Skip to main content

Tag: inflazione

Perché l’Italia è fallita?

Avete mai realizzato quanto siete poveri? Ecco: ve lo faccio vedere.

In questo grafico, la linea rossa rappresenta il rapporto tra il reddito pro capite degli italiani e quello dei francesi a parità di potere d’acquisto: ancora a inizio anni 2000 eravamo messi meglio noi di loro; da lì in poi è stata una discesa continua. Ancora peggio va il confronto coi tedeschi, che è la linea verdognola: a inizio anni 2000 eravamo allo stesso livello, dopodiché s’è aperta una voragine; e se calcolate che francesi e tedeschi negli ultimi 20 anni se la sono passata tutt’altro che bene, ecco che magari realizzate come – nonostante avete ancora qualche spicciolo per una pizzata con gli amici o per un volo low cost nel weekend per andare a farvi spennare da qualche affittacamere abusivo su Airbnb in una capitale europea a caso – in realtà non siete mai stati così morti di fame come oggi.
D’altronde, non poteva essere altrimenti: in quest’altro grafico è rappresentato l’andamento dei soldi che, in media, prendete se avete la fortuna di aver trovato un lavoro.

La Germania è la linea verde: fatto 100 quello che guadagnavano nel 1960, nel 1990 erano saliti a quota 220; oggi sono a quota 280. I francesi, e cioè la linea rossa, sono passati dai 100 del 1960 ai 250 nel 1990, agli oltre 300 di oggi. Gli italiani, dai 100 del 1960, nel 1990 erano arrivati a quota 260: in 30 anni di quel terribile inferno che era la corrotta prima repubblica, ce la siamo passata meglio di tutti gli altri; oggi siamo sotto quota 250. le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista e di quel simbolo di pace e progresso che sono l’Unione europea e l’euro, per noi – unici nel vecchio continente – hanno significato sempre e solo impoverimento progressivo.
Forse da quest’altra prospettiva vi risulta ancora più chiaro:

In un quadro piuttosto deprimente per tutta la vecchia Europa nel suo complesso, l’Italia è l’unico paese – e, ripeto, l’unico – dove il potere d’acquisto dei salari, nell’arco di 30 anni, è diminuito; non so se è chiaro il concetto: nel 1990 non c’erano ancora non dico i cellulari, ma manco internet. Automazione, rivoluzione digitale, supply chain, just in time – e per comprarti una bottiglietta d’acqua o un tozzo di pane devi lavorare più di prima; per la propaganda analfoliberale è tutta colpa nostra, che siamo choosy, non conosciamo più il valore del sacrificio e siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Fortuna che al mondo, oltre agli analfoliberali che ripetono a pappagallo le vaccate degli oligarchi che gli danno lo stipendio, c’è anche chi studia, come ad esempio il buon Philip Heimberger, giovane e brillante economista dell’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna, che s’è posto una semplice domanda: chi e cosa hanno fatto fallire l’Italia? Ma prima di addentrarsi nella sua risposta, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri vari canali social e di attivare le notifiche; a voi costa 10 secondi di tempo, ma per noi significa molto e ci aiuta a portare avanti la nostra battaglia contro la propaganda analfoliberale e al fianco del 99%.
Tutti i dati macroeconomici confermano che il declino economico dell’Italia, negli ultimi decenni, è stato costante e inesorabile: secondo la narrazione della propaganda neoliberista, dipende dal fatto che abbiamo fatto troppe poche riforme e troppo lentamente, ma secondo l’economista Philipp Heimberger, molto banalmente, è una fake news; Heimberger ricorda come, ancora negli anni ‘80, “La crescita della produttività del lavoro, misurata come PIL prodotto per singola ora lavorata, in Italia era ancora tra le più alte del mondo” come si vede chiaramente da questo grafico.

L’Italia è la linea celeste, la Germania quella verde e fino al 1989 tenevamo abbondantemente il passo; poi ci siamo bloccati per un paio di anni abbondanti. Siamo ricominciati a crescere nei 4 anni successivi e poi, dal 1995, stop. Kaput. Morte cerebrale. Rivoluzione digitale, automazione, logistica integrata, catene del valore complesse: in 30 anni il mondo è stato rigirato come un calzino, ma noi niente; per produrre un euro di PIL abbiamo bisogno dello stesso tempo e della stessa quantità di lavoro di 30 anni fa. Com’è possibile?
Heimberger, giustamente, la prende larga e, giustamente, parte dalla madre di tutte le scuse: il debito pubblico italiano; Heimberger ricorda come l’Italia abbia un debito complessivo che, rispetto alle dimensioni complessive della sua economia, è assolutamente in linea con gli altri paesi dell’eurozona, solo che è molto più spostato sulla parte pubblica del debito piuttosto che sul debito privato – e questo alla propaganda neoliberale e ai sacerdoti dei dogmi mistici dell’economia mainstream non piace. Secondo Heimberger, che tutta questa fobia del rapporto debito pubblico/PIL abbia qualche fondamento scientifico è molto discutibile: “Il rapporto debito pubblico/PIL” insiste “può essere visto come una metrica potenzialmente fuorviante per valutare la reale sostenibilità fiscale di un paese”; Heimberger, poi, ricorda come questo rapporto ha cominciato a divergere in modo consistente da quanto registrato in Francia, Germania e altri paesi dell’Eurozona a partire dal 1980, quando eravamo ancora a quota 54%, per poi raggiungere il tetto del 100% nell’arco di poco più di 10 anni. La causa principale, sottolinea, è “Il divorzio tra la Banca Centrale e il ministero delle finanze”: è la tristemente nota indipendenza della Banca Centrale che, però, in realtà significa indipendenza dalla politica e dalle scelte democratiche, ma dipendenza al cubo dalle scelte antidemocratiche del cosiddetto mercato e che, in realtà, si riduce ai monopoli finanziari privati detenuti da un manipolo di oligarchi.
E’ il primo capitolo di quella che possiamo definire la shock therapy con caratteristiche italiane. Fino ad allora, infatti, i titoli del debito che venivano emessi dallo Stato per finanziarsi, quando non trovavano acquirenti privati perché i tassi di interesse non erano sufficientemente attrattivi, venivano acquistati – appunto – dalla Banca Centrale, che aveva il potere di stampare moneta; questo permetteva di mantenere i tassi di interesse bassi perché, appunto, non si era costretti a farli lievitare per convincere i privati a comprare i nostri titoli del tesoro. E come unica conseguenza negativa aveva che, stampando moneta ogni qualvolta serviva comprarsi nuovi titoli che non avevano trovato acquirenti sul mercato, si indeboliva un po’ la nostra moneta rispetto agli altri paesi, cosa che – di per se – entro certi limiti tanto negativa non è, anzi: perché, ovviamente, rende le tue merci più competitive sui mercati internazionali e, quindi, rafforza il tuo export; certo ovviamente, di pari passo, rende anche più costoso importare dall’estero merci e materie prime che non hai in casa, ma fino a che la bilancia dei pagamenti – alla fine – rimane sostanzialmente equilibrata, grosse conseguenze negative non ce ne sono, che è proprio il caso dell’Italia dove, dal 1970 al 1989, si è registrato in media un piccolissimo deficit nella bilancia commerciale pari ad appena lo 0,2%.
Quando invece si impone all’Italia la shock therapy della privatizzazione della Banca Centrale, da lì in poi i titoli emessi dallo Stato devono – appunto – essere comprati dal mercato e, cioè, dagli oligarchi e dagli speculatori che, per essere convinti, vogliono essere pagati bene: ed ecco, così, che i tassi di interesse che lo Stato è costretto a riconoscere magicamente schizzano verso l’alto, fino a raggiungere la cifra astronomica del 20% a inizio anni ‘80; un costo stratosferico che – a meno che tu non cresca del 10% l’anno e, nel frattempo, tagli col machete la spesa pubblica radendo al suolo totalmente il welfare – non può che tradursi automaticamente in un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e PIL che infatti, appunto, raddoppierà nell’arco di una decina d’anni. Ed ecco, così, che quando poi è arrivata la seconda tappa della shock therapy con caratteristiche italiane – e, cioè, abbiamo sottoscritto quella vera e propria truffa che è il trattato di Maastricht con i suoi parametri deliranti (anche se, grazie all’adozione dell’euro, i tassi di interesse sono andati piano piano diminuendo) – il debito era talmente alto che continuava a drenare una fetta gigantesca di spesa pubblica; e quindi, per tenere fede ai vincoli di bilancio deliranti imposti proprio da Maastricht, siamo stati costretti a tagliare con l’accetta tutte le altre spese, che gli sciroccati analfoliberali chiamavano sprechi e, per carità, spesso e volentieri lo erano anche, ma che messi tutti insieme, in realtà, costituivano la domanda complessiva che permetteva non solo all’economia nel suo complesso di crescere, ma anche di continuare a fare gli investimenti necessari perché, nel frattempo, crescesse anche la produttività.
Da allora, l’Italia è stata di gran lunga il paese più virtuoso dell’eurozona, dove per virtuoso – appunto – si intende un paese dove quello che lo Stato toglie all’economia in forma di tasse è superiore a quello che restituisce in forma di spese: il famoso avanzo primario che, come sottolinea Heimberger, nessuno ha perseguito con più fondamentalismo religioso di noi, come si vede da questo grafico.

