Skip to main content

Tag: interessi

Crollo consumi e dividendi record: la doppia rapina di USA e oligarchie contro i lavoratori europei

Dividendi da record titolava entusiasta ieri Il Sole 24 Ore: “Le borse mondiali pagano 339 miliardi” e questo solo nei primi tre mesi del 2024; “Un nuovo massimo a livello globale” festeggia il giornale dell’1%. Se ne esistesse anche uno del 99% probabilmente festeggerebbe molto meno, soprattutto se si occupasse del 99% dei lavoratori europei. Come dimostra questo grafico pubblicato il giorno prima dal Financial Times, infatti, se i nostri azionisti ridono, le famiglie europee non c’hanno più nemmeno gli occhi per piangere: mentre il livello dei consumi delle famiglie USA, infatti, rispetto ai livelli prepandemia è cresciuto di ben oltre il 10%, il nostro è rimasto completamente invariato. Zero. Niente. Neanche un piccolo cenno di crescita; ed è solo l’antipasto. E il primo che ci stanno preparando sarà ancora più indigesto: questo ulteriore, gigantesco trasferimento di ricchezza dalle famiglie europee verso quelle USA, da un lato, e verso le oligarchie di entrambe le sponde dell’Atlantico dall’altro, infatti, non può che comportare un ulteriore svuotamento delle casse dello Stato alle quali, giustamente, non contribuiscono i cittadini USA, ma decisamente molto meno – giustamente, sempre di meno – anche le nostre oligarchie. Risultato: FMI, allarme sui conti come titolava ieri La Repubblichina; secondo il Fondo Monetario, riporta l’articolo, “Serve una manovra da 60 miliardi in due anni per sanare il bilancio” e, ovviamente, “bisogna fermare tutte le misure in deficit”. Eh, giustamente: chi ci crediamo d’essere, gli USA? Le misure in deficit sono una cosa da ricchi e su chi, alla fine, dovrà pagare il conto s’è scatenata una vera e propria guerra: Sorpresa redditometro titolava mercoledì La Stampa; “Torna lo strumento che stana gli evasori in base agli eccessi di spesa”. Strano: già 10 anni fa, infatti, Matteo Salvini aveva definito il redditometro “roba da regime comunista”; sostanzialmente, è una misura che dovrebbe permettere all’Agenzia delle entrate di andare a bussare alla porta di chi dichiara redditi al di sotto della soglia di sussistenza, ma poi, magari, ogni due anni si compra un SUV nuovo e non esce di casa senza un Rolex al polso. Insomma: lo zoccolo duro dell’elettorato della destra fintosovranista. Se la destra di governo arriva a introdurre una misura del genere – tra l’altro ad appena un paio di settimane da un appuntamento elettorale di tutto rilievo – vuol dire che sono veramente alla frutta; e, infatti, è bastato aspettare 24 ore ed ecco che, come titolava ieri La Repubblichina, Redditometro, marcia indietro del governo.
Insomma: se non siete tra quelli che hanno da parte montagne di azioni di qualche grande corporation e la scappatoia della piccola evasione proprio non vi riguarda perché le tasse, come a oltre il 70% dei lavoratori italiani, ve le prelevano di default dalla busta paga, ho come l’impressione che quelli che vi aspettano non siano esattamente tempi di vacche grasse. Oh, se poi pensate ne valga comunque la pena perché per difendere le democrazie liberali dall’invasione del plurimorto dittatore del Cremlino, dei cinesi e dei bambini palestinesi che c’hanno il terrorismo nel DNA, per carità, fate pure per carità; ma prima di provare a spiegarvi perché – probabilmente – non ne vale la pena, ricordatevi di mettere un like a questo video e aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi ai nostri canali social e attivare tutte le notifiche: è un’operazione che a voi costa meno tempo di quanto abbia impiegato il governo per fare retromarcia sul redditometro (o la tassa sugli extraprofitti delle banche), ma per noi fa comunque la differenza e ci permette di continuare a provare a costruire un vero e proprio media che, invece che dalla parte di Washington, delle oligarchie e degli svendipatria, sta dalla parte del 99%.
I lavoratori europei, da decenni, sono vittime non di una rapina, ma di due; e da quando gli USA e le oligarchie del Nord globale hanno dichiarato guerra al resto del mondo, il tasso di furti che subiamo quotidianamente ha raggiunto dimensioni mostruose. La prima rapina è raffigurata in modo chiaro in questo grafico pubblicato mercoledì scorso dal Financial Times:

