferente alle miserie dell’europeismo reale”.
Per approcciarci in maniera più realistica a questo tema, proviamo a porci le seguenti domande: quanto è verosimile, ad oggi, che i Paesi membri decidano di aderire ad un ordinamento federale che li priverebbe di ogni sovranità allo stesso modo in cui ne sono privi i singoli Stati della federazione americana? Quanto è probabile che i cittadini francesi, tedeschi, greci e croati rinuncino tutti insieme, nello stesso momento, alla loro Costituzione? Quanto è credibile che un cittadino della Baviera o della Lombardia possa gradire che le imposte da lui versate vadano a beneficio di cittadini della Romania o dell’Estonia? Ora, ammesso e non concesso che una federazione di Stati europei in stile americano che va dal Portogallo alla Lettonia risolverebbe qualcuno dei nostri problemi nazionali ed europei, ha però ragione l’europeista irremovibile? E, tra mille difficoltà e contraddizioni, le istituzioni europee stanno veramente remando in quella direzione e, ogni anno che passa, facciamo un piccolo passettino nella realizzazione di questo progetto?
No: pur ammessa la bontà del sogno dell’europeismo ideale, anche in questo l’europeismo reale è pronto a smentirlo perché non solo, come vedremo subito, la federazione degli Stati Uniti d’Europa non è nell’agenda e nei programmi delle istituzioni europee, ma è anzi in totale contraddizione con i Trattati e con lo spirito neoliberista su cui l’Unione è stata fondata; “La stragrande maggioranza delle persone che conosco sono certe che l’Ue sta seguendo un percorso lineare, diretto, ma ancora incompleto, che porterà alla creazione di uno Stato europeo” scrive Pavarani. “Sono altrettanto certo che, se prendessero coscienza che questa prospettiva appartiene esclusivamente alla dimensione del mito e che non ha nessuna radice nella realtà, la loro eurofilia probabilmente si scioglierebbe come neve al sole.” Benché lo faccia credere ai suoi cittadini, infatti, l’Unione europea non vuole avere una dimensione politica, autonoma e sovrana di tipo statuale: “L’attuale Unione europea” scrive Pavarani “non ha alcun bisogno dello Stato, della politica, di compiuti poteri legislativi ed esecutivi: le scelte politiche, quantomeno in materia economica, sono già state fatte; sono stabilite a monte, sin dall’origine, e sono cristallizzate nei Trattati, una volta per tutte”.
È vero che la costruzione che è stata realizzata presenta un evidente deficit democratico, ma questo era esattamente nei piani perché la democrazia implicherebbe che, con il voto, gli elettori possano cambiare la politica economica e in Europa non deve funzionare così; la sovranità che è consentita al popolo è soltanto la possibilità di cambiare il governo nazionale, ma senza cambiare politica economica perché questa è impostata sul pilota automatico determinato dalle regole e dai Trattati europei. In pieno stile neoliberista, il mitologico mercato – e quindi, in realtà, delle ristrettissime oligarchie che traggono beneficio dallo status quo – deve avere l’ultima parola e deve essere tenuto ben al riparo dalle interferenze e dalle distorsioni prodotte dalle istanze democratiche. Per quale ragione, chiediamoci, le élite economiche, che guidano le istituzioni europee con l’avvallo statunitense, dovrebbero volere sopra di sé il controllo di uno Stato federale democraticamente eletto? “I sognatori sonnambuli non hanno capito che l’ordinamento istituito dai Trattati non si colloca nella direttrice del loro sogno, non è una tappa nel percorso che porta ad un nuovo Stato sovrano, gli Stati Uniti d’Europa. Si è realizzato un altro sogno, ben diverso, che si colloca nella direzione opposta. È il sogno di coloro che si proponevano di liberare l’economia dall’ingombrante presenza pubblica; si proponevano di liberare il mercato dagli effetti distorsivi generati dall’intervento dello Stato nel conflitto distributivo e a garanzia dei diritti sociali attraverso politiche di welfare; si proponevano di sottrarre agli Stati le sovranità nazionali sulle politiche economiche e non certo per riproporle in una dimensione statuale più grande a livello accentrato” scrive Pavarani.
L’obbiettivo, raggiunto e consolidato nell’attuale assetto dell’Unione, era ed è il depotenziamento degli Stati nazionali e lo svuotamento dei poteri di intervento pubblico; non certo l’obbiettivo di costruire un nuovo Stato più grande che riproponesse su scala più ampia, a livello europeo, il modello degli Stati nazionali e, quindi, diciamolo una volta per tutte: l’attuale Unione europea non è un assetto istituzionale incompiuto da completare in senso federale attraverso alcune riforme. È già completa ed è perfettamente coerente al disegno iniziale: “Lo Stato federale non può essere un modello per il futuro per la semplice ragione che questo, come gli Stati nazionali, è concepito in base all’idea di sovranità statuale” conclude Pavarani “mentre l’idea che sta alla base del progetto di integrazione europea nasce, al contrario, proprio dall’istanza del superamento degli Stati nazione e della loro sovranità”. E questo non sono quei disfattisti anti-occidentali di Ottolina, Guzzi e Pavarani a dirlo, ma la stessa Unione europea: il 9 maggio 2022 si è conclusa la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dal presidente francese Macron; la mission della Conferenza è stata delineata in una dichiarazione comune e divisa in 9 temi su cui incentrarsi per il futuro:[1] cambiamento climatico e ambiente;
[2] salute;
[3] un’economia più forte, giustizia sociale e posti di lavoro;
[4] l’Ue nel mondo;
[5] valori e diritti, stato di diritto, sicurezza;
[6] trasformazione digitale;
[7] democrazia europea;
[8] migrazioni;
[9] istruzione, cultura, giovani e sport.
Come si evince, quando l’Unione europea si interroga sul suo futuro non prende nemmeno in considerazione l’opportunità di mettere all’ordine del giorno e di avviare una discussione in merito ai passi necessari, il tragitto verso un assetto statuale di tipo federale (e, infatti, non se ne fa cenno nel documento finale); la costituzione di uno Stato federale non è in alcun modo contemplata.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro che il mito degli Stati Uniti d’Europa ci viene venduto fin da bambini per continuare ad ingoiare tutte le schifezze e tragedie che il vero progetto dell’Unione europea, quello oligarchico, neoliberista e figlio dell’occupazione americana, ci costringe a subire; quello che contribuisce allo smantellamento della socialdemocrazia e alla lotta di classe dall’alto verso il basso. Gli Stati Uniti d’Europa come il nuovo oppio dei popoli europei, l’oppio a causa del quale da 30 anni abbiamo smesso di guardare con lucidità politica a quello che succede intorno a noi. E se anche tu non sei un europeista convinto e, quindi, non ti illudi che le oligarchie economiche filo americane che traggono vantaggio da questa Unione europea decideranno di suicidarsi da sole e pensi che solo la lotta e il conflitto politico faranno nascere un nuovo progetto politico ed economico dei popoli europei, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che combatta la loro propaganda finto europeista. Aderisci alla campagna di campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Il “piùEuropa” e il male della banalità | La Fionda