Il bello è che deprimendo scientificamente la crescita economica grazie a questa forma di ultra austerità, alla fine il rapporto debito/PIL ovviamente non ha fatto altro che peggiorare – com’era assolutamente inevitabile, a meno di inspiegabili miracoli sui quali, però, forse sarebbe prudente non fondare la politica economica di una nazione. Il punto, molto semplicemente, è che il rapporto debito/PIL – appunto – è un rapporto: e se il numeratore cresce più rapidamente del denominatore, quel rapporto, ovviamente, peggiora; cosa che era ampiamente prevedibile, perché se scientificamente fai di tutto per deprimere l’economia, il PIL o non cresce o cresce molto poco, mentre il numeratore (e, cioè, il debito) anche se spendi meno di quello che incassi, se a quel poco che spendi ci aggiungi gli interessi che devi pagare per il debito che hai accumulato grazie alla prima geniale riforma della tua genialissima shock therapy, ecco che la frittata è fatta.
Ma anche di fronte a questa evidenza, gli analfoliberali comunque non si rassegnano: la tesi è che questi vincoli esterni sarebbero dovuti servire a imporre a una politica clientelare recalcitrante l’obbligo di introdurre riforme strutturali massicce (in particolare per liberalizzare il mercato del lavoro) e che se ne avessimo approfittato per fare queste riforme – quindi per portare a termine la shock therapy da tutti i punti di vista – a quest’ora saremmo una specie di tigre del Mediterraneo; se invece, inspiegabilmente, siamo in declino è solo perché siamo stati troppo buonisti e non abbiamo avuto la forza di fare scelte abbastanza coraggiose. “Secondo questa tesi” continua Heimberger “la protezione dell’occupazione e la regolamentazione del mercato dei prodotti erano troppo rigide, il welfare troppo generoso e i sindacati troppo forti”; “Tuttavia” sottolinea però Heimberger “diversi studi recenti hanno sottolineato che la teoria della mancanza di riforme è smentita dai fatti”: “Nel complesso, infatti” continua Heimberger “l’Italia ha seguito le raccomandazioni sulle riforme strutturali promosse da istituzioni come la Commissione europea e l’OCSE molto più rigorosamente di quanto non abbiano fatto ad esempio la stessa Francia e la Germania”.
Sul versante delle riforme del mercato del lavoro, ad esempio, “Negli anni ‘90 l’indice di protezione per i contratti a tempo indeterminato era leggermente più alto di quelli registrati in Francia e Germania, ma nel 2019 il rapporto si era invertito”.

Ancora peggio per i contratti a tempo determinato che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura, dove – come dimostra questo grafico dove l’Italia è la linea celeste (fig. b) – fino a fine anni ‘90 eravamo il paese con le maggiori tutele e, invece, siamo diventati quelli messi peggio, Germania a parte, almeno fino al 2018 quando, col decreto dignità, l’unico governo non dichiaratamente ferocemente antipopolare degli ultimi 40 anni ha invertito un po’ questo trend catastrofico. A contribuire a questo feroce attacco coordinato ai diritti dei lavoratori, ricorda Heimberger, ci si sono messi prima la fine dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e poi le liberalizzazioni selvagge in nome di quella che lui definisce la flex-insecurity: “Il lavoro atipico è letteralmente esploso, e chi aveva un lavoro precario non era nemmeno coperto da un’assicurazione contro la disoccupazione, aveva bassissimi contributi previdenziali e né malattia né congedi retribuiti”; “In teoria” sottolinea Heimberger “la deregulation del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare la competitività delle aziende italiane riducendone i costi, e garantendo così la conquista di quote di mercato per le sue esportazioni”. In realtà, però, invece “Il basso costo del lavoro ha ridotto l’incentivo per le aziende di fare investimenti” e senza investimenti privati ti puoi scordare l’aumento della produttività. E senza aumento della produttività ti puoi scordare pure la crescita e, soprattutto, l’aumento dei salari: “Pertanto” conclude Heimberger “si può sostenere che le riforme che miravano a liberalizzare il mercato del lavoro hanno fatto più male che bene alla crescita della produttività dell’Italia”. Un bel contributo al declino poi, ovviamente – continua Heimberger – lo hanno dato le privatizzazioni che sono state viste come “una scorciatoia per rientrare nei vincoli introdotti da Maastricht”. “Queste privatizzazioni” sottolinea Heimberger “hanno ridotto il numero di grandi imprese nei settori maturi dell’economia e hanno contribuito ad un calo degli investimenti, dal momento che i nuovi proprietari privati non erano in grado o non erano disposti a mantenere il livello di investimenti delle imprese precedentemente di proprietà statale”: insomma, ribadisce Heimberger, “La narrativa della mancanza di riforme che domina il discorso pubblico sull’Italia non è coerente con i dati rilevanti. I governi italiani in realtà hanno intrapreso importanti riforme strutturali a partire dagli anni ’90, poiché hanno deregolamentato i mercati del lavoro, perseguito le privatizzazioni e attuato riforme pensionistiche”.

Giuseppe Conte

Ma contrariamente alle leggende metropolitane degli analfoliberali tutto questo non ha fatto che aggravare i problemi, invece di risolverli, ma come in tutte le dimostrazioni scientifiche, oltre a descrivere tutto quello che è andato storto applicando un modello, per chiudere il cerchio serve anche la controprova che adottandone una nuovo, che tiene conto delle contraddizioni di quello precedente, si ottengono risultati diversi; e indovinate un po’? Questa controprova oggi c’è e sono i risultati delle iniziative messe sul tavolo dagli unici governi che, negli ultimi 40 anni, non hanno aderito religiosamente ai dogmi mistici della truffa austera e neoliberale: sono i due governi guidati da Giuseppe Conte che, al netto di tutte le criticità possibili immaginabili, hanno – appunto – il merito innegabile non solo di aver testato l’applicazione – per quanto contraddittoria e completamente insufficiente – di un paradigma diverso, ma anche di aver dimostrato, numeri alla mano, che si può fare e che, seppur con millemila limiti, funziona. Diciamo, per lo meno, che si è trattato davvero di fare per arrestare il declino, mentre gli analfoliberali continuavano a dispensare ricette utili solo ad accelerarlo, cosa che hanno immediatamente fatto appena sono tornai ai posti di comando.
Le 3 iniziative in questione sono appunto il reddito di cittadinanza, il decreto dignità e il superbonus: il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento concreto per combattere le sacche di povertà più estreme, è uno strumento piuttosto efficace di politica economica perché, appunto, fa crescere la domanda aggregata e, quindi, stimola la crescita; il decreto dignità impone alle aziende di tornare a investire un minimo per aumentare la produttività, perché ostacola l’ipersfruttamento fondato sulla flex-insecurity e il superbonus che prima di venire completamente distorto e affossato era un modo per creare una moneta fiscale parallela che, in sostanza, permetteva di immettere nuova liquidità nell’economia senza dover aspettare di uscire dall’euro, dall’Unione europea e da tutti i vincoli demenziali che abbiamo sottoscritto e implementato on steroids negli ultimi 30 e passa anni. Al netto di tutte le critiche, queste tre misure sono state le prime tre misure adottate, da 40 anni a questa parte, che uscivano un po’ dal paradigma dell’austerity creato apposta per affossare la nostra economia e favorire la lotta di classe dall’alto contro il basso, e indovinate un po’? Nel loro piccolo, a differenza delle riforme strutturali e dei vincoli esterni, hanno funzionato: non solo perché, per la prima volta, hanno permesso all’Italia di crescere di più dei paesi del nord Europa, ma anche perché, in virtù di questa crescita – come volevasi dimostrare – per la prima volta hanno in realtà permesso di abbattere il rapporto debito/PIL.
Insomma: che cosa fare concretamente domattina perlomeno per arrestare il declino, in realtà, lo sapremmo benissimo; per carità, non è mica il sol dell’avvenire, ma manco il buco nero in cui ci hanno prontamente ricacciato i governi successivi e che ora non potrà che peggiorare ulteriormente con la fine della sospensione del patto di stabilità. Il punto, semmai, è che anche contro quei pochi, timidissimi accenni di un modo diverso di governare l’economia del paese, il partito unico della guerra e degli affari si è subito ricompattato come un sol uomo e, alla fine, il modo per mettere fine all’unica esperienza di governo un minimino democratico e non diretta emanazione delle oligarchie l’hanno trovato subito; figuriamoci il livello di organizzazione e di cazzimma che ci serve se minimamente abbiamo intenzione di andare un po’ oltre questi accenni di prove generali…
Per questo, come minimo, intanto ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della propaganda mistica delle oligarchie neoliberiste, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

Benzina e gas: la guerra fa esplodere i prezzi – ft. Demostenes Floros

Oggi il nostro Gabriele intervista Demostenes Floros, responsabile energia del Centro Europa Ricerca di Roma, per approfondire il legame tra geopolitica e settore energetico, concentrandosi in particolare sull’effetto che i conflitti in Ucraina e Medio Oriente stanno avendo sul prezzo (e quindi sulla nostra vita quotidiana). Nella prima parte parleremo di prezzo del gas e di come le importazioni di gas dagli USA danneggino l’ambiente e la transizione ecologica. Nella seconda, ci concentreremo sul triangolo USA, Israele e Iran e su come un’eventuale chiusura del Golfo Persico farebbe esplodere il prezzo del petrolio.
Buona visione!