Nel grafico viene confrontata la crescita dei consumi delle famiglie di USA, Eurozona e Gran Bretagna a partire dall’ultimo trimestre del 2019, vale a dire dall’inizio della crisi pandemica. Le linee tratteggiate indicano l’andamento che i consumi delle rispettive famiglie avrebbero dovuto avere se fosse stata confermata la crescita media registrata nei 6 anni precedenti e, già qui, abbiamo una rappresentazione chiara della prima rapina che i consumatori europei subiscono da quelli USA ormai da decenni: fatto 100 il consumo delle famiglie nell’ultimo trimestre del 2019, infatti, se avessimo continuato con il business as usual, nel 2024 i consumatori europei avrebbero raggiunto appena quota 106; quelli USA, 112. Insomma: i consumi statunitensi crescono a un ritmo doppio rispetto a quelli europei o, per dirla meglio, a discapito di quelli europei, un trend che – come abbiamo sottolineato decine di volte su questo canale – procede invariato da quasi 20 anni e, cioè, da quando l’economia mondiale è stata travolta dalla crisi finanziaria innescata dagli USA che ha segnato l’inizio di quella che l’amico Vijay Prashad definisce la terza grande depressione (col paradosso che chi ha scatenato la crisi in realtà non ha fatto che arricchirsi, mentre a pagare il conto ci pensavamo noi). Chi segue questo canale il dato lo conosce ormai benissimo, ma visto che – nonostante gridi vendetta – i media mainstream si scordano sistematicamente di riportarlo, è sempre bene ribadirlo: se infatti, ancora nel 2007, i paesi dell’Eurozona in media (e l’Italia in particolare) avevano un reddito e un patrimonio pro capite di poco inferiori a quelli statunitensi, oggi siamo a meno della metà.
La buona notizia è che ci sarebbe potuta andare peggio, che è esattamente quello che è successo dalla crisi pandemica in poi: nonostante il nostro trend di crescita, infatti, fosse già in partenza decisamente meno ambizioso, magicamente siamo riusciti a non cogliere manco quello; anzi, manco ad avvicinarci. A 4 anni di distanza, infatti, siamo sempre allo stesso identico punto: i nostri consumi non sono cresciuti di una virgola; quelli USA, di oltre il 10%. La prima differenza macroscopica risale immediatamente al periodo pandemico durante il quale, ovviamente, a crollare sono stati i consumi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con un’entità parecchio diversa: fatto 100 il consumo nell’ultimo trimestre 2019, il picco più basso raggiunto nei mesi successivi è stato di 90 negli USA, ma addirittura di meno di 85 nell’Eurozona. Dopodiché, se gli USA hanno raggiunto di nuovo il livello di consumo prepandemico subito all’inizio del 2021, noi abbiamo dovuto aspettare 6 mesi di più e da lì in poi, mentre noi ci siamo arenati, gli USA hanno continuato a correre ancora per alcuni mesi a ritmi cinesi; com’è possibile? Molto semplice: nonostante anche nell’Eurozona, per un periodo, si sia sospeso il delirante patto di instabilità e decrescita e, una volta tanto, gli Stati abbiano fatto quello che dovrebbero fare sempre gli Stati (e, cioè, mettere mano al portafoglio in periodi di crisi), l’euro comunque rimane l’euro e il dollaro rimane il dollaro; il che significa, banalmente, che gli USA si possono indebitare quanto gli pare senza mai pagare dazio, che tanto, grazie all’egemonia del dollaro, l’inflazione che generano stampandolo all’infinito mal che vada la possono sempre scaricare sugli altri. Poi è arrivato l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Russia e contro l’economia europea e l’esorbitante privilegio del dollaro – come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – s’è fatto sentire ancora di più: per tenere a freno l’inflazione che l’immissione di una quantità massiccia di soldi pubblici aveva scatenato, la Federal Reserve ha iniziato la lunga corsa all’aumento dei tassi di interesse e tutti gli altri le sono andati dietro.
Per cercare di spiegare quanto la corsa al rialzo dei tassi di interesse fosse la peggiore delle strategie possibili immaginabili per contrastare l’inflazione, nel corso di questi due anni e passa abbiamo speso ore e ore di video: l’inflazione in questa fase, infatti, oltre che alla liquidità in circolazione, aveva ovviamente a che fare non solo con le tensioni geopolitiche, ma anche con la speculazione che su queste tensioni ha trovato il modo di farci una montagna di quattrini e anche con quella che, con Isabella Weber, abbiamo imparato a chiamare greedflation e, cioè, l’inflazione che le aziende hanno contribuito ad alimentare aumentando i prezzi ancora di più di quanto non fossero aumentati i costi, approfittando del fatto che la concorrenza è morta e ormai il capitale privato, in quasi tutti i settori, è oligopolistico (se non, addirittura, monopolistico) e garantendosi così una montagna di profitti. La lotta all’inflazione a colpi di aumenti dei tassi, quindi, da questo punto di vista (come spesso accade) più che una vera motivazione, appare più che altro una scusa buona per gli analfoliberali e le bimbe di Cottarelli ed Elsa Fornero e che, stringi stringi, ha rappresentato un’altra arma nell’arsenale del rapinatore a stelle e strisce: con l’esplosione del debito registrata per contrastare gli effetti della pandemia, infatti, l’impennata dei tassi significa dover sborsare una quantità gigantesca di quattrini solo per pagare gli interessi sul debito e mentre gli USA – di nuovo per l’esorbitante privilegio del dollaro – se ne possono tranquillamente sbattere, per le semicolonie europee rappresenta un bel problemone, soprattutto dal momento che il