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Tag: globalizzazione

La svolta multipopolare è irreversibile: l’ordine cinese garantisce pace e prosperità nel mondo

Oggi a Mondocina, Davide Martinotti (Dazibao) e Francesco Maringiò ci parlano di Cina e mondo partendo dalla questione dazi e di come questa sia stata discussa durante i forum e gli incontri internazionali, fino al rinnovato rapporto sino-vietnamita all’insegna della pace e della collaborazione. Si parla anche di Filippine e di come queste stiano cercando di stemperare i toni bellicisti del Congresso e della Casa Bianca. Gli USA in crisi sembrano intimoriti dalla globalizzazione e sempre più proiettati verso i propri drammi interni; Pechino diventa quindi un attore fondamentale per garantire la libertà dei commerci e lo sviluppo generale e prospero del mondo. Buona visione!

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Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Italia vs USA- La lotta per l’indipendenza sta per cominciare?

Sovranità o barbarie. Sovranità o morte.
Tutta la storia contemporanea può essere letta anche come storia del conflitto tra nazioni ed imperi, tra comunità nazionali, che lottano per la propria indipendenza ed autodeterminazione, ed imperi aggressivi e coloniali, che cercano di assoggettare altri popoli per asservirli ai propri interessi. In questo periodo di transizione ad un nuovo ordine multipolare in cui, idealmente, l’autodeterminazione dei popoli diventerà veramente il principio fondante del nuovo equilibrio internazionale, nazioni coraggiose hanno cominciato, finalmente, ad alzare la testa e le armi contro i propri oppressori e contro il vecchio ordine mondiale fondato sull’egemonia del dollaro e sullo sfruttamento; e anche per il nostro paese, da 80 anni militarmente occupato da una potenza straniera a causa di una guerra persa, la questione nazionale è sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti una nostra agenda dettata dai nostri interessi nazionali, che le nostre classi dirigenti sono selezionate a monte sulla base della loro mediocrità e servilismo e che, come ogni colonia, stiamo introiettando modelli culturali dal centro dell’impero che non hanno nulla a che fare con la nostra storia e che ci stanno dissolvendo dall’interno.