#petrolio #gas #inflazione #energia #ecologia #Iran #Ucraina

La Cina di Xi umilia l’impero e costringe Rimbambiden e le oligarchie a chiedere la grazia

Alleluja, alleluja! Forse Rimbambiden, finalmente, comincia a prendere atto della realtà e abbassa un po’ la cresta: Stati Uniti e Cina tornano al dialogo titolava ieri Libero; Una telefonata per il disgelo rilanciava Il Giornale. Martedì scorso, infatti, Rimbambiden ha smesso per ben 105 minuti la divisa da padrone del pianeta e ha chiesto udienza a Xi Dada; avrebbe preferito continuare a provocarlo con i suoi berretti verdi mandati ad addestrare il personale taiwanese a 2 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare, ma probabilmente ha realizzato che, giorno dopo giorno, la grande strategia per arrivare al conflitto diretto contro l’unica superpotenza in grado di sfidare il primato USA perde sempre più pezzi. Il braccio armato dell’impero per il dominio del Medio Oriente ha perso la capa e, dopo 6 mesi di sterminio indiscriminato, rischia di impantanare gli USA in una guerra regionale in Medio Oriente senza via d’uscita; dopo due anni di guerra per procura in Ucraina, la Russia sembra più in forma che mai e l’Europa non è riuscita a fare mezzo passo per accollarsi la guerra di logoramento e lasciare gli USA liberi di concentrarsi sul Pacifico e il terzo fronte, quello della guerra economica e commerciale contro la Cina, ha raggiunto risultati soddisfacenti solo negli editoriali de Il Foglio e der Bretella Rampini. Per Foreign Affairs, invece, meglio non farsi troppe illusioni perché “La Cina sta ancora crescendo” e, in un lungo e dettagliato articolo, spiega – numeri alla mano – perché tutto l’allarmismo della propaganda suprematista occidentale è, molto banalmente, completamente infondato.
L’unica nota positiva, non da poco, è che sono riusciti a bastonare talmente forte gli altri membri della NATO che nessuno ha più neanche l’ambizione di far sentire la sua voce e gli USA si sono garantiti un altro anno di crescita economica letteralmente rapinando gli alleati, ma anche qui le perplessità non mancano perché, per scippare gli investimenti ai vassalli, gli USA hanno dovuto aprire i rubinetti del debito pubblico e proprio mentre, per attirare capitali, alzavano i tassi dei buoni del tesoro USA a livelli record. Risultato: Bloomberg Economics ha eseguito un milione di simulazioni per valutare le prospettive del debito americano e “L’88% mostra che l’indebitamento segue un percorso insostenibile”, ma non solo; per tentare di tornare ad essere una grande superpotenza manifatturiera – che è una precondizione necessaria anche solo per pensare di poter fare una guerra contro la Cina e uscirne vivi – gli USA hanno rinunciato a rafforzare i legami commerciali con il resto del mondo, a partire dai paesi dell’ASEAN, i 10 paesi del Sudest asiatico strategicamente indispensabili per accerchiare la Cina. Gli USA partivano pure avvantaggiati perché, ovviamente (e anche legittimamente), come sempre, i paesi temono di più il gigante cinese che hanno dietro casa che non quello USA che sta a migliaia di miglia di distanza, anche se è strutturalmente più aggressivo e, infatti, ancora l’anno scorso, secondo un sondaggio dello Yusof Ishak Institute, il 61% degli abitanti dei paesi dell’ASEAN dichiarava di preferire gli USA alla Cina; un anno dopo il quadro era totalmente stravolto, con i filocinesi che diventavano, per la prima volta nella storia, maggioranza assoluta raggiungendo quota 50,5%, un’evoluzione che vi avevamo anticipato qualche mese fa quando, proprio mentre Xi e Biden si stringevano la mano a San Francisco, il vertice dell’APEC si concludeva con un clamoroso nulla di fatto. Gli USA, infatti, sulla spinta sacrosanta dei principali sindacati del paese, si sono rifiutati di siglare l’Indo-Pacific economic framework, l’accordo di libero scambio che avrebbe aperto i mercati statunitensi ai produttori del sud est asiatico, e hanno lanciato così un segnale chiaro ai paesi dell’area: abbiamo bisogno di voi per contrastare l’ascesa cinese, ma non ci chiedete qualcosa in cambio perché, in questo momento, non ce lo possiamo permettere.
La Cina invece, nel frattempo, consolidava la sua posizione di principale partner commerciale per tutti i paesi dell’area e, in parte, è proprio grazie alle geniali strategie di USA e vassalli all’insegna del decoupling e del friendshoring che hanno avuto una conseguenza paradossale: importiamo meno dalla Cina e di più da altri paesi asiatici che, però, spesso non fanno altro che assemblare prodotti cinesi e, quindi, diventano sempre più dipendenti dalla Repubblica Popolare. Ma non solo: la Cina, infatti, che è a corto di risorse solo sui nostri giornali, è tornata a investire pesantemente lungo la via della Seta e, come al solito, nonostante badi ai suoi interessi, in modo molto meno predatorio di quanto fatto in passato dalle ex potenze coloniali. Come, ad esempio, in Indonesia: Widodo ha deciso di mettere fine al furto di nichel da parte delle multinazionali e ha introdotto il divieto all’esportazione della materia prima non lavorata, imponendo così alle aziende di investire nel paese per introdurre la lavorazione della materia prima e portare così occupazione e ricchezza. Le oligarchie occidentali si sono incazzate come bestie; i cinesi, invece, l’hanno sostenuto e hanno fatto investimenti giganteschi. Risultato: il 70% degli indonesiani afferma di preferire la Cina agli USA. Ma prima di andare avanti e raccontarvi, per filo e per segno, come Rimbambiden è riuscito a inimicarsi mezzo pianeta, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare le notifiche: a voi non costa niente e a noi aiuta a provare a rompere il muro della propaganda suprematista.

