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Tag: imran khan

IRAN VS PAKISTAN: la guerra si allarga all’Asia e diventa ATOMICA?

Avevate paura che il conflitto si allargasse a tutto il Medio Oriente? Che inguaribili e pucciosissimi ottimisti! In Medio Oriente, in realtà, il conflitto era regionale da ben prima del genocidio di Gaza; ora, semmai, quello che c’è da temere è che vada ben oltre.
La prima drammatica avvisaglia c’era stata il 3 gennaio scorso, quando nella città Iraniana di Kerman il più grande attentato terroristico della storia della repubblica islamica aveva causato oltre 80 vittime e poco meno di 200 feriti, un attacco che veniva da est e che allargava l’area del conflitto dal solo Medio Oriente anche al resto dell’Asia – perché in questa fase nun ce volemo fa’ manca’ proprio niente – e che, a quanto pare, era solo l’antipasto. Martedì scorso, infatti, l’Iran ha annunciato di aver portato a termine un attacco in territorio pakistano contro una roccaforte del gruppo salafita di Jaish ul-Adl – l’Esercito della Giustizia: il Pakistan ha reagito richiamando il suo ambasciatore a Teheran e invitando quello Iraniano di istanza a Islamabad, che si trovava temporaneamente anche lui a Teheran per lavoro, a restarsene a casina sua; e ha annunciato ritorsioni che, puntualmente, sono arrivate all’alba di ieri: “Il Pakistan ha attaccato un villaggio di frontiera Iraniano con dei missili” ha annunciato la tv di stato di Teheran, aggiungendo che “3 donne e 4 bambini sono stati uccisi, tutti di nazionalità non Iraniana”. Ora, il Pakistan non è un paese qualsiasi: è una potenza nucleare che due anni fa è stata travolta da un golpe parlamentare per cacciare il politico più popolare della sua storia – accusato di essere troppo vicino a Cina e Russia – e che ora è nel bel mezzo di una vera e propria catastrofe economica. Cosa mai potrebbe andare storto?