Nel libro Sovranità o Barbarie – Il ritorno della questione nazionale, Thomas Fazi e William Mitchell affrontano di petto questa questione e dimostrano come, nella storia, lo Stato Nazione sia stata la sola cornice istituzionale e culturale in cui le classi subalterne hanno migliorato le proprie condizioni di vita, hanno creato uno stato sociale fondato sulle tutele e sulla giustizia redistributiva e hanno allargato gli spazi di democrazia. Come sottolinea anche l’articolo 1 della nostra Costituzione, se non esiste sovranità popolare non esiste democrazia e, se non esiste democrazia – dobbiamo aggiungere – il popolo può solo subire le politiche delle oligarchie autoctone e straniere che, con il supporto del potere imperiale, depredano le ricchezze nazionali e fanno di tutto per conservare lo status quo. Citando ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di figure come Togliatti, Basso e Di Vittorio, Mitchell e Fazi mettono in luce la profonda diffidenza – se non aperta avversione – che, per tutti questi motivi, la sinistra socialista nutriva contro ogni dissolvimento dello Stato italiano in una qualche istituzione sovranazionale poco o per nulla democratica. Le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo dei popoli non ha alcunché da spartire con la globalizzazione finanziaria e capitalista, esprimono con ancora più chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile per qualsiasi realizzazione dei bisogni e dell’emancipazione degli ultimi.
Ma anche Costanzo Preve, all’inizio di questo secolo, quando quasi tutti guardavano alla globalizzazione capitalista come al migliore dei mondi possibili e all’America come a un padrone benevolo, ci aveva avvertito e, in un libretto chiamato La questione nazionale alle soglie del XXI secolo, già denunciava l’inglobamento della nuova sinistra liberista nella sfera culturale delle élite capitaliste, mostrando quanto ideologica e strumentale fosse la sua nuova visione dello Stato nazionale come semplice residuo artificiale del passato e un residuo, perlopiù, di cui sbarazzarsi il più in fretta possibile, data la sua intrinseca pericolosità e aggressività nei confronti delle altre nazioni; in verità, ci ricorda Preve, nazionalismo ed imperialismo sono fenomeni politici opposti e da sempre in conflitto tra loro e chi nega la sovranità nazionale di un altro popolo con comportamenti coloniali e predatori non deve essere chiamato nazionalista, ma imperialista. E nel mondo attuale, in cui la storia sembra essersi rimessa in moto, è proprio da questa consapevolezza e da queste analisi che chi ha a cuore la pace e la democrazia dovrebbe ripartire. In questa puntata parleremo, quindi, del modo in cui l’ideologia neoliberista degli ultimi decenni ha cercato di distruggere il concetto di Nazione e di Stato sovrano per poter espandere le proprie logiche in ogni spazio e dimensione della vita comunitaria; vedremo poi la differenza tra i veri nazionalismi e le sue aberranti perversioni imperialistiche nel ‘900 e perché, oggi, la lotta per l’indipendenza nazionale ed europea dagli Stati Uniti non è davvero più rimandabile.
La famosa globalizzazione a guida americana non ha significato solo accelerazione delle comunicazioni, dei trasporti e delle transazioni finanziare, ma – soprattutto – restaurazione del pieno funzionamento dei rapporti capitalistici di produzione dopo l’intervallo del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991; durante questa restaurazione, messa oggi in discussione dall’emergere di nuove potenze economiche e culturali concorrenti, gli Stati occidentali hanno perso alcune funzioni tipiche dei decenni felici (dal 1945 al 1991), come la redistribuzione della ricchezza e l’implementazione dei diritti sociali, rafforzando il loro ruolo di appoggio economico, politico e militare agli interessi delle oligarchie economiche; un processo, sostengono Fazi e Mitchell, che sarebbe sbagliato interpretare come indebolimento dello Stato e che ha, invece, a che fare con la volontà delle classi dirigenti di utilizzare lo Stato come strumento di profitto, di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
Nonostante le contraddizioni di questo sistema stiano chiaramente scoppiando, In Italia la necessità quasi teologica della globalizzazione capitalista a guida americana non viene ancora messa in discussione e l’opposizione destra – sinistra, ormai del tutto artificiale e virtuale, continua ad essere riprodotta dall’alto per non far vedere ai cittadini queste contraddizioni e continuare a dividerli su questioni di pettegolezzo e di costume: sul tema della nostra sovranità e indipendenza nazionale, ad esempio, che sarebbe una chiara minaccia per la globalizzazione americana, la finta destra svolge da sempre il ruolo di cantore dell’occupazione militare del nostro suolo e sogna un’Italia finalmente americanizzata in cui i poveri possano essere sfruttati senza rompere troppo i coglioni e in cui la socialdemocrazia venga smantellata in ogni sua parte; la finta sinistra, invece, presa da un’incredibile crush per il partito democratico americano e per l’Unione Europea, sogna che l’Italia cessi proprio di esistere e questo perché, per loro, l’identità nazionale sarebbe roba da popolino e da medioevo, mentre l’America e le organizzazioni internazionali sono sinonimo di modernità, moda e umanitarismo.
Tutta questa ideologia antinazionalista, sottolinea anche il sociologo tedesco Wolfgang Streeck in Che fine farà il capitalismo?, serve proprio perché lo Stato nazionale sovrano è incompatibile con la forma imperiale americana e perché, storicamente, è stata la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia: “Anche per questo” scrive Streeck, “anche se in modo spesso confuso o ambiguo, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale.”; in Europa, aggiunge Preve, questo odio viscerale della sinistra liberal per la nazione “È diventata la questione culturale principale per cui la tradizione definita comunemente di sinistra è sostanzialmente inutilizzabile oggi per motivare un serio atteggiamento di critica e di resistenza all’attuale globalizzazione capitalistica ed imperialistica.” “E” continua “è uno dei fatti principali per i quali la sinistra, che negli ultimi due secoli nonostante difetti evidenti ha difeso cause sociali giuste, invece da 40 anni ha cambiato radicalmente natura.” Non è certo la prima volta nella storia che, in paesi sconfitti e occupati e con classi dirigenti collaborazioniste con l’occupante, diffondono idee che delegittimano l’idea stessa di sovranità e indipendenza e cerchino, in tutti i modi, di far passare l’idea che in fondo è meglio così e che il padrone è un padrone benevolo che sa fare al meglio gli interessi di tutti. Ma nel nostro caso, ricorda Preve, si è diffuso anche uno strisciante revisionismo che delegittima l’idea stessa di Nazione, per il quale le nazioni sarebbero solo il prodotto di un’ingegneria sociale priva di alcun fondamento culturale e di cui bisognerebbe liberarsi il più in fretta possibile, data la loro intrinseca aggressività nei confronti delle altre Nazioni; i più cauti su questo punto dicono che il nazionalismo guerrafondaio ed espansionistico – come, ad esempio, quello europeo e americano degli ultimi secoli – sarebbe una perversione e deviazione dell’originario ed autentico concetto di Nazione. “Ma invece bisogna dire” scrive Preve “che il nazionalismo militaristico e il colonialismo imperialistico sono stati la negazione e il nemico frontale della realtà nazionale per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Il colonialismo imperialistico è la negazione, è il più grande nemico del riconoscimento della legittimità dell’identità nazionale.”