Joe rimbamBiden

Prima che Rimbambiden si decidesse ad alzare la cornetta, a capire che non era tanto il caso di fare troppo i bulli con Xi Dada erano stati le stesse oligarchie USA: il primo appuntamento risale al novembre scorso quando, a latere dell’APEC di San Francisco – mentre gli USA facevano infuriare gli uomini d’affari americani e asiatici rifiutandosi di siglare l’Indo-Pacific economic framework – Xi veniva accolto, come titolava il Financial Times, dal mondo del business con una standing ovation; il 22 marzo, poi, una delegazione di dimensioni mai viste si è recata ricca di speranza al China Development Forum, la Davos cinese e, due giorni dopo, una rappresentanza di una ventina di multimiliardari capitanati da Stephen Schwarzman di Blackstone e Cristiano Amon di Qualcomm sono andati a rendere omaggio direttamente a Xi nella Grande sala del Popolo, il luogo in assoluto più iconico del governo indiscusso del Partito Comunista cinese. Il motivo è piuttosto semplice: tutte le favolette sulla crisi cinese che leggete dagli analfoliberali del gruppo Gedi o sentite farfugliare sul web dai vari Boldrin e Forchielli, molto semplicemente, sono sostanzialmente puttanate e chi, nella vita, non ambisce ad altro che a fare sempre più quattrini, lo sa bene. E per scoprirlo non c’ha manco bisogno di seguire Ottolina Tv: basta leggersi l’Economist o Foreign Affairs, dove Nicholas Lardy del Peterson institute for international economic si è preso la briga di smontare, una per una, le principali leggende metropolitane della propaganda suprematista.
Lardy ricorda come “Per oltre due decenni, la fenomenale performance economica della Cina ha impressionato e allarmato gran parte del mondo. Ma dal 2019, la crescita lenta della Cina ha portato molti osservatori a concludere che la Cina ha già raggiunto il picco come potenza economica e il presidente Biden lo ha anche affermato chiaramente nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di marzo: Per anni, ha dichiarato, ho sentito molti dei miei amici repubblicani e democratici dire che la Cina è in crescita e l’America è in ritardo. E’ il contrario della realtà”, “ma questa visione sprezzante del paese” sottolinea sarcastico Lardy “potrebbe sottovalutare la resilienza della sua economia”; secondo Lardy, il pessimismo sulle prospettive dell’economia cinese si fonda su una lunga serie di fraintendimenti, regolarmente contraddetti dai dati oggettivi: il primo è “che il reddito delle famiglie, la spesa e la fiducia dei consumatori in Cina siano deboli”. Purtroppo però, fa notare Lardy, “I dati non supportano questa visione”; nel 2023, infatti, ricorda Lardy, sono successe due cose significative: la prima è che mentre in tutto l’Occidente collettivo il potere d’acquisto delle famiglie crollava a causa dell’inflazione e della moderazione salariale, “in Cina il reddito reale pro capite è aumentato del 6%” – mentre a noi, in Italia, in due anni ci levavano dalle tasche l’equivalente di poco meno di due stipendi. Ma non è tutto, perché in Cina, al contrario delle leggende, il consumo pro capite aumentava ancora di più: +9%; in Italia, per dire, il consumo al dettaglio è in diminuzione da 20 mesi consecutivi. “Il secondo fraintendimento” continua Lardy “è che la Cina sia entrata in una fase deflattiva” e, cioè, quando i prezzi – nel tempo – diminuiscono invece che aumentare, disincentivando sia i consumi che gli investimenti e aprendo, così, le porte alla recessione. Ora, “E’ vero che i prezzi sono aumentati soltanto dello 0,2% l’anno scorso”, ma questo è dipeso, in buona parte, dal fatto che ad essere diminuiti sono stati i costi di cibo ed energia mentre il resto, quella che si chiama inflazione core, è aumentata dello 0,7%, tant’è che le aziende, invece di usare i profitti per abbattere il debito (come si fa quando è in arrivo una recessione), si sono indebitate ulteriormente per investire e “gli investimenti nel manifatturiero, minerario, dei servizi pubblici e dei servizi in generale”: ed ecco così che, alla fine del 2023, nel paese si contavano la bellezza di 23 milioni di nuove aziende familiari; in Italia ne erano state chiuse qualche decina di migliaia.
Quello che confonde gli analfoliberali e i cantori della finanziarizzazione, come sottolinea l’Economist, è che “quando un paese raggiunge il livello di sviluppo della Cina, l’economia tipicamente ruota verso i servizi”. Ma nel caso del socialismo con caratteristiche cinesi “il cuore del governo è altrove”; come sottolinea Tilly Zhang di Gavekal Dragonomics “Ciò che la Cina vuole veramente essere è il leader della prossima rivoluzione industriale” e non è solo questione di crescita nominale del PIL – e fa specie che, per vederlo scritto, si debba leggere una bibbia dell’ortodossia come l’Economist, perché la sinistra progressista non ci arriva manco se ce li accompagni per mano. Il tema è quello dello sviluppo delle Nuove forze produttive, il nuovo tormentone del vocabolario ufficiale del partito: “L’espressione nuove forze produttive” scrive l’Economist “evoca l’idea dialettica secondo cui un accumulo di cambiamenti quantitativi può provocare una rottura qualitativa o un salto improvviso, come diceva Hegel, come quando un aumento incrementale della temperatura a un certo punto trasforma l’acqua in vapore. Marx” continua l’Economist “notava che quando nuove forze produttive raggiungono un peso sufficiente nell’economia, possono stravolgere l’ordine sociale: Il mulino a mano ti dà la società con il signore feudale, scrisse; il mulino a vapore, la società con il capitalista industriale”.
Secondo Barry Naughton dell’Università della California, “La strategia di innovazione della Cina è il più grande impegno di risorse governative della storia verso un obiettivo di politica industriale”; “I risultati” continua l’Economist “sono stati migliori di quanto qualsiasi paese a reddito medio potesse aspettarsi” e ricorda come l’Australian Policy Research, l’anno scorso, aveva documentato come – in una lunga lista di 64 tecnologie critiche – la Cina, in termini di impatto delle pubblicazioni scientifiche in materia, dominava in tutte, a parte una decina. “Il Paese” continua l’Economist “è il numero uno nelle comunicazioni 5G e 6G, nonché nella bioproduzione, nella nanoproduzione e nella produzione additiva. È all’avanguardia anche nei droni, nei radar, nella robotica e nei sonar, nonché nella crittografia post-quantistica”. Il Global Innovation Index, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, combina circa 80 indicatori che abbracciano infrastrutture, normative e condizioni di mercato, nonché investimenti in ricerca, numero e importanza dei brevetti e numero di citazioni nella letteratura scientifica: un paese a reddito medio con un PIL pro capite come quello cinese si dovrebbe collocare, su per giù, verso la sessantesima posizione; la Cina è al 12° posto.
E mentre la Cina continua a concentrare una quantità incredibile di risorse per sviluppare le nuove forze produttive, anche a costo di rinunciare a qualcosina in termini di crescita nominale del PIL e in attesa che l’intensità tecnologica sia tale da imporre un cambio radicale anche dei rapporti di produzione, le occasioni per fare una montagna di quattrini non mancano: basta vedere l’incredibile caso di Huawei che nel 2023, nonostante la guerra commerciale a 360 gradi ingaggiata dall’Occidente collettivo (che, ormai, ha abbandonato completamente la retorica del libero mercato e combatte la concorrenza esclusivamente a colpi di protezionismo e restrizioni), ha registrato una crescita dell’utile netto del 144%; oltre alle infrastrutture per le telecomunicazioni, dove Huawei – nonostante tutto – rimane leader indiscussa, a trainare i conti dell’azienda a partire dall’ultimo trimestre, in particolare, è stato il Mate 60 pro, lo smartphone che ha fatto sudare freddo tutto l’Occidente. Come ricorda Asia Times, infatti, il Mate 60 pro è dotato di un processore che “a causa delle sanzioni imposte dagli USA e che hanno impedito all’olandese ASML di vendere in Cina i suoi sistemi di litografia ultravioletta estrema, il dipartimento del commercio statunitense aveva pensato che sarebbe stato impossibile produrre”; per arrivare a questo risultato, Huawei “ha speso per la ricerca e lo sviluppo nel 2023 il 23,4% dei suoi ricavi, più del doppio di quanto investe la coreana Samsung. E’ il terzo anno di fila che la spesa supera il 20% del fatturato, e permette di diversificare la linea di prodotti e aggirare le sanzioni imposte dagli USA”. In generale, sottolinea uno studio del Center for Strategic and International Studies, “Il sostegno statale cinese per la politica industriale è eccezionalmente alto, stimato a 406 miliardi di dollari, ovvero l’1,73% del PIL, nel 2019. Contro lo 0,39% del PIL negli Stati Uniti e allo 0,5% in Giappone”; il Financial Times ricorda come “Negli Stati Uniti e in Europa, i politici temono che una spesa così pesante si tradurrà in un’ondata di esportazioni di prodotti high tech a basso costo dalla Cina che potrebbero spostare le industrie nazionali e mettere a rischio la sicurezza nazionale”.
Ma quanto saranno belli gli imperialisti e i suprematisti? Fino a che gli torna comodo, spacciano la libertà del commercio come l’unica vera religione civile rimasta; quando poi non sono più competitivi, gettano la religione nel cesso e reintroducono sanzioni arbitrarie e misure protezionistiche di ogni tipo e quando, poi, uno reagisce investendo tutto quello che ha per guadagnarsi l’indipendenza tecnologica, si mettono a frignare perché, grazie a quegli stessi investimenti, minaccia di invaderli con prodotti enormemente più competitivi anche nei settori tecnologicamente più avanzati, che pensavano fossero appannaggio dell’uomo bianco per manifesta superiorità culturale, se non – addirittura – genetica. E poi uno si chiede del perché l’Occidente non faccia altro che scatenare guerre ovunque… e graziarcazzo: non è che gli rimangano poi tante carte da giocarsi, a meno che non lo rovesciamo come un calzino e mandiamo a casa i Rimbambiden di tutto il pianeta; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin


















Come la Russia di Putin ha vinto la guerra economica contro l’Occidente collettivo. Un’altra volta.

“L’economia russa ancora una volta sfida i profeti di sventura”: ad affermarlo non è qualche nostro compagno di qualche lista di proscrizione, ma nientepopodimeno che l’Economist, la testata controllata dalla più filoatlantista delle grandi famiglie del capitalismo italiano: gli Agnelli/Elkann; dopo aver clamorosamente smentito le previsioni sul crollo del suo PIL innumerevoli volte, gli ultimi cavalli di battaglia della propaganda analfoliberale e russofoba sono stati a lungo la fantomatica inarrestabile ascesa dell’inflazione e, di pari passo, l’ancor più inarrestabile declino del rublo. Lo spettro dell’iperinflazione incombe su Putin mentre l’economia russa crolla titolava, già nell’agosto scorso, il sempre attendibilissimo Telegraph; “Il rublo russo è destinato a scendere costantemente oltre quota 100 rispetto al dollaro nel 2024” rilanciava ancora, nel novembre scorso, Reuters e per mesi, sulle nostre bacheche, siamo stati bombardati da analfoliberali – che, rispetto ai giornalisti di Telegraph e Reuters, c’hanno pure l’aggravante di farlo a gratis per pura passione – che si postavano i grafici dell’andamento del rublo e dell’inflazione annunciando l’ennesimo imminente catastrofico crollo del sanguinario regime putiniano; ora l’Economist certifica che è andata un po’ diversamente: siamo ormai al terzo mese del 2024, ma invece che oltre 100 rubli per comprare un dollaro, ne bastano 90 (prima del conflitto ne servivano 75).