Imran Khan

Ogni luogo è noto per una specialità: a Tropea ci sono le cipolle, nelle valli del Chianti il vino, in Trentino le mele; ecco, nella regione del Belucistan ci sono le organizzazioni terroristiche; non che sia un attitudine innata, eh? Infatti non è solo la parte più povera del Pakistan, ma sconfina anche nelle parti più povere rispettivamente di Afghanistan e Iran: una combo di tutto rispetto che, da sempre, attira le intelligence dell’impero più del miele; terra di un grande movimento di massa di matrice etnonazionalista che, in linea di principio, ha più di qualche ragione, il Belucistan negli anni è diventato un vero parco giochi per CIA, Mossad e il britannico MI5. Iran, Pakistan e pure Afghanistan, sulla carta dichiarano di collaborare per tenere a bada la miriade di gruppuscoli presenti nell’area, ma la carta spesso è buona solo per pulircisi il culo: se in Iran e nel nuovo Afghanistan a guida talebana lo Stato in questa battaglia risulta piuttosto compatto, in Pakistan infatti la situazione è leggermente più complicata. Dire che la classe dirigente pakistana – infatti – è divisa è un eufemismo: 2 anni fa c’è stato il colpo di stato parlamentare contro Imran Khan e, da allora, è in corso una specie di piccola guerra civile a bassa intensità strisciante; una “guerra civile di altro tipo” la definisce Sushant Sareen, senior fellow della Indiana Observer Research Foundation. “La crisi politica in corso in Pakistan” scrive “è, senza dubbio, la sfida più seria allo Stato dalla sua nascita, anche più di quella che portò alla nascita del Bangladesh nel 1971. Allora, infatti, c’era l’establishment pakistano da un lato e una provincia e un gruppo etnico sfruttato perseguitato e discriminato dall’altro, ma l’establishment era compatto. Oggi l’establishment è in guerra con se stesso”: in particolare, sostiene Sareen, la vicenda di Imran Khan avrebbe diviso il paese, con l’uomo della strada sostenuto dalla magistratura e, in particolare, dalla corte suprema da un lato e l’esercito dall’altro; “I pilastri dello Stato” scrive Sareen “sono schierati uno contro l’altro”. Ma anche all’interno dell’esercito stesso le divisioni, ormai, sono al massimo storico: “Tradizionalmente” scrive Sareen “l’élite punjabi ha sempre sostenuto incondizionatamente i vertici dell’esercito, ma adesso una parte consistente è schierata saldamente dalla parte di Imran Khan. Tra loro, militari, ex militari e le loro famiglie, oltre ad avvocati, giornalisti, cantanti, sportivi, attori e influencer di ogni genere”; “L’intero esercito di troll che l’esercito pakistano aveva formato per condurre la sua guerra d’informazione contro l’India” continua Sareen “ora ha puntato tutte le sue armi contro l’attuale leadership militare”, che uno a questo punto si chiede: embe’? Che ce frega a noi della guerra civile in Pakistan? E che c’azzecca con l’Iran?
In realtà c’azzecca eccome perché il rischio è che nessuno, in realtà, abbia la situazione sotto controllo, e non avere la situazione sotto controllo in un paese pieno zeppo di sigle terroristiche di ogni natura – e con la bomba nucleare – non è esattamente il top; diciamo che è un po’ come sperava di ridurre la Russia il mondo libero e democratico: “Oltre alla popolazione irrequieta” spiega infatti ancora Sareen, “c’è da aspettarsi anche una nuova ondata di terrore che l’esercito non avrà gli strumenti per tenere sotto controllo”. Sareen fa l’esempio di Therik-e-Taliban Pakistan, noti anche semplicemente come i talebani pakistani ma che, al contrario dei talebani doc, avrebbero più di un debole per gli islamonazisti di Daesh: “La maggior parte di questi jihadisti” spiega Sareen “un tempo erano fanti dell’establishment pakistano. Ma come i troll punjabi, anche questi santi guerrieri ora hanno deciso di puntare le armi contro l’establishment”; difficile pensare che, in decenni di collaborazione, questi gruppi terroristici, anche nel caso siano davvero entrati in collisione con il grosso dei vertici militari, non abbiano le loro quinte colonne e i loro fiancheggiatori nel palazzo. A partire dall’ISI, i famigerati servizi di intelligence pakistani, “un’agenzia di spionaggio ben nota, ma molto poco conosciuta” come l’ha definita l’ex alto ufficiale di polizia pakistano e ora docente ad Harvard Hassan Abbas nel suo “La deriva del Pakistan verso l’estremismo”: “In Pakistan” ricorda Abbas “l’ISI non si limita a occuparsi di controspionaggio e di protezione degli interessi strategici del paese, ma svolge un ruolo di primo piano anche a livello interno: crea instabilità, sfida i partiti politici, si infiltra ovunque, crea partiti politici per sostenere il regime militare e per manipolare le elezioni”. E l’ascesa dell’ISI è tutta opera degli USA: erano gli anni ‘80, il Pakistan era al posto giusto nel momento giusto per aiutare gli USA a sostenere i mujahiddin afghani contro l’Unione Sovietica e l’ISI era lo strumento più adatto; da allora l’ISI è sempre stata combattuta tra due tendenze: la vicinanza all’Islam più radicale e quella ai suoi sponsor occidentali (che non sempre sono due cose così poi diverse).
E così torniamo agli ultimi fatti di cronaca: al centro della vicenda, appunto, ci sarebbe il gruppo terroristico di Jaish ul-Adl, l’esercito della giustizia – ovviamente divina; è un gruppo salafita che si sostiene sia nato all’inizio dello scorso decennio e che fa parte della vasta galassia di organizzazioni terroristiche che rivendicano la nascita di un etnostato del Belucistan. Sulla carta, quindi, non dovrebbero essere visti di buon occhio da Islamabad, eppure… Secondo The Indian Express, ad esempio, il Pakistan “avrebbe consentito a questi gruppi terroristici separatisti di operare per volere dell’ex rivale dell’Iran, l’Arabia Saudita”: ora, ovviamente anche qui a parlare sono gli indiani che, per ovvie ragioni, sul Pakistan non sono esattamente sempre la fonte più affidabile e imparziale, ma il sospetto, diciamo – per usare un eufemismo – è piuttosto diffuso. Di nuovo, per essere chiari: nessuno qui sostiene che i vertici militari e dell’intelligence pakistana addestrino, fomentino e offrano protezione incondizionata a questi gruppi per fare contenti i sauditi e l’Occidente collettivo; il punto, ribadiamo, è che quei vertici ormai sono sempre più deboli e infiltrati, e che tra le varie quinte colonne ci sia anche chi spinge per chiudere un occhio è qualcosa di più che una semplice possibilità, e non solo in chiave anti – iraniana. I gruppi terroristici del Belucistan, infatti, sono da sempre l’ostacolo più grande alla realizzazione e messa in funzione delle varie infrastrutture finanziate dai cinesi nell’ambito del China Pakistan Economic Corridor, il singolo pacchetto in assoluto più imponente di tutta la Belt and road initiative, e che attraversa proprio tutto il Belucistan per sfociare al porto di Gwadar: un investimento gigantesco anche perché, oltre alle infrastrutture, prevede la costruzione di una gigantesca zona economica speciale a ridosso del porto destinata a diventare un hub industriale e logistico di portata globale; per la regione più povera del già poverissimo Pakistan un’opportunità incredibile che, però, i sedicenti etnonazionalisti boicottano da anni a suon di attentati. Lo so bene perché, per 4 anni, ho provato ad andarci di persona e non sono mai riuscito: l’ambasciata pakistana non mi ha mai rilasciato le autorizzazioni. Troppo pericoloso. Ovviamente, per chi vuole ostacolare l’integrazione del supercontinente eurasiatico questi gruppi sono un alleato naturale strepitoso: se non ci fossero, andrebbero inventati.