patto di instabilità e decrescita non è che è stato cestinato per adottare una politica economica più realistica e ragionevole, ma soltanto temporaneamente sospeso per poi essere reintrodotto. Risultato: mentre noi ci ritroviamo a tagliare ulteriormente la spesa pubblica con l’accetta in ossequio ai deliranti parametri di Maastricht, gli USA continuano a crescere grazie a un deficit pubblico che fa letteralmente paura e, grazie a questo deficit, non solo continuano a pompare artificialmente la loro economia bollita, ma hanno una montagna di quattrini da regalare alle aziende che decidono di abbandonare l’Eurozona e andare a investire nella terra ri-promessa, al punto da creare più domanda di lavoro (in particolare qualificato) di quanto sia disponibile negli USA – in particolare dopo 40 anni di finanziarizzazione che ha distrutto tutto il know how possibile immaginabile. Ed ecco, così, che mentre da noi mancano gli investimenti e il top a cui ambire è fare la stagione in qualche località balneare con stipendi inferiori al vecchio reddito di cittadinanza (che, nel frattempo, abbiamo cestinato), gli investimenti multimiliardari – come quello di TMSC per costruire nuove fabbriche per riportare negli USA la produzione di microchip – vengono rinviati perché non si trova abbastanza manodopera qualificata e ovviamente quella poca che c’è, giustamente, ha tutti gli strumenti per farsi pagare a peso d’oro, come gli operai dell’automotive che hanno strappato aumenti da capogiro. Risultato, appunto: i consumi delle famiglie USA volano e i nostri sono al palo. “Povertà a livelli mai toccati da 10 anni” denuncia l’ultimo rapporto ISTAT pubblicato la settimana scorsa; nell’arco di un decennio, l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 6,9 al 9,8%: un italiano su 10 è tecnicamente povero, anche se lavora. Tra gli operai, i poveri sono passati dal 9 al 14,6% e “tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.
Fortunatamente, però, chi – invece che del suo lavoro – campa di rendita, se la passa decisamente meglio perché, se continua imperterrito questo trasferimento di risorse da una parte all’altra dell’Atlantico, all’interno dei singoli paesi – allo stesso tempo – procede impunita un’altra rapina: quella che vede trasferire risorse da chi ha poco o niente a chi ha già troppo. “Dopo il 2023 da record” riportava ieri, infatti, Il Sole 24 Ore “il valore dei versamenti effettuati agli azionisti dalle società quotate ha registrato un nuovo massimo anche nei primi tre mesi del nuovo anno”; in particolare, come previsto, “la spinta al rialzo è arrivata sopratutto dal settore bancario”. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie all’aumento dei tassi di interesse, infatti, le banche prendono i soldi dei correntisti (ai quali non riconoscono manco mezzo euro di interessi) e li depositano nelle banche centrali che, invece, gli riconoscono interessi del 4,5%: un furto con scasso talmente palese che anche la Giorgiona nazionale, qualche mese fa, aveva fatto finta di volere per lo meno tassare; dopo un paio di giorni i titoloni sui giornali, però, sono scomparsi insieme alla tassa e così oggi “I dividendi staccati dalle società del credito hanno rappresentato un quarto della crescita globale del primo trimestre, con un aumento del 12%”. E’ l’ultimo tassellino di un trend che va avanti, inesorabile, da oltre 40 anni: “Dagli anni ‘80” ricorda il nostro buon vecchio Andrea Roventini su Il Fatto, “la fetta del PIL che va al 50% più povero è in discesa mentre l’1% e lo 0,1% più ricco stanno incamerando una frazione sempre maggiore del reddito”. E il problema non è soltanto per quello che ci mettiamo in tasca noi persone comuni direttamente, ma anche per tutto quello che ci mettiamo indirettamente – e, cioè, quello che dovrebbe garantirci lo Stato – perché il 5% più ricco non si limita a incassare più quattrini, ma, in piena violazione del dettato costituzionale, più è ricco e meno tasse paga: “Il sistema fiscale italiano” continua infatti Roventini “è già piatto sostanzialmente per tutte le classi di reddito, e quando arriviamo al 5% più ricco diventa addirittura regressivo”. Insieme ad altri 134 economisti, il buon Roventini, allora, ha presentato una semplice proposta di una tassa sui grandi patrimoni; in soldoni, si tratterebbe di introdurre tre novità: la prima, una tassa progressiva sul patrimonio dello 0,1% più ricco, a partire dalle montagne di titoli azionari che i super-ricchi concentrano nelle loro mani e che sottraggono risorse all’economia. Poi si tratterebbe di aumentare le tasse su successioni e donazioni oltre una certa soglia, dal momento che – sottolineano gli economisti – “siamo una sorta di paradiso fiscale per le successioni”; e, infine, di introdurre nuovi scaglioni IRPEF che, negli anni, sono passati dai 32 del 1974 (quando l’Italia era ancora una democrazia moderna e cercava di applicare il dettato costituzionale) ai 3 di oggi.
Peccato che, invece dei nostri 134 economisti, al governo ci sia la peggiore destra svendipatria fintosovranista e vera amica di oligarchie ed evasori e che la delega fiscale – che è proprio adesso in fase di attuazione – vada ancora in senso diametralmente opposto. Insomma: invece che prima gli italiani, prima i padroni d’oltreoceano e poi gli italiani sì, ma esclusivamente ultraricchi. Contro la doppia rapina, è arrivata l’ora di tornare ad alzare la testa: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della sinistra ZTL e della destra fintosovranista, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!