Dopo tutto questo sciabolare di spade, la situazione si è conclusa semplicemente con una piccola svalutazione competitiva in perfetto stile italiano, almeno fino a quando la finalità era far crescere l’economia e non, esclusivamente, arricchire le banche e le oligarchie finanziarie; discorso simile anche per l’inflazione che, dal minimo del 3% nell’aprile del 2023, era cresciuta costantemente fino ad arrivare il picco del 7,5 nel novembre scorso e sembrava destinata a non fermarsi più, ma “Ancora una volta” sottolinea l’Economist “l’economia russa sembra aver smentito clamorosamente i pessimisti”: “I dati che saranno pubblicati il 13 marzo” e cioè oggi, scrive l’Economist, “ci si aspetta che dimostrino che i prezzi a febbraio sono saliti dello 0,6%, contro l’1,1% degli ultimi mesi dell’anno scorso”. “Molti previsori” ora, continua l’Economist, “prevedono che il tasso annuale scenderà presto al 4%, e anche le preoccupazioni delle famiglie sull’inflazione futura sono rientrate”. E graziarcazzo, aggiungerei: contro inflazione e svalutazione del rublo, infatti, la Banca Centrale era entrata a gamba tesa che più tesa non si può, innalzando i tassi di interesse fino al 16%.
Ma come, Marru, per amore di zio Vlad, dopo aver infamato per una vita i banchieri dell’austerity, ora ti metti a esaltarli? Non esattamente: il punto, molto banalmente, è che c’è inflazione e inflazione e quella russa, con quella che abbiamo vissuto noi, non c’azzecca proprio niente. Intendiamoci: anche da noi i banchieri centrali dicevano che bisognava alzare i tassi perché i salari stavano crescendo troppo; il problema è che, molto semplicemente, era una bugia e i nostri salari sono costantemente aumentati incredibilmente meno dell’inflazione arrivando, nell’arco di un anno, a fregarci sostanzialmente un intero stipendio. In Russia, invece, nell’autunno scorso l’aumento nominale dei salari – ricorda l’Economist – aveva raggiunto il 18% e, cioè, 10 punti in più dell’inflazione. Insomma: una volta tanto l’inflazione era trainata davvero dalla spinta dei salari e quindi, in quel caso, la risposta standard dell’aumento dei tassi di interesse non dico sia giusta, ma sicuramente è ragionevole; l’inflazione, infatti, in buona parte era dovuta al fatto che il maggiore potere d’acquisto dei lavoratori si era trasformato in maggiori consumi e, come spiega l’Economist, “La domanda di beni e servizi era cresciuta oltre la capacità dell’economia di fornirli, portando i venditori ad aumentare i prezzi”. “Tassi più alti” invece, continua l’Economist, “hanno incoraggiato i russi a mettere i soldi nei conti di risparmio invece di spenderli”.
Per capire invece se, oltre che ragionevole, la scelta di alzare i tassi sia stata anche giusta, va fatto un passettino oltre perché il punto, ovviamente, è se – oltre a contenere l’inflazione – l’aumento dei tassi innesca anche una recessione e, se innesca una recessione, chi la paga; e in Russia, molto semplicemente, la recessione non è arrivata, anzi! “La Russia” infatti, scrive l’Economist, “sembra avviata verso un atterraggio morbido, in cui l’inflazione rallenta senza deprimere l’economia. L’andamento dell’economia è ora in linea con il trend pre – invasione, e lo scorso anno il PIL è cresciuto in termini reali di oltre il 3%. La disoccupazione nel frattempo resta ai minimi storici. E non ci sono segni di difficoltà da parte delle aziende. Anzi: il tasso di chiusura delle imprese ha recentemente raggiunto il livello più basso degli ultimi otto anni” e siamo solo all’inizio: il Fondo Monetario Internazionale s’è dovuto adeguare all’evidenza e ha raddoppiato le previsioni di crescita per il 2024 al 2,6%; l’area euro e il Giappone, per intenderci, è previsto che cresceranno soltanto dello 0,9, l’Italia dello 0,7, la Gran Bretagna dello 0,6 e la Germania dello 0,5.
Ma come ha fatto il paese più sanzionato della storia dell’umanità a reggere botta? E cosa comporta la tenuta della Russia per le magnifiche sorti e progressive di quella che, come lamenta La Verità, nonostante tutte le evidenze i dittatori del politically correct ci continuano a vietare di dire che è una civiltà superiore? A suonare l’ennesimo campanello d’allarme, a fine febbraio, c’aveva pensato sempre l’Economist: Le sanzioni, titolava, non sono il modo per combattere Vladimir Putin. La prima enorme ondata di sanzioni aveva mostrato tutta la sua debolezza da tempo: subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina “La serie di sanzioni rivolte a una delle più grandi economie del mondo” ricorda l’Economist “era stata salutata come senza precedenti; e all’Economist stesso avevamo ipotizzato che lo shock che ne sarebbe derivato avrebbe potuto portare a una crisi di liquidità insostenibile e addirittura a un cambio di regime”. “La realtà” ammette onestamente l’Economist “si è rivelata drasticamente diversa”; “L’economia russa si è rivelata enormemente più resiliente del previsto, e il tentativo di imporre sanzioni molto meno efficace di quanto si sperasse”; “Subito dopo l’inizio della guerra, il FMI prevedeva che il PIL russo si sarebbe ridotto di oltre un decimo tra il 2021 e il 2023. Nell’ottobre dello scorso anno ha calcolato che in realtà in quel periodo al contrario la produzione è addirittura aumentata”, ma ancora più significativamente, continua l’Economist “La guerra ha dimostrato quanto velocemente il commercio globale e i flussi finanziari trovino un percorso per aggirare le barriere poste sul loro cammino”.
E’ un caso da manuale di come si diventa facilmente vittime della propria stessa propaganda: da anni ci prendiamo pesci in faccia perché sosteniamo che il mondo è già multipolare e che continuare a ragionare come se fossimo ancora nel mondo unipolare a trazione USA, per quanto sia ancora ampiamente la principale potenza esistente, sia ormai sostanzialmente irrealistico e velleitario; la propaganda suprematista del partito unico della guerra e degli affari continua a spacciare fake news e ad arrampicarsi sugli specchi per contestare questo semplice assunto e alla fine, a forza di ripeterselo tra di loro, va a finire che ci credono e ci fanno credere anche un pezzo consistente di classe dirigente, che fa scelte che non stanno né in cielo, né in terra. “L’Occidente” sottolinea l’Economist “aggiunge instancabilmente aziende e individui russi alle sue blacklist. Ma gran parte della popolazione mondiale vive in paesi che molto semplicemente le sanzioni occidentali non ha nessuna intenzione di applicarle, e c’è poco che possa impedire a nuove aziende di nascere e fare affari lì”; ed ecco così che se “anche le esportazioni dall’UE verso la Russia sono crollate, luoghi come Armenia, Kazakistan e Kirghizistan hanno iniziato a importare di più dall’Europa e sono misteriosamente diventati importanti fornitori di beni critici per la Russia” e questo, diciamo, è il primo episodio della saga e il finale, ormai, l’hanno dovuto accettare anche i propagandisti più spregiudicati, da Maurizio sambuca Molinari a Federico bretella Rampini.
Il secondo episodio della saga, allora, si apre con i guardiani della galassia analfoliberale che tentano di rilanciare: sono le cosiddette sanzioni secondarie, l’arma di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA attraverso le quali l’impero in declino cerca, da sempre, di imporre ai paesi più recalcitranti di allinearsi alla sua agenda geopolitica; con le sanzioni secondarie, infatti, gli USA non si limitano a perseguire direttamente il paese sanzionato, ma anche tutte le terze parti che continuano a intrattenerci rapporti violando la volontà del wannabe padrone del globo, uno strumento molto potente ed efficace che sta comportando un cambio di atteggiamento in diversi paesi, dall’Uzbekistan alla Turchia, passando anche per la Cina. “Ma anche queste pongono un altro problema” scrive l’Economist, perché “sebbene siano potenti, hanno effetti collaterali proibitivi”; l’efficacia delle sanzioni secondarie, infatti, si basa fondamentalmente su un elemento: il ruolo del dollaro come valuta di riserva globale e come valuta preferita per il commercio internazionale. Ogni istituto che opera con i dollari, infatti, deve avere un conto in una banca americana e con le sanzioni secondarie, se svolgono un qualsiasi ruolo in uno scambio commerciale sottoposto a sanzioni USA, questo conto – e quello che c’è sopra – possono essere bloccati: ed ecco così che, lo scorso febbraio, alcune delle principali banche turche e tre banche cinesi hanno annunciato ufficialmente ai propri clienti l’interruzione di ogni rapporto con Mosca; secondo alcuni scettici si tratta, più che altro, di operazioni di public relation. Come scrive il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, ad esempio, “Già a settembre il presidente del Kazakistan aveva rassicurato il cancelliere tedesco che il suo paese avrebbe attuato le sanzioni contro la Russia. Il giorno successivo, ha dichiarato che avrebbe sviluppato le relazioni commerciali con la Russia”.
Il punto è che ricostruire l’intera filiera delle transazioni commerciali, infatti, è più facile da dire che da fare; d’altronde, sono 30 anni che gli USA, per primi, incentivano il sistema finanziario globale a diventare sempre più opaco in modo da favorire la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali e, infine, verso le bolle speculative a stelle e strisce, e quella stessa opacità, ora, gli si ritorce contro: “Funzionari europei” riporta l’Economist “affermano che spesso sono necessari 30 passaggi lungo la catena finanziaria per risalire al proprietario di un conto bancario estero, dieci volte di più rispetto anche soltanto a dieci anni fa”. “Molti governi di paesi terzi” continua l’Economist “hanno un atteggiamento da laissez-faire nei confronti della violazione delle sanzioni, o addirittura la approvano tacitamente. L’Indonesia e gli Emirati Arabi Uniti sono nella lista grigia della Financial Action Task Force, un regolatore internazionale, in parte perché sono accusati di essere a conoscenza del cattivo comportamento delle banche locali. Alla domanda se gli Emirati Arabi Uniti ritengono che alcune delle sue 500 nuove aziende potrebbero eludere le sanzioni, un funzionario europeo alza le spalle: Lo sanno, eccome se lo sanno. Semplicemente, non gli importa”; in un mondo che, ormai, va ben oltre il giardino ordinato delle ex potenze coloniali e dove i 120 membri del movimenti dei paesi non allineati ormai pesano per il 38% del PIL globale, rispetto al 15% di 30 anni fa, le sanzioni occidentali, decreta l’Economist, “hanno costi sempre maggiori e benefici sempre inferiori”.
Ma ammesso e non concesso che, al di là degli slogan, le sanzioni secondarie siano davvero ancora implementabili, c’è un altro effetto collaterale che spinge a una certa cautela, perché se il nocciolo di tutto è il fatto che si usano i dollari per gli scambi commerciali, una soluzione possibile – appunto – è, molto semplicemente, smetterla di usare il dollaro. C’è già chi si è portato un bel pezzo avanti: lo scorso marzo, la Cina annunciava che – passando dai 434 miliardi di dollari di febbraio ai 549 miliardi di marzo – per la prima volta in tutta la storia gli scambi commerciali internazionali della Cina in yuan avevano superato quelli in dollari; una parte sempre più consistente riguarda, appunto, gli scambi commerciali con la Russia che, dopo la fuga delle aziende occidentali – per fare un esempio – è diventata il più grande importatore di auto cinesi al mondo: oltre 325 mila unità solo nel 2023, per un valore di oltre 4,5 miliardi di dollari – +543% in un anno.

Conor Gallagher

L’altro grande partner commerciale della Russia è l’India: come ricorda sempre Gallagher su Naked Capitalism “Nei primi otto mesi dell’anno fiscale 2023/24 terminato a marzo, le esportazioni totali dell’India verso la Russia sono aumentate del 46,2%. Le importazioni del 54,8%”. Alla base di tutto ci sono le esportazioni di petrolio russo in India che vengono pagate, in buona parte, in rupie; siccome la rupia non è una valuta convertibile, i russi si sono ritrovati con montagne di rupie che non sapevano come usare: la soluzione? Importare più merci dall’India e pagarle con le rupie accumulate; già a fine 2022, così, la Russia ha condiviso con l’India un elenco di centinaia di articoli che desiderava importare, tra cui – elenca Gallagher – “pistoni, paraurti, cuscinetti e materiali di saldatura”. Gli indiani hanno colto la palla al balzo ed ecco così che, riporta Gallagher “Le esportazioni indiane di articoli tecnici verso la Russia sono cresciute dell’88% a dicembre, mentre nel periodo aprile – dicembre sono aumentate del 130%”; ora Russia e India stanno trattando per cominciare a usare, in parte delle transazioni, direttamente lo yuan. Insomma, le sanzioni secondarie stanno incredibilmente accelerando quello che è, in assoluto, il più grande degli incubi USA: la nascita di un sistema di scambi commerciali parallelo che non si fondi sul dollaro.
Ma la spinta definitiva verso la fine del dominio del dollaro e per la costruzione di un nuovo ordine monetario multilaterale non è l’unico risultato controproducente per l’agenda ideologica, ancor più che economica e militare, del neoliberismo made in USA; la guerra delle sanzioni, infatti, ha evidenziato anche un altro aspetto fondamentale: il socialismo e la pianificazione economica guidata dallo Stato funzionano, parecchio. E’ la conclusione alla quale arriva Martin Sandbu del Financial Times in un lungo e, a tratti, delirante articolo: Ci sono lezioni dalla crescita del PIL russo si intitola, ma non quelle che pensa Putin; “E’ un errore” scrive Sandbu, compiendo un’acrobazia logica veramente encomiabile, “derivare dalla crescita del PIL russo l’idea che le sanzioni abbiano fallito. Il ragionamento contro – fattuale corretto da fare sarebbe immaginare quanto male si sarebbe comportata l’economia russa in queste circostanze se fosse rimasta nella sua configurazione passata. In tal caso le conseguenze delle sanzioni sul PIL sarebbero state senz’altro maggiori”; e invece – te guarda alle volte il caso – la Russia, invece che lasciarsi asfaltare per tenere fede ai feticci ideologici del neoliberismo, una volta sotto attacco ha reagito trasformandosi radicalmente: “Mosca” scrive Sandbu “sta sfruttando una possibilità che le democrazie di mercato liberali ignorano: se si ignorano le ortodossie della politica economica, è possibile mobilitare risorse per obiettivi politici e, nel processo, spremere più attività reale da un’economia”. Quindi, in soldoni, le sanzioni avrebbero funzionato se la religione neoliberista avesse un qualche fondamento razionale, ma essendo una gigantesca puttanata creata ad arte solo per giustificare la gigantesca rapina effettuata dalle oligarchie nei confronti di chi lavora, purtroppo erano destinate al fallimento, soprattutto se – dall’altra parte – c’è una sorta di moderno principe machiavellico che, al contrario di quello che sborbotta confusa la sinistra delle ZTL (ormai completamente incapace di ragionare in termini di struttura economica) sarà cinico e feroce quanto vi pare, ma da quando è salito al potere ha avuto come suo obiettivo principale proprio quello di ridimensionare le oligarchie e accentrare il potere per modernizzare il paese e ridare alla Russia il ruolo che le spetta nella storia, un obiettivo che, come abbiamo sottolineato a suo tempo in questo video dal titolo “Il new deal di Putin”, non era riuscito a perseguire fino ad oggi e che è tornato ad essere alla sua portata proprio grazie all’entrata in vigore delle sanzioni. E’ abbastanza paradossale che tocchi a lui il compito di ricordarci una cosa che un tempo, quando da noi c’era la democrazia moderna – prima della controrivoluzione liberista e l’era della dittatura delle oligarchie finanziarie – davamo per scontata, e cioè che, come sottolinea lo stesso Sandbu, “mobilitare e destinare ingenti risorse a investimenti proficui è perfettamente fattibile”; ovviamente, sottolinea Sandbu, Putin è cattivo, mentre noi occidentali che – per Sandbu come per La Verità – siamo una civiltà superiore, invece siamo buoni e quindi, mentre lui pensa alla guerra, noi potremmo pensare a fini più nobili: dalla transizione ecologica alla lotta alle disuguaglianze. Ma, a parte questi distinguo, dovremmo comunque prendere coscienza della “sua capacità di raggiungere obiettivi economici indirizzati politicamente” perché “Come disse Keynes” conclude Sandbu “tutto ciò che possiamo effettivamente fare, possiamo permettercelo”; d’altronde era un limite di Keynes: non possiamo certo pretendere che non sia un limite di uno dei più importanti commentatori economici del Financial Times. Quello che a Sandbu – come a Keynes – sembra mancare, infatti, è un’idea realistica di chi detiene il potere per farci cosa, come se fossimo tutti riuniti democraticamente in un bel simposio dove vince chi ha l’idea migliore e non esistono i rapporti di forza; l’idea tutto sommato semplice e decisamente condivisibile che esprime Sandbu non fa più parte del dibattito pubblico perché le oligarchie, a partire da quelle che finanziano il suo giornale, ci hanno fatto la guerra e l’hanno vinta, e ci hanno imposto la loro religione alla quale, come tutti i sacerdoti che si rispettano, sono i primi a non credere, ma alla quale hanno costretto a credere tutti quelli che ne subiscono le conseguenze sulla loro pelle.
Per sperare di tornare ad imporla, bisogna mettere in conto un’altra guerra contro le oligarchie, e come vincerla: fa un po’ ridere che chi non ha idea non solo di come combattere questa guerra, ma della necessità stessa di combatterla, descriva con tono paternalistico chi – per sua stessa ammissione – la sta vincendo; noi un’ideina di cosa serve per combattere le oligarchie, in questi due anni, ce la siamo fatta e siamo convinti che, prima di tutto, serva un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

INFLAZIONE: come la speculazione sta distruggendo il tuo salario – ft. Marco Veronese Passarella

Per la rubrica intervist8line, torna un volto noto agli ottoliner più sfegatati. Parleremo di economia ed in particolare di inflazione e di come, specialmente in Italia, questa ha corroso il potere d’acquisto negli ultimi 30 anni. Ne abbiamo parlato con Marco Veronese Passarella, professore associato dell’Università degli studi dell’Aquila (qui il suo sito).

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Le conseguenze economiche della guerra [pt1]: chi pagherà l’inflazione che arriva dal Medio Oriente?