Pakistan

L’attacco iraniano e la risposta pakistana – quindi – sono un altro tassello della famosa guerra mondiale a pezzi che vede contrapposti Nord e Sud Globale? In un certo senso sicuramente sì, ma c’è anche il rischio di correre con le sovrainterpretazioni: lo scorso dicembre Jaish ul-Adl ha attaccato un posto di polizia nella piccola città Iraniana di Rusk; lo scontro a fuoco con gli agenti di polizia iraniani è durato ore e, alla fine, ne sono morti 12. Non è un caso isolato: nel 2019, infatti, avevano rivendicato un attentato suicida durante il quale erano stati uccisi 27 membri dei Pasdaran, e in molti sospettano abbiano giocato un ruolo nell’attentato di Kerman del 3 gennaio; come sottolinea un altro ricercatore sempre dell’Observer Research Foundation, leggere l’attacco iraniano alle loro postazioni come un altro tassello del “gioco strategico in corso in Medio Oriente, potrebbe essere un po’ forzato”. “La questione di gruppi come Jaish e le tensioni tra Iran e Pakistan sulla militanza dei baluchi” continua l’articolo “sono anteriori alla guerra in corso a Gaza o al deterioramento della situazione della sicurezza nel Mar Rosso. Nel corso degli anni l’Iran ha spesso ribadito che avrebbe preso di mira i nascondigli di Jaish all’interno del Pakistan, e lo scontro a fuoco tra le truppe al confine tra i due paesi è stato un evento regolare. Questo incidente” conclude l’articolo “è da considerarsi una questione unicamente bilaterale e di gestione delle frontiere tra i due paesi”.
Idem con patate la reazione pakistana: quasi “un atto dovuto” sottolinea la testata Pakistana Dawn; a essere presi di mira, infatti, anche in Iran sarebbero stati altri nascondigli di altri gruppi terroristi del Balucistan e il comunicato ufficiale del governo sottolinea che “Il Pakistan rispetta pienamente la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica islamica dell’Iran” e aggiunge che “l’unico obiettivo dell’atto di oggi era il perseguimento della sicurezza e dell’interesse nazionale del Pakistan, che è fondamentale e non può essere compromesso”. “L’Iran è un paese fraterno” continua il comunicato “e il popolo pakistano nutre grande rispetto e affetto per il popolo iraniano. Abbiamo sempre enfatizzato il dialogo e la cooperazione nell’affrontare le sfide comuni, inclusa la minaccia del terrorismo, e continueremo a sforzarci di trovare soluzioni comuni”. Insomma: ci avete fatto fare una figura di merda e soprattutto – in questa fase dove già c’abbiamo mezzo paese contro – non potevamo sconigliare, e in qualche modo dovevamo reagire. Ora però diamoci tutta una bella calmata.
Tutto tranquillo quindi? Non esattamente: ammesso e non concesso che la scaramuccia abbia esclusivamente a che fare con i rapporti bilaterali, la frontiera e la lotta al terrorismo, il problema comunque rimane; come in Medio Oriente, anche ad est dell’Iran 50 anni di destabilizzazione sistematica hanno creato mostri. Per sconfiggerli, come minimo, ci vorrebbero stati nazionali solidi e in salute capaci di garantire il pieno controllo del territorio e di difendersi dalle infiltrazioni, soprattutto se – e sottolineo se – c’è qualcuno che quei mostri continua a coccolarli e nutrirli come fossero animali da compagnia. Purtroppo il Pakistan, come molti stati nazionali del Medio Oriente, non è mai stato meno solido e in salute di adesso e qualcuno da fuori, in questo senso, ha dato il suo contributo (e non sono certo i cinesi, che vogliono costruire ponti, strade, centrali elettriche, porti e insediamenti industriali), con la piccola aggravante qui che appunto il Pakistan, per quanto messo male, l’atomica continua ad avercela – e all’Iran, pare, mancherebbe pochino.
Insomma, tutto tranquillo un par di palle: non mi pare tanto il caso di assistere impassibili. Come minimo ci serve un media che ci faccia incazzare tutti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

Come ti destabilizzo una potenza nucleare: lo scandalo del golpe filo USA in Pakistan

Il sud globale avanza compatto giorno dopo giorno e minaccia il vecchio ordine globale, ma le defezioni non mancano e tra queste ce n’è una in particolare che preoccupa Mosca e Pechino: il Pakistan, una defezione eccellente, quinta potenza demografica mondiale e uno dei 9 stati al mondo a possedere l’atomica.

La variabile pakistana è una gigantesca spina nel fianco al processo di integrazione del super-continente eurasiatico e a Pechino lo sanno bene, e non a caso è il singolo paese ad aver ricevuto in assoluto più quattrini per investimenti di ogni genere nell’ambito della nuova via della seta; un’influenza crescente, che sembrava aver aperto al Pakistan una gigantesca finestra di opportunità in direzione finalmente di uno sviluppo economico impetuoso e sostenibile, e dell’emancipazione dal giogo statunitense; un processo di portata storica, che si è tradotto nell’ascesa inarrestabile dell’ex campione di cricket Imran Khan e del suo Movimento per la Giustizia del Pakistan, sfociata nel dicembre del 2018 nella sua nomina a primo ministro.

Unico vero oppositore alla partecipazione del suo paese nella disastrosa guerra in Afghanistan, e leader incontrastato del movimento che si opponeva agli attacchi criminali dei droni USA in territorio pakistano, Imran Khan è probabilmente il primo leader nazionale da qualche decennio a questa parte a non essere emanazione più o meno diretta delle gerarchie militari legate a doppio filo a Washington; una vera luce di speranza per l’affermazione dell’indipendenza e della sovranità del Pakistan che infatti è stata colta con incredibile entusiasmo, sopratutto dalle fasce più giovani della popolazione.

Già nel 2014 un sondaggio di YouGov incoronava Imran Khan “persona più ammirata in assoluto del Pakistan”, e addirittura dodicesimo a livello globale; poi è arrivata la guerra in Ucraina, e contro l’idea eretica di Khan di mantenere il Pakistan in una posizione di netta neutralità, tutta la popolarità possibile immaginabile non bastava più.

Nell’aprile del 2022 Imran Khan viene repentinamente spodestato attraverso un voto di sfiducia del parlamento; da allora lui, il suo movimento, e chiunque abbia manifestato disappunto nei confronti dell’ennesimo golpe bianco condotto contro gli interessi e i sentimenti popolari, sono stati ferocemente repressi tra pestaggi, esecuzioni, processi farsa e arresti sommari.

Ed è così che oggi il Pakistan si trova travolto da una crisi economica, politica e istituzionale senza precedenti, e indovinate un po’ per merito di chi?

E’ il 7 marzo 2022. L’allora ambasciatore pakistano negli USA, Asad Majeed Khan, incontra alcuni alti funzionari del dipartimento di stato USA: tra loro, Donald Lu, responsabile dell’ufficio per gli affari del centro e del sud asiatico. Questo fa infuriare gli USA che, abituati a “dare il Pakistan per scontato”, si sentono beffati.

Sotto la guida autorevole di Imran Khan, infatti, il Pakistan, come d’altronde la quasi totalità dei paesi del sud globale, ha deciso di non volersi schierare nella guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina

Su cosa si siano detti esattamente durante quell’incontro, è stata fatta a lungo ogni sorta di speculazione; quello che sappiamo con certezza invece è che un mese dopo il parlamento sfiducerà Khan, rimuovendolo dal potere.

Sappiamo anche che pochi giorni prima di quell’incontro, il 2 marzo, Donald Lu aveva tenuto un’audizione presso il comitato per le relazioni estere del senato USA, che voleva

avere notizie più dettagliate sulla neutralità che India, Pakistan e Sri Lanka avevano deciso di mantenere nel contesto del conflitto ucraino. In particolare, erano imbufaliti dal fatto che il Pakistan, in occasione del voto presso l’ONU della risoluzione di condanna nei confronti della Russia, avesse optato per l’astensione, e sappiamo anche che il giorno prima del fatidico incontro, Imran Khan era intervenuto durante una manifestazione.

Alcuni ambasciatori occidentali in Pakistan avevano provato a fare esplicitamente pressione su Khan affinché rimettesse in discussione la sua neutralità dopo l’astensione all’ONU: gli scrissero proprio una letterina, come quella della trojkaa Berlusconi: “gentile alunno, abbiamo notato che all’ONU non hai votato come ti avevamo chiesto. Eh eh eh, non si fa, birichino.”

Non andò proprio benissimo: “che cosa pensate di noi?”, tuonò Khan di fronte a una folla oceanica, “che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiedete?”

Ovviamente, chiunque abbia anche solo sommessamente insinuato il dubbio che dietro la defenestrazione del primo presidente pakistano a non essere emanazione diretta di servizi ed esercito filooccidentali, è stato prontamente accusato di essere un utile idiota della pervasiva propaganda putiniana

Forse, però, si è trattato di un giudizio un po’ affrettato. Questa estate infatti, The Intercept – la testata USA fondata da Glenn Greenwald e diventata famosa per i leak del caso Snowden – è entrata in possesso del cablo che riassume il contenuto di quel fatidico incontro; l’esistenza di un documento che provava oltre ogni ragionevole dubbio l’ingerenza USA negli affari interni del Pakistan era stata annunciata subito dopo il colpo di stato da Imran Khan stesso.

Gli USA però hanno sempre negato pubblicamente e sfacciatamente in almeno 4 occasioni diverse: “non è altro che propaganda, e disinformazione”, dicevano, un po’ come quando David Puente fa i suoi ridicoli fact checking con il contesto mancante.

Ecco, ora il contesto c’è: secondo il documento del quale The Intercept è entrato in possesso grazie a una fonte anonima interna alle forze armate pakistane, durante il fatidico incontro Donald Lu avrebbe sottolineato come “qui negli USA, come in Europa, siamo molto preoccupati dalle motivazioni che hanno spinto il Pakistan ad assumere una tale posizione aggressivamente neutrale”. Fate attenzione alle parole, che a volte svelano mondi inesplorati: “aggressivamente neutrale” è illuminante perché svela l’essenza del suprematismo delle potenze imperialiste: “come osate voi selvaggi avere posizioni diverse da quelle indicate dalla superiore civiltà dell’uomo bianco?”

Quando Imarn Khan chiede “pensate che siamo schiavi?”, la risposta è molto semplice: come diceva Salvini, “ah no? non posso?”

Ma la ramanzina suprematista è solo l’antipasto: “penso che se riuscirete a sfiduciare il Primo Ministro”, avrebbe affermato Lu, “a Washington vi perdoneranno”.

Anche qua si vede Washington che, dall’alto della sua benevolenza, è pronta a perdonare lo schiavo ribelle. “Altrimenti”, avrebbe sottolineato Lu, “Penso che sarà dura andare avanti”.

Lu avrebbe poi continuato a sottolineare che, nel caso Imran Khan fosse rimasto al suo posto, il Pakistan inevitabilmente sarebbe stato isolato non solo dagli USA, ma anche da tutti i vassalli europei ed asiatici.

Come riporta lucidamente il sempre ottimo Andrew Korybko, “anche se non lo ha detto direttamente”, Lu “ha lasciato intendere molto chiaramente che i benefici che le élite militari e politiche ricevono dall’Occidente sarebbero stati tagliati, per non parlare dei disordini socio-politici che sarebbero necessariamente seguiti al possibile collasso dell’economia. Ciò è stato sufficiente per convincere i vertici militari e l’opposizione a unirsi per rimuovere Imran Khan”.

Di fronte a questa prima pistola fumante, la replica del portavoce del dipartimento di stato USA Matthew Miller suona un po’ stonata: “Niente in questi presunti commenti”, ha dichiarato, “mostra che gli Stati Uniti abbiano preso posizione su chi dovrebbe essere il leader del Pakistan”.

Verissimo. Mostrano solo chi gli USA hanno imposto non lo fosse: nella scelta dello zerbino più adatto – va riconosciuto – lasciano piena libertà ai servizi e alle forze armate pakistane.

D’altronde sono schiavisti, ma pur sempre illuminati. Esattamente il giorno dopo il fatidico incontro, l’opposizione diligentemente fa la prima mossa per arrivare al voto di sfiducia.

Non c’hanno manco dormito sopra: gli USA ordinano e loro eseguono con zelo.

A partire dal 2020, Imran Khan aveva accampato ogni genere di scusa per rinviare il rinnovo dell’accordo di partnership militare con gli USA, avviato15 anni prima; pochi mesi dopo la sua defenestrazione, il parlamento ha approvato in fretta e furia un nuova partnership con Washington che prevede “esercitazioni congiunte, operazioni, addestramento, e scambio di armamenti”, ma il nodo principale era la posizione sull’Ucraina.

Il cambiamento d’aria si era cominciato a sentire già alcuni giorni prima del golpe bianco, quando l’allora capo delle forze armate Qamar Bajwa aveva deciso di rompere con la neutralità professata da Imran Khan e aveva rilasciato una dichiarazione pubblica dove definiva apertamente quella russa una vera e propria invasione, ma era solo l’antipasto.

A luglio il ministro degli esteri ucraino effettua un importante viaggio di stato a Islamabad che viene pubblicizzato come incentrato su temi quali il commercio, l’istruzione e le questioni ambientali ma poco dopo, in rete, cominciano a circolare immagini provenienti dal fronte di proiettili e munizioni prodotti in Pakistan, che – da questo punto di vista – ha un’industria bellica di tutto rispetto. All’inizio del 2023 GeoNews, un importante canale youtube pakistano, pubblica un’intervista a un funzionario dell’Unione Europea di istanza ad Islamabad, che ammette che il Pakistan sta fornendo assistenza militare all’Ucraina.

Ovviamente tutti smentiscono categoricamente, ma è il segreto di pulcinella che oggi possiamo svelare con sicurezza: a permettercelo è di nuovo un’altra importante inchiesta di The Intercept, che sempre grazie a fonti anonime interne alle forze armate pakistane, è entrata in possesso di una mole importante di documenti che dimostrerebbero come il Pakistan abbia venduto equipaggiamento militare, e in particolare munizioni, agli USA da destinare all’Ucraina, per un valore di poco meno di 1 miliardo di dollari.

Ma come hanno fatto gli USA a convincere i pakistani a fare questa svolta a 360 gradi? “Semplice”, sostiene The Intercept, “con i quattrini del fondo monetario internazionale”.

Però il Pakistan, ormai da qualche anno, è attraversato da una crisi economica devastante, con un debito estero fuori controllo che drena tutte le risorse del paese, mentre la crescita arranca.

Per mettere una toppa, a partire dal 2019, Imran Khan ha cercato di aprire una trattativa col fondo monetario internazionale per ristrutturare il debito: come sempre, il fondo ha chiesto una serie di riforme di carattere neoliberista, cioè le consuete vecchie condizioni che impongono da decenni a qualsiasi paese debitore. Con la retorica dell’apertura ai mercati, impongono la solita ricetta “lacrime e sangue”, utile solo a liberare nuovi spazi per l’abituale shopping a prezzi di saldo di interi pezzi dell’economia nazionale da parte delle oligarchie finanziarie.

Il risultato è immancabilmente lo stesso: l’economia, invece di ripartire, sprofonda in una crisi ancora più grave, che rende il ripagamento del debito sempre più inverosimile, e costringe i paesi più poveri a uno stato di perenne dipendenza dai loro creditori; è il meccanismo standard attraverso il quale il fondo monetario si è dimostrato essere il più efficace tra gli strumenti in mano a Washington per imporre la sua globalizzazione neoliberista in tutto il pianeta, e al quale anche i governi più titubanti sono spesso ancora costretti a ricorrere per tentare di rinviare almeno temporaneamente il deafult.

Un ricatto nel quale è caduto lo stesso Imran Khan, che a partire dal 2019 ha ceduto all’esigenza di introdurre alcune di queste fantomatiche riforme. Ovviamente, le conseguenze economiche sono state disastrose, ma – oltre al danno – anche a questo giro è arrivata pure la beffa, e alla fine il fondo monetario si è rifiutato di concedere il tanto atteso nuovo prestito. Indovinate un po’ invece quand’è che hanno deciso di concederlo?

Esatto. Poco dopo il golpe bianco dettato dagli USA e la decisione di rinnegare la neutralità, ecco che magicamente viene concesso il prestito.

Ovviamente, anche stavolta sono state introdotte misure draconiane di sudditanza ai dictat dell’agenda neoliberista, a partire da un repentino aumento del 50% al tetto imposto ai prezzi dei prodotti energetici; ma secondo The Intercept, a fare la differenza sarebbe stato proprio l’accordo per la fornitura di munizioni da spedire in Ucraina, siglato il quale gli USA si sarebbero mossi con tutti gli strumenti a loro disposizione per convincere il fondo monetario a rivedere la sua posizione. Un piano perfetto e una grande vittoria strategica per gli USA che così rimettono le mani dentro la marmellata del paese che forse più di ogni altro è essenziale per la realizzazione della nuova via della seta e per l’integrazione del super-continente eurasiatico.

Peccato che questa vittoria stia costando molto cara. Forse troppo: come ricorda giustamente The Intercept, “Mentre sui media andava in scena il dramma del cablo fantasma, per le strade l’esercito pakistano lanciava un attacco senza precedenti alla società civile pakistana per mettere a tacere qualunque dissenso e libertà di espressione esistessero in precedenza nel paese

Negli ultimi mesi”, continua l’articolo, “il governo guidato dai militari ha represso non solo i dissidenti ma anche i presunti responsabili della fuga di notizie all’interno delle sue stesse istituzioni, approvando una legge che autorizza perquisizioni senza mandato e lunghe pene detentive per tutti gli informatori

Tra i vari arresti sommari senza mandato, anche quello della nota avvocata per i diritti umani, nonché figlia dell’ex ministro per i diritti umani durante il governo Khan, Imaan Zainab Mazari: stava guidando una serie di proteste per chiedere un’azione immediata contro le esecuzioni extragiudiziali e la sparizione forzata di migliaia di persone innocenti nelle cosiddette “operazioni antiterrorismo” dell’esercito nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KP).

Peccato che, venendo arrestata illegalmente da un alleato dell’occidente e non da quei cattivoni degli iraniani, dalle nostre parti non abbia scatenato poi chissà che ondata di indignazione.

L’ondata repressiva poi ha riguardato in particolar modo la stampa indipendente: “La repressione della stampa pakistana, un tempo turbolenta, ha preso una piega particolarmente cupa”, scrive The Intercept. “Arshad Sharif, un importante giornalista pakistano fuggito dal paese, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Nairobi lo scorso ottobre in circostanze ancora controverse. Un altro noto giornalista, Imran Riaz Khan, è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un aeroporto lo scorso maggio e da allora non è più stato visto” e i golpisti avrebbero addirittura intimato a tutti i media del paese di evitare anche solo di citare di sfuggita il nome stesso di Imran Khan.

Nel frattempo, migliaia di suoi sostenitori sono stati incarcerati e il suo processo si è trasformato in una vera e propria farsa, con l’obiettivo palese di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni che – secondo tutti i sondaggi – lo vedrebbero di gran lunga favorito.

Questi attacchi radicali alla democrazia”, scrive ancora The Intercept, “sono passati in gran parte inosservati da parte dei funzionari statunitensi. Alla fine di luglio il capo del comando centrale degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, ha visitato il Pakistan, poi ha rilasciato una dichiarazione affermando che la sua visita era stata incentrata sul “rafforzamento delle relazioni tra militari”, senza fare menzione della situazione politica in Pakistan. E quando quest’estate il deputato USA Greg Casar ha tentato di aggiungere una misura al National Defense Authorization Act che ordinava al Dipartimento di Stato di esaminare il declino democratico in Pakistan, gli è stato addirittura negato il voto alla Camera”.

Chi l’avrebbe mai detto? Quando in ballo ci sono gli interessi strategici, la retorica sullo scontro di civiltà tra democrazie illuminate e regimi totalitari passa inspiegabilmente in secondo piano.

A noi non rimane che l’antidoto di raccontare le cose per come sono, e non per come le vedono sotto acido gli hooligan del liberalismo immaginario. Se anche tu credi sia importante continuare a farlo, sempre meglio e sempre di più, diccelo con qualche eurino: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU )

E chi non aderisce è David Parenzo