L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

Per farlo però, abbiamo bisogno del tuo sostegno:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su PayPal e GoFundMe.

E chi non aderisce è Christine Lagarde

Il delirio degli svendipatria: se il Governo dei Finto-Sovranisti Svende l’Italia agli Oligarchi

Cosa si può vendere per tornare a crescere”

No, giuro. Non è la provocazione di qualche mattacchione. E’ proprio la citazione testuale di un titolo vero di giornale, e non su un giornaletto della parrocchia ma su Libero, che magari vi farà pure ridere ma non dovrebbe: per quanto sia imbarazzante, rimane comunque una delle testate di riferimento della maggioranza di governo che, mentre voi ridete, ha messo il turbo per l’ennesima ondata di svendite a tutto tondo dei gioielli di famiglia alle solite vecchie oligarchie finanziarie che, negli ultimi decenni, ci hanno ridotto in miseria.

La guerra senza frontiere che gli USA, con la complicità delle istituzioni europee al servizio delle sue oligarchie, hanno ingaggiato contro l’economia del vecchio continente, sta dando i suoi frutti: recessione, corsa al rialzo dei tassi di interesse e politiche monetarie ultra-restrittive delle banche centrali, indipendenti dai Governi, ma succubi delle oligarchie finanziarie, stanno facendo saltare tutti i conti. A breve l’Italia dovrà rifinanziare qualcosa come poco meno di centocinquanta miliardi di debito e a comprarlo non ci sarà più la BCE; gli acquirenti ce li dovremmo andare a trovare sul mercato, che è il nome di fantasia che la propaganda neoliberista ha dato a quel manipolo di oligarchi che determinano da soli e senza che nessuno abbia la volontà di mettergli dei paletti, l’andamento dell’intera economia del nord globale.

Per convincerli, li dovremo riempire di quattrini: circa il 5% di interessi, se tutto va bene. Dieci volte quello che pagavamo alla BCE. Le oligarchie, così, si intascheranno tutto quello che abbiamo risparmiato, smantellando senza ritegno lo stato sociale che però – almeno questo è quello che cercano di spacciarci – non è abbastanza e quindi, per far finta di provare a tenere i conti in ordine, dovremmo accollarci un’altra bella overdose di sacrifici che toccheranno soltanto a noi.