“I venti di guerra gelano la crescita” titolava già martedì scorso Il Sole 24 ore. Ma – non per essere puntiglioso eh – di quale cazzo di crescita parlano?

in foto: Alessandro Volpi

Come insieme ad Alessandro Volpi abbiamo spiegato con dovizia di particolari già la settimana scorsa, ben prima che si riaprisse questo ennesimo capitolo di questa terza guerra mondiale a rate, l’economia del nord globale era già bella che affacciata sul bordo di un gigantesco baratro. Quella italiana in particolare poi si è già portata un bel pezzo avanti: non solo è già in caduta libera, ma ha anche raggiunto il fondo ed ha già iniziato a scavare, ma solo con le mani. L’escalation in Medio Oriente, diciamo, non fa altro che fornirci una bella trivella nuova di pacca per scavare più velocemente. Il meccanismo è di nuovo quello che si è già ampiamente manifestato dopo lo scoppio nel febbraio del 2022 della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. A partire da una tensione di carattere geopolitico, a prescindere dal suo impatto concreto sull’economia reale, parte un’offensiva speculativa che innesca una spirale inflazionistica; le banche centrali colgono la palla al balzo e, con la scusa della lotta all’inflazione, avviano una corsa al rialzo dei tassi d’interesse. All’inflazione però, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie, perché ormai il mercato e la concorrenza sono solo ricordi del passato: in tutti i settori che contano davvero vige un regime oligopolistico, e a determinare i prezzi sono una manciata di imprese che continuano a tenerli alti anche quando la crescita dei prezzi delle materie prime ormai è rientrata.
In compenso però la corsa al rialzo dei tassi d’interesse un effetto lo scatena eccome: la recessione, e nella recessione, la fuga dei capitali verso i beni rifugio, e cioè i titoli di stato USA e le bolle speculative denominate in dollari. D’altronde chi te lo fa fare di investire nell’economia reale in tempi così turbolenti quando puoi parcheggiare i tuoi quattrini in macchine infernali che non fanno altro che generare soldi da altri soldi? Ed ecco così che le economie più deboli, per far finta di tenere un minimo in ordine i conti, si ritrovano costrette a vendere i gioielli di famiglia, e le oligarchie finanziarie col portafoglio ovunque ma col cuore a Washington fanno shopping in giro per il mondo a prezzi di saldo e riempono le tasche all’1%, sulla pelle del 99.
Con questo video, grazie al contributo essenziale del mitico Alessandro Volpi e dell’amico Matteo Bortolon de La Fionda, abbiamo deciso di inaugurare una piccola miniserie che nel corso di questa settimana cercherà non solo di farvi una cronaca di quello che sta accadendo, ma anche di fornirvi gli strumenti analitici per capire perché sta accadendo e che ripercussioni avrà sulla nostra vita quotidiana e di provare a convincervi che l’unica soluzione realistica e razionale è distruggere una volta per tutte il meccanismo perverso imposto dall’1% e tornare a dare voce e potere al 99.
Con l’avvio dell’operazione Diluvio di al Aqsa da parte della resistenza palestinese sabato scorso, e con l’intensificarsi della pulizia etnica da parte del regime sionista che ha scatenato, il Medio Oriente, dopo una fase di apparente relativa calma, è tornato a incendiarsi e con lui, inevitabilmente, anche il mercato dell’energia, ridando così rinnovato slancio alla spirale inflazionistica che questi due anni di politiche monetarie suicide non erano in realtà riuscite mai a spezzare sul serio.

Alessandro Volpi: “il prezzo del gas, che prima che iniziasse questa nuova tensione bellica era indicativamente intorno ai 32 – 34 € a megawattora. Oggi siamo a cinquantatré, quindi nel giro di pochissimi giorni il gas ha preso venti euro senza che in realtà sia successo nulla sul piano delle forniture reali. Questo è il preludio di un’ulteriore crescita, perché è evidente che è ripartita la speculazione. Non dimentichiamoci che durante l’ondata inflazionistica 2021 – 2022 il petrolio era stato sostanzialmente intorno ai 70 – 75 $ al barile. Ora siamo ormai ampiamente sopra gli 80. Ci dirigiamo verso i 90 e quindi è abbastanza evidente che ci troveremo con una bolletta energetica molto pesante. Questo è un quadro per niente rassicurante e ancora una volta figlio delle ventate speculative prima ancora che dell’economia reale, perché dieci giorni di tensione militare, pur nella loro crudezza, non hanno inciso in nessun modo su quelli che sono gli approvvigionamenti reali e siamo anche certi che non incideranno negli approvvigionamenti reali dei prossimi mesi e probabilmente di tutto il prossimo anno.
Quindi, veramente, stiamo facendo stiamo facendo pura speculazione che determina di nuovo un’inflazione pesantissima.
Ma come fa concretamente la finanziarizzazione e la speculazione finanziaria ad alterare alla radice il meccanismo attraverso il quale i così detti mercati, che è l’eufemismo che la propaganda liberale ha adottato per descrivere un manipolo di oligarchi, determinano il prezzo reale delle materie prime senza le quali tutto il mondo si blocca. Il buon Alessandro Volpi ci ha fatto un riassuntino for dummies, perchè anche se il giochino ormai dovrebbe essere arcinoto, la potenza di fuoco della propaganda che usa ogni mezzo per dissimulare i crimini contro l’umanità sui quali si fonda la dittatura globale delle oligarchie finanziarie rischia sempre di distrarci dai nodi fondamentali. Ecco allora che con grande piacere vi introduco questa piccola rubrica di Rieducottolina, dove spieghiamo perché la finanziarizzazione dei mercati delle materie prime rappresenta uno ‘mbuto gigantesco per l’economia reale.

Alessandro Volpi: “Il prezzo del gas europeo continua a essere fatto, appunto, in questo listino privato che si chiama TTF che – mettiamolo in chiaro con evidenza – è di proprietà dei grandi fondi speculativi, perché gli azionisti di TTF sono in larga misura Vanguard, Black Rock e State Street, quindi gli stessi soggetti che direttamente e indirettamente – in quanto azionisti di banche che operano sul listino su questo TTF – contribuiscono a determinare il prezzo perché fanno scommesse sui contratti reali. In altre parole lo scambio di gas viene definito in termini reali fra un compratore e un venditore nel listino TTF a un prezzo pari a 32 – 33 € per megawattora a parte, una serie di scommesse che prevedono un’ipotetica mancanza di gas, perché c’è stato un boicottaggio? Perché? Partono queste scommesse prodotte da questi grandi fondi o dalle banche che sono possedute, dei fondi che sono a loro volta i proprietari del listino dove vengono fatte queste scommesse che dicono: scommettiamo che fra tre mesi il prezzo, al momento dell’eventuale consegna dei gas, non sarà trentatré ma sarà cinquantatré? Immediatamente il prezzo sale arriva a cinquantatré. Il contratto successivo di vendita reale non è più firmato, non è più concluso a trenta, trentatré euro a megawattora, ma cinquantatré e così via. Questo perché, appunto, il TTF è un listino privato che definisce i prezzi, che ammette al proprio interno non solo compratori e venditori reali, ma anche tutta una serie di oggetti finanziari che sono di proprietà di questi stessi fondi che alla fine, peraltro, sono gli stessi che sono in larga misura gli azionisti principali delle società di produzione e distribuzione dei gas del petrolio. Noi peraltro ci siamo invaghiti ormai del gas liquido naturale che per sua natura è il più soggetto alle ondate speculative, perché è un mercato dove la speculazione si può fare: nella Borsa dove si definisce; durante i transiti doganali; sul noleggio della nave. Una roba dove la definizione del il prezzo, lo sanno bene gli operatori, è praticamente impossibile Quindi noi non abbiamo più in questo momento una dimensione dell’economia reale. Abbiamo una dimensione dell’economia dove i prezzi sono finanziarizzati e quindi la valutazione è semplicemente quella di stabilire, in un clima di forti aspettative o comunque di probabili aspettative di tensione, significhi la possibilità di scommettere al rialzo. Si scommette al rialzo, la forza di questi soggetti è tale che è come se tutti scommettevano nella stessa direzione. Chi capisce il vento, ovviamente, va dietro a quel tipo di scommesse. I prezzi si sganciano dalla realtà e ogni tensione si traduce appunto per effetto di questa finanziarizzazione, in un’ondata inflazionistica che travolge il potere d’acquisto reale delle popolazioni. E chi scatena le tensioni è consapevole che dietro c’è l’effetto amplificatore estremo della finanziarizzazione.
Aggiungerei peraltro, un’ultima annotazione: non so se hai notato negli Stati Uniti hanno inasprito alcune sanzioni nei confronti della Russia proprio in questi giorni, guarda caso nel momento in cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a risalire. Perché in effetti questo dato ha contribuito a un ulteriore aumento del prezzo del petrolio e del gas e qui è una sorta di braccio di ferro. Perché paradossalmente l’aumento del prezzo dei gas poi alla fine finisce per favorire anche la stessa Russia di Putin. Gli americani ne traggono beneficio perché certamente c’è un aumento del prezzo del petrolio. Alla fine chi ne subisce le conseguenze in maniera chiara sono gli importatori di questo tipo di produzione, di questo tipo di energia, quindi in larga parte buona parte del sistema del sistema produttivo europeo.”

La concorrenza sleale del finto alleato USA a partire dai costi dell’energia, è ormai un vecchio classico, come d’altronde è un vecchio classico la risposta che le banche centrali si sentono in dovere di dare ogni qualvolta si ripresenta una spinta inflazionistica. Anche se, come abbiamo visto, le cause sono meramente di carattere speculativo e quindi l’arma di distruzione di massa della corsa al rialzo dei tassi di interesse molto banalmente, non funziona. Ancora meno funziona nella fase successiva e cioè quando la speculazione rientra, i costi delle materie prime ritornano a livelli più o meno ragionevoli, ma non quelli dei prodotti delle aziende, che anzi continuano ad aumentare senza nessunissima ragione concreta, con l’unico risultato che fette sempre più grandi di ricchezza passano dalle tasche di chi lavora alle tasse di chi campa sul lavoro altrui. La corsa al rialzo dei tassi di interesse serve a qualcosa per contenere l’inflazione soltanto nella fase ancora successiva, e cioè quando i lavoratori finalmente si incazzano, e si organizzano per pretendere un adeguamento dei salari all’aumento del costo della vita. Che è un po’ la fase che stiamo attraversando adesso, anche se in Italia non si direbbe.

Ma negli USA ad esempio si.

Come sta succedendo ad esempio nell’industria automobilistica, dove i sindacati sono ormai da oltre un mese sul piede di guerra per pretendere aumenti salariali nell’ordine del 40%, e anche la riduzione dell’orario di lavoro. Ora si che i tassi di interesse alti servono: ai padroni. come arma contro le rivendicazioni di chi lavora.
Ed ecco perchè, nonostante l’intera economia del nord globale sia ormai più o meno ufficialmente in recessione, le banche centrali continuano in questa politica folle e con il medio oriente che torna a incendiarsi, ogni speranza di un cambiamento di rotta nel prossimo futuro, per quanto esile, va definitivamente a farsi benedire.

Alessandro Volpi: “È probabile che questo significhi che la Banca centrale europea non riveda le proprie strategie, quindi continui con una politica di tassi che è una politica di alti tassi alti, con le conseguenze che ne derivano in termini di collocamento del debito pubblico a partire dai Paesi più deboli. Questo che cosa farà? Favorirà chi ci ha già la liquidità. Chi ce l’ha la liquidità? I grandi fondi. È chiaro che si determina una soluzione per cui invece tutti quelli che hanno bisogno del credito bancario lo pagano l’ira di Dio e quindi sono fuori dal mercato. Quindi chi è che si compra le aziende in difficoltà che non hanno più credito bancario? I grandi fondi che la liquidità ce l’hanno. Quindi è evidente che il gioco funziona e c’è questa selezione, perché è ovvio che questi soggetti potranno comprare grandi fondi, pezzi di imprese, potranno comprare parti di società pubbliche messe in dismissione. Voglio vedere chi si comprerà questo famoso venti e i famosi venti miliardi delle privatizzazioni italiane, probabilmente venti non basteranno, ne faranno venticinque. Avranno bisogno di soldi e cosa venderanno? All’Italia e Monte dei Paschi? Ci credo poco proveranno, ma venderanno qualcosa che sia appetibile. Quindi titoli di Eni, titoli di Enel. Io penso che questo non sia soltanto una follia. È una follia che ha una sua profonda lucidità. La finanziarizzazione consente di fatto una inflazione stellare, non rende più possibile il finanziamento dei debito per far fronte all’aumento del costo della vita e quindi obbliga alla riduzione del perimetro degli interventi pubblici, obbliga prima alla privatizzazione dei settori e poi, appunto, la riduzione del perimetro e questo va a vantaggio di quelli che si possono appunto comprare Eni, Enel e via dicendo. Al tempo stesso va a vantaggio di quelli che diventeranno i destinatari dei risparmi degli italiani. Blackrock e Vanguard invece che fare ventiduemila miliardi di attivi faranno anche venticinque, trentamila miliardi, perché ci saranno anche risparmi degli italiani. Che ad oggi sono solo in parte e finiranno lì. Questo è il mondo nel quale siamo drammaticamente avviluppati, è l’affermazione della centralità assoluta dei grandi fondi che stanno occupando gli spazi non solo della finanza, ma anche dell’esistenza degli Stati in quanto tali.”

La cosa più divertente in queste ore, è proprio vedere come di fronte alle evidenti ripercussioni catastrofiche che l’escalation in Israele avrà necessariamente anche sulla nostra economia già tramortita, la nostra classe dirigente sia tra le più entusiaste sostenitrice della soluzione finale. Se è raccapricciante vedere come le oligarchie non abbiano nessuna remora a sostenere un genocidio pur di arraffare un po’ di quattrini in più, vedere qualcuno sostenere apartamente con entusiasmo un genocidio addirittura contro i suoi stessi interessi, non ha prezzo. Nell’attesa di portare avanti il loro piano complessivo per il dominio globale, infatti, almeno le oligarchie finanziarie a stelle e strisce e i loro fondi speculativi intanto sono già passati all’incasso. Grazie alla carneficina in corso a Gaza, nell’arco di poche ore Lockheed Martin ha guadagnato in borsa il 9,8%, General Dynamics il 9,9%, Northrop Grumman, poco meno del 14%. Indovinate chi sono i principali azionisti? la risposta la sapete già: sempre loro, blackrock, vanguard e state street, il simbolo per eccellenza della più grande concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di un manipolo di aristocratici del’intera storia dell’umanità.

Una bella boccata d’ossigeno.

In media infatti dall’inizio dell’anno le azioni dei tre colossi delle forniture militari avevano perso intorno al 20%. Era l’effetto delle magnifiche sorti e progressive della controffensiva ucraina, che mano a mano che si rivelava anche agli occhi dei liberali più ottusi per il grandissimo inevitabile fallimento che era, lasciava presagire che l’era d’oro delle supercommissioni per portare avanti la guerra per procura sarebbe presto tramontata. Nel frattempo, lontano dagli uffici delle oligarchie del fronte democratico, il mondo è alla fame, letteralmente.
Come ricorda Stephen Devereux dell’Institute of Development Studies su Project Syndicate infatti, “Dagli anni ’60 fino alla metà degli anni 2010, la fame è diminuita in tutto il mondo”. Il Contributo di gran lunga più importante è arrivato dalla Cina, che è talmente ferocemente turbocapitalista che ha emancipato dalla schiavitù della fame tutta la sua popolazione. Risolto il problema della fame in Cina, ricorda Devereux, “nonostante la produzione alimentare record, la tendenza è tornata a invertirsi, con circa 828 milioni di persone colpite dalla fame a livello globale nel 2021 – un aumento di 46 milioni rispetto al 2020 e di 150 milioni rispetto al 2019”.

E potrebbe essere soltanto l’inizio.

Alessandro Volpi: “I prezzi agricoli sono definiti fondamentalmente da due, tre borse a livello mondiale. Le più importanti sono la Borsa di Chicago, la Borsa di Parigi, la Borsa di Mumbai. La Borsa di Chicago, che è la più importante, in parte anche la Borsa di Parigi, sono totalmente finanziarizzate, cioè la proprietà della Borsa di Chicago è ancora una volta di State street, Vanguard e Black Rock. Quindi il luogo dove si definisce il prezzo dei prodotti agricoli, il contenitore dove si definisce è di proprietà di questi fondi. Questi fondi sono presenti, come nel caso del gas, nonostante c’entrano nulla con la produzione di beni agricoli, che peraltro sono beni assolutamente sensibili e le prime tre, quattro società di produzione di cereali e non solo, ma anche di altri beni in giro per il mondo, sono di proprietà di questi fondi. Le altre tre, quattro, le famose Big Three che regolano i prezzi. Quindi anche nel momento in cui si decide che per determinate aspettative futuribili ci può essere una carenza di determinati prodotti agricoli, abbiamo visto il caso dello zucchero, per esempio, che ha avuto un balzo del 45% in virtù di una carenza di produzione limitata al 4% complessivo. Quindi senza nessuna giustificazione, perché dietro quel contenitore sono partite le scommesse. Quindi noi dobbiamo avere ormai chiaro che il mondo nel quale viviamo non è più un mondo nel quale esiste un mercato che è in grado di fare un qualche tipo di valutazione sull’impatto geopolitico delle questioni. Cioè scoppia una tensione fra Hamas e Israele, c’è un conflitto fra Hamas e Israele? Bene, valutiamo il mercato. Dovrebbe servire indicativamente a valutare che tipo di effetti produca. Ecco, questo non esiste più.

È il libro nero del capitalismo globalizzato neoliberista, che ogni anno genera direttamente oltre dieci milioni di morti. Fortunatamente sono morti democratiche e per la libertà dei mercati, quindi non sono proprio morti vere, sono danni collaterali, in nome della democrazia e della libertà. Oltre alle decine di milioni di morti dirette, poi, c’è la schiavitù del debito che generano, e della quale ci occuperemo domattina nella seconda puntata di questa miniserie, con un lavoro a quattro mani scritto insieme all’amico Matteo Bortolon. Affinchè il libro nero del capitalismo finanziario globalizzato, che proviamo a scrivere giorno dopo giorno, raggiunga il maggior numero di persone, affidarsi ai media pagati da chi di tutto questo è la causa potrebbe essere piuttosto velleitario

Piuttosto, ci serve un media tutto nostro, che stia dalla parte del 99%.

Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Antonio Tajani.

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Matteo Renzi.