Wolfgang Streeck

Un secondo pregiudizio a proposito della questione nazionale, da sempre caro ad un certa sinistra internazionalista, è che l’idea di nazione sarebbe nemica delle classi popolari e dell’emancipazione sociale; secondo questa teoria, il concetto di nazione implicherebbe una falsa unità tra le classi sociali e l’identità nazionale non sarebbe altro che un’identità borghese e capitalistica mascherata e venduta ai proletari dagli apparati ideologici di Stato per non far fare loro la rivoluzione e mandarli a morire in guerra per i propri interessi: questa obiezione, riflette Preve, rilevata da Marx e da gran parte dei marxisti successivi, è solo in parte pertinente. Dire che il nazionalismo distrarrebbe i proletari è ingenuo: “La gente è forse un po’ cogliona” ragiona il filosofo di Valenza “ma non cogliona fino a questo punto. La questione nazionale non distrae mai dalla questione sociale quando essa è realmente radicata in forze sociali reali. Lo sviluppo dialettico della lotta tra le differenti classi sociali della società capitalistica, ha anzi come presupposto storico la precedente identità nazionale.”; e infatti, se si guarda alla storia, possiamo tranquillamente dire che la rivoluzione classista pura è un’invenzione dei dogmatici. Tutte le rivoluzioni sociali concretamente avvenute – come quella russa, cinese, vietnamita e cubana – sono tutte sorte da una precedente questione nazionale non risolta a causa, appunto, dell’imperialismo, ossia la negazione assoluta del nazionalismo. Patria o muerte diceva Ernesto Guevara.
Bisogna prendere poi atto del fatto che la stragrande maggioranza delle persone non appartiene – e mai apparterrà – all’élite cosmopolita postnazionale “E per queste persone” scrive Carlo Formenti nelle conclusioni al libro di Fazi e Mitchell “nozioni quali cittadinanza, identità collettiva, senso di appartenenza, sono inestricabilmente legate a un determinato territorio e, nella maggior parte dei casi, a una nazione intesa come comunità caratterizzata dalla presenza di lingua, storia, cultura, geografia, usi e costumi comuni, o di almeno alcuni di questi caratteri (che di per sé non hanno nulla di organicista e/o di razziale).”; “In ultima analisi” conclude “cosa significa essere cittadini se non appartenere a una comunità che stabilisce autonomamente come organizzare la vita sociale ed economica all’interno di un dato territorio?”. È per questo che le destre che oggi hanno ancora con una retorica nazionalista (anche se prontamente tradita una volta al governo) sono egemoniche tra le classi popolari: perché sono in grado di tessere nuove narrazioni identitarie fondate sulla sovranità nazionale. Le forze veramente sociali e popolari invece, per tornare a vincere, oltre ad avere una chiara visione della necessaria trasformazione socioeconomica e istituzionale della società, devono anche essere in grado di produrre miti e narrazioni altrettanto potenti che riconoscano il bisogno di appartenenza delle persone e il loro legame col territorio in cui vivono e con le persone con cui condividono quello spazio.
Purtroppo, dobbiamo invece constatare che, mentre noi passiamo il tempo a delegittimare noi stessi mandando all’aria anche i nostri interessi economici, gli americani hanno ereditato dagli anglosassoni puritani la spiacevole illusione di avere un qualche primato sul mondo e, pertanto, di rappresentare una sorta di destino manifesto; come dichiarava Bill Clinton qualche anno fa “L’America è l’unica nazione indispensabile del mondo” e tutte le altre possono esistere solo se le riconoscono questo primato: “E qui si innesta appunto la pertinenza della questione nazionale” scrive Preve “perché l’imperialismo americano si arroga il diritto di decidere sovranamente in base ai propri interessi quali nazioni possono esistere sovranamente e quali no”. In conclusione, possiamo – insomma – dire che oggi questione nazionale significa battaglia per la democrazia e resistenza contro l’imperialismo e chi parla oggi di democrazia senza lotta concreta per l’autodeterminazione dei popoli, allude ad una sorta di proceduralismo e garantismo formale dietro cui le oligarchie straniere e autoctone non hanno nessun problema a nascondersi e a portare avanti i loro interessi antidemocratici.
Ovviamente, la solidarietà tra nazioni resistenti è una necessità: in un mondo sempre più interconnesso, aiutare gli altri vuol dire aiutare se stessi e lo sguardo degli oppressi ci rimanda al nostro stesso destino; anche per questo possiamo dire che è sicuramente preferibile l’internazionalismo al nazionalismo, ma nel suo significato etimologico, ossia come rapporto tra nazioni differenti ed eguali fondato su un diritto internazionale che riconosca la legittimità di tutte le nazioni – e non sulla retorica del cosmopolitismo pop e delle bombe umanitarie. “L’universalismo” conclude Preve “deve essere un dialogo tra le differenze, e non certo un altoparlante che diffonde orwellianamente ad una plebe livellata un unico messaggio universale obbligatorio.” E se anche tu vorresti che l’Italia sfruttasse al meglio il nuovo ordine multipolare nascente per riconquistare la propria libertà perduta, aiutaci costruire un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda dei media collaborazionisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

“Sono Ottimista. L’Europa collasserà” – lo scoppiettante esordio di MICHAEL HUDSON su Ottolina Tv [INTEGRALE]

Cerca qualcuno che ti guardi come Il Marru guardava Michael Hudson durante l’ora e mezza abbondante di intervista. “Sei ottimista sul ruolo che potrebbero ricoprire l’Europa e l’Italia in questa costruzione di un nuovo ordine multipolare nel quale tutti speriamo?” gli abbiamo chiesto: “Certo,” ha risposto “sono molto ottimista…” “… perché l’Europa collasserà e dopo dovrà scegliere: Socialismo o Barbarie. E io sono ottimista che sceglierà il Socialismo e dimostrerà che quando Margaret Thatcher affermava che non esiste nessuna alternativa si sbagliava. L’alternativa esiste e si chiama SOCIALISMO”. La prima volta del più grande economista vivente doppiato in italiano per costruire non solo un MEDIA, ma una vera e propria RIVOLUZIONE CULTURALE dalla parte del 99%. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è MARGARET THATCHER ?‍♀️

La Cina si sta preparando per dichiarare guerra all’Occidente?

Quante probabilità ci sono che la Cina inizi una guerra? A lanciare l’allarme su Foreign Policy sono Michael Beckley della prestigiosa Università di Tufts, nei sobborghi di Boston, e Hal Brands, professore di relazioni internazionali alla John Hopkins University, un esempio da manuale del rovesciamento totale della realtà che alberga nelle menti distorte dei suprematisti liberaloidi; i due ricercatori denunciano come in alcuni ambienti accademici USA prevalga spesso una certa ingenuità: “Alcuni studiosi” sottolineano “sostengono che il pericolo sarebbe gestibile se solo Washington evitasse di provocare Pechino. Altri” continuano “ricordano come la Cina non abbia più avviato una guerra di invasione da quella con il Vietnam del ‘79, che durò appena tre settimane”. “Ma tutta questa fiducia” ci mettono in guardia “riteniamo che sia pericolosamente mal riposta”. I due ricercatori ci ricordano come storici e scienziati politici abbiano individuato, in particolare, 4 fattori che determinano la propensione alle avventure belliche di un paese e “se si considerano questi quattro fattori” allertano “diventa chiaro che molte delle condizioni che un tempo hanno favorito un’ascesa pacifica, oggi potrebbero invece incoraggiare una discesa violenta”. Ah beh, certo, la famosa discesa cinese, un tracollo proprio. Si parte benissimo, diciamo, e si procede meglio: gli autori, infatti, sottolineano come “il fatto che Pechino si sia astenuta da grandi guerre – mentre gli Stati Uniti ne hanno combattute diverse – ha permesso ai funzionari cinesi di affermare che il loro Paese sta seguendo un percorso unico e pacifico verso il potere globale”. Cioè, pensa te quanto so’ manipolatori questi cinesi: al solo scopo di farci credere che sono pacifici e che non vogliono la guerra, per farci abbassare la guardia e coglierci di sorpresa effettivamente non fanno guerre. Geniale! Tipo la storia di Kubrik che aveva il compito di simulare per la NASA l’allunaggio, ma era così meticoloso che, per simularlo, è andato a girarlo direttamente sulla Luna; ma tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare e, da qui in poi, il fuffometro è tutto in crescendo.

Michael Beckley

Il primo dei famosi 4 fattori presi in considerazione, infatti, sono le contese territoriali coi vicini: in tutte le controversie, affermano i due ricercatori, “la Cina sta diventando sempre meno incline al compromesso e alla risoluzione pacifica di quanto non lo sia stata in passato, rendendo la politica estera un gioco a somma zero”. Eh già: i cinesi sono talmente aggressive che se dopo 50 anni che sostieni formalmente la politica di Una Sola Cina, per la prima volta nella storia approvi un pacchetto di aiuti militari diretti (come ha fatto in agosto Biden) contraddicendoti in maniera plateale, se la prendono pure, come se la prendono anche quando ti fai consegnare un’intera fetta di territorio filippino per metterci un’altra sfilata di missili puntati direttamente contro di loro. Eh, ma quanto so’ suscettibili però, eh? Si vede proprio che non fanno altro che cercare un pretesto per incazzarsi, un po’ come Putin che si lamenta dell’espansione della NATO contro le promesse che – come dicono i nostri amici analfoliberali‘ndo sta scritta sta promessa, eh? Metti il link!
Il secondo fattore preso in considerazione, comunque, è ancora meglio: “Le dittature personaliste” sostengono infatti gli autori “hanno più del doppio delle probabilità di scatenare guerre rispetto alle democrazie, e anche alle autocrazie, dove comunque il potere è detenuto in molte mani. I dittatori” infatti, continuano “iniziano più guerre, perché sono meno esposti ai costi del conflitto: negli ultimi 100 anni, i dittatori che hanno perso le guerre sono caduti dal potere solo il 30% delle volte”; precedenti particolarmente allarmanti, ovviamente, perché – manco a dirlo – “Xi ha trasformato la Cina in una dittatura personalista particolarmente incline a disastrosi errori di calcolo e guerre costose”. Insomma: la Cina, nonostante 1,5 miliardi di abitanti, la più grande potenza produttiva del pianeta e un partito con 100 milioni di iscritti sarebbe, in realtà, dominata da un uomo solo al comando che, senza nessun contro – potere e senza nessun bisogno di mediare con chicchessia, potrebbe tranquillamente svegliarsi la mattina e decidere di bombardare un paese a caso giusto per ammazzare un po’ la noia, e senza rischiare nulla manco in casa di sconfitta; d’altronde, mica so’ occidentali bianchi quelli. Je poi fa’ quello che te pare, mica se n’accorgono: ed è esattamente quello che fa Xi il sadico, dai “brutali lockdown anti – covid ai campi di concentramento in Xinjiang”. Dal vademecum delle puttanate sinofobe degli analfoliberali manca giusto la carne di cane. Tutte “forme di aggressione interna” sostengono gli autori, che “dovrebbero renderci molto nervosi per l’aggressione esterna che potrebbe verificarsi”. Ovviamente, e fortunatamente, questa storia dell’uomo solo al comando è una barzelletta in ogni stato moderno con una certa complessità; figurarsi in un vero e proprio continente come la Cina dove i centri di potere – sia pubblici che privati – sono infiniti, dove ci sono aziende di Stato che sono Stati dentro lo Stato con fatturati che si avvicinano al PIL di interi paesi e dove vige un federalismo molto spinto, con le singole regioni che gestiscono direttamente una fetta enorme delle loro entrate fiscali che autonomia differenziata scansate proprio. Ma questi sono tutti distinguo da professoroni che non possono intralciare i deliri del pragmatismo guerrafondaio di un vero cowboy che si rispetti. Purtroppo, comunque, la lista dei fattori che fanno suonare l’allarme rosso nei confronti della Cina non è ancora finita.
E il terzo fattore, tutto sommato, ha anche un che di ragionevole: “L’equilibrio militare in Asia” ricordano infatti gli autori “si sta modificando in modi che potrebbero rendere Pechino pericolosamente ottimista sull’esito della guerra”. Oh, lo vedi? Anche due propagandisti suprematisti, dai e dai qualcosa di sensato riescono a dirlo: avranno realizzato che mentre prendi gli schiaffi in Ucraina e mentre sei diventato incredibilmente vulnerabile anche in Medio Oriente – che fino a ieri trattavi come terra di scorribande senza rischiare nessuna ritorsione – che tu possa reggere un terzo fronte nel Pacifico non è molto credibile. Macché; con un virtuosismo da manuale, dopo poche righe ecco che ribaltano di nuovo completamente la frittata: “Un punto di vista” affermano così a caso, senza senso, a un certo punto – infatti “è che la guerra della Russia in Ucraina renda meno probabili altre guerre di aggressione”. Il fatto sarebbe, sostengono gli autori, che questa guerra dimostrerebbe “quanto le guerre di aggressione possono ritorcersi contro” e così “dall’indecente furto di terre da parte di Putin” continuano “la Cina sta imparando lezioni importanti”. Tipo? Secondo gli autori, Pechino starebbe imparando:
UNO: “quanto possa essere difficile la conquista contro un difensore impegnato”;
DUE: “quanto le forze armate autocratiche possano sottoperformare in combattimento”;
TRE: “quanto sia abile l’intelligence statunitense nell’individuare piani di predazione” e
QUATTRO: “quanto duramente il mondo democratico possa penalizzare i paesi che sfidano le norme dell’ordine liberale”.

Hal Brands

Cioè, dopo due anni pieni di schiaffi a due mani dati con nonchalance dalla Russia a tutta la NATO messa insieme nella guerra per procura in Ucraina, questi vogliono trarre insegnamenti su come affrontare la Cina partendo dal presupposto che l’Ucraina ha vinto la guerra: bene, ma non benissimo, diciamo. Ma soprattutto, qui oltre a un’overdose di pensiero magico, non si capisce proprio manco la logica: cioè, da un lato dici che la Cina potrebbe essere spinta a gettare il cuore oltre l’ostacolo dal fatto che i rapporti di forza sembrano avvantaggiarla un po’ e poi, nel periodo dopo, dici che dalla guerra in Ucraina dovrebbero aver imparato che quando un uomo con gli occhi a mandorla si trova di fronte a un marine, l’uomo con gli occhi a mandorla è un uomo morto. Prodigi dell’analfoliberalismo suprematista.
Ma la vera chicca arriva alla fine: “Le grandi potenze” scrivono infatti i nostri due autori “diventano bellicose quando temono il futuro declino”. Dai, dai che dicono una roba sensata! Quando “la concorrenza geopolitica si fa feroce e spietata” continuano “le nazioni difendono nervosamente la loro ricchezza relativa e il loro potere”; “pesantemente armata, ma sempre più ansiosa” insistono “una grande potenza sull’orlo del declino sarà ansiosa, persino disperata, e tenderà a respingere le tendenze sfavorevoli con ogni mezzo necessario”. Oh, ecco: finalmente parlano della sindrome da declino degli USA. Bravi! Ah, no? Cioè, quando dicono potenza in declino pesantemente armata in preda al panico non si riferiscono a Washington? Eh, voi pensavate ci fosse una soglia minima di dignità anche per gli accademici suprematisti, eh? Macché; qui siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro: secondo gli autori, gli esempi di queste forze in declino in preda alla disperazione sarebbero, infatti, nientepopodimeno che “la Germania nazista, l’impero giapponese e la Russia di Putin”. Ora, si può