I multimiliardari, infatti, è meglio lasciarli perdere, visto che abbiamo passato gli ultimi 30 anni a cucirgli addosso leggi ad hoc che gli permettono, appena anche solo si comincia a parlare di tasse e di redistribuzione, di portare i capitali dove meglio credono senza mai pagare dazio. Ed ecco quindi che per fare cassa, la maggioranza che è andata al governo grazie alla retorica sulla patria e il sovranismo, la patria si prepara a svenderla a prezzi di saldo, quasi fosse un Giuliano Amato qualsiasi, e per giustificarsi ha avviato una campagna ideologica a suon di pensiero magico e fake news che in confronto il maccartismo era un onesto e genuino tentativo di ricercare la verità.

Davvero vogliamo permettergli di svendere quel poco che ci rimane senza battere ciglio?

In tempi di vacche magre, per far quadrare i conti, bisogna tagliare le spese e mettere mano ai risparmi. lo sanno bene padri e madri di famiglia”. Fortunatamente, adesso, lo ha imparato anche il governo, che finalmente si è posto l’obiettivo “di portare in cassa la bellezza di una ventina di miliardi per puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità”.

Sembra il temino di un alunno un po’ zuccone per la prima verifica di economia della terza superiore verso metà degli anni ‘90, quando la nuova moda della religione neoliberista dominava incontrastata e in Italia ancora si faceva fatica a prevedere i disastri epocali che avrebbe causato, e invece è l’incipit di un articolone a tutta pagina di Libero di ieri; lo firma un tale Antonio Castro, che fortunatamente non avevo mai sentito nominare. Googlando, si trova questo: “Antonio Castro, cantante intrattenitore per eventi musicali”, il che giustificherebbe tutto.

E invece no: spulciando più a fondo, si scopre che è solo un omonimo, e che il nostro Castro invece non solo è un giornalista, ma addirittura il capo servizio economia di tutto il giornale.

E’ come se il direttore del centro Nazionale di metereologia e climatologia dell’aeronautica militare iniziasse un suo paper scrivendo che “non ci sono più le mezze stagioni”, o un direttore di un prestigioso dipartimento di antropologia scrivesse che “come tutti sanno, i neri hanno la musica nel sangue”.

L’equiparazione della politica economica di un Governo alla gestione di un bilancio familiare è la frontiera più estrema dell’analfabetismo economico che si è diffuso tra i ceti “intellettuali” in Italia, in particolare appunto a partire da fine anni ‘80; fino ad allora, nei paesi che hanno sconfitto da tempo l’analfabetismo di massa, nessuno si sarebbe azzardato ad affermare simili puttanate, e nei quarant’anni successivi, ovviamente, la realtà ha sistematicamente presentato il conto, smentendo in maniera plateale ogni singolo assunto derivante da queste leggende metropolitane inventate dagli oligarchi e diffuse dall’esercito dei loro utili idioti.

Come ormai sappiamo tutti benissimo, privatizzare e tirare la cinghia non aiuta in nessun modo a mettere in ordine i conti, ma finisce di devastarli; per mettere in ordine i conti, l’unico modo è far ripartire l’economia, e per far ripartire l’economia l’unico modo è aumentare quella che Keynes chiamava la domanda aggregata, e in particolare gli investimenti pubblici e i salari.

Ma allora perché è ripartita fuori tempo massimo questa campagna ideologica completamente campata in aria?

Semplice: come vi ripetiamo da mesi, costringere i paesi come il nostro, alla periferia dell’Europa e con i conti sempre in bilico, a svendere i gioielli di famiglia era la finalità ultima di buona parte delle assolutamente insensate scelte di politica economica perseguite negli ultimi anni senza distinzione da tutte le forze politiche, finti patrioti in testa. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso: tra i gioielli di famiglia da svendere agli oligarchi, quei fini intellettuali di Libero in particolare ne hanno individuati due: la RAI e le Ferrovie. Non fa una piega. La privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito da decenni è il caso scuola probabilmente in assoluto più eclatante di come la privatizzazione dei monopoli naturali sia sempre, immancabilmente, una vera e propria rapina effettuata dalle oligarchie contro tutto il resto della popolazione. “La RAI”, invece, sottolinea Libero, “può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti”; e giustamente, se le grandi società internazionali sono golose e vogliono concentrare ancora di più i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di oligarchi, chi siamo noi per impedirglielo?

Ma le aziende pubbliche strategiche sono solo una parte del pacchetto regalo che il governo degli svendipatria ha in serbo per le oligarchie finanziarie globali; c’è tutto un mondo di piccole e medie imprese da offrire in palio e anche qua ci siamo già portati un bel pezzo avanti.

Comprate e chiuse”, titola La Verità, “le aziende italiane in mano straniera. Negli ultimi 5 anni”, sottolinea l’articolo, “1000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale”. Le cifre ricordate dall’articolo, fanno letteralmente paura: negli ultimi 5 anni infatti, le aziende con sede in Italia ma con soci di maggioranza stranieri, sono aumentate di oltre il 25%, e oggi sono la maggioranza assoluta di quelle con oltre 250 dipendenti.

Per molte di queste”, sottolinea l’articolo, “il destino non è il rilancio, ma il saccheggio e poi la chiusura”; in particolare, dal momento che a fare shopping nella maggioranza dei casi non sono altri gruppi industriali, che cercano di raggiungere una maggiore efficienza attraverso l’integrazione e il raggiungimento di economie di scala. Afare shopping, il più delle volte, sono fondi speculativi e “la finanza”, sottolinea giustamente l’articolo, “è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona in termini di trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione dei dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni di lavoro”.

Gli esempi si sprecano: il più celebre, grazie alla cazzimma dei lavoratori coinvolti, è senz’altro quello della GKN di Campi Bisenzio, chiusa dal giorno alla notte dal fondo inglese Melrose, nonostante i conti in ordine e l’alto livello di competenza della manodopera. Stessa sorte per la Gianetti Ruote di Monza, caduta nella rete del fondo speculativo tedesco Quantum Capital Partner, che è salito alla ribalta delle cronache per aver licenziato in tronco tutti i dipendenti poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco dei licenziamenti introdotto durante la fase pandemica.

A febbraio scorso”, ricorda l’articolo de La Verità, “il tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280 mila euro agli ormai ex suoi lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento”. Negli ultimi giorni invece è scoppiato il caso della Magneti Marelli di Crevalcore: era stata venduta a un fondo dagli Agnelli nel 2018, ovviamente a seguito della solita buffonata della garanzia del mantenimento dei posti di lavoro in Italia. Per acquistare l’azienda, il fondo, come accade sostanzialmente sempre, si era indebitato e poi aveva scaricato questo debito sui conti dell’azienda, azzerando gli investimenti proprio quando la transizione ai motori elettrici li avrebbe resi più necessari. Ora ovviamente il fondo piange miseria a causa del calo di affari dovuto alla imprevedibile transizione energetica dai motori a combustione a quelli elettrici, e a pagare il prezzo sono i 229 lavoratori e l’economia italiana tutta. Quel fondo si chiama KKR, “la macchina dei soldi” come lo definiva già nel 1991 in un bellissimo libro la giornalista investigativa americana Sarah Bartlett.

Negli anni, KKR è diventato sinonimo in tutto il mondo di spregiudicate operazioni di acquisto a debito, o leverage buyout, in grado di riempire le tasche degli azionisti sulla pelle dei lavoratori e dei territori che vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza; ora, a breve KKR potrebbe diventare proprietario della rete di telecomunicazioni di TIM, con il pieno sostegno del governo.

Cosa mai potrebbe andare storto?

Ma l’aspetto ancora più paradossale è che, nel tempo, i governi che si sono succeduti su queste acquisizioni hanno cominciato a mettere il becco, ostacolandone alcune attraverso il famoso strumento del golden power. Peccato, l’abbiano fatto totalmente a sproposito: invece che opporsi agli acquisti predatori da parte dei fondi speculativi, infatti, si sono opposti ai pochi acquisti di natura veramente industriale, che invece che depredare il nostro tessuto produttivo, avrebbero potuto arricchirlo. Il motivo? A comprare, in quel caso, erano gruppi industriali cinesi, mentre i fondi speculativi battono tutti bandiere occidentali; amiamo così tanto i nostri alleati democratici che, pur di accordargli qualche privilegio, siamo disposti a sacrificare fino all’ultimo operaio.

Contro la ferocia predatoria dei prenditori della finanza, e contro le politiche suicide degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che sta dalla parte di chi la ricchezza la produce, e non di chi se ne appropria e la distrugge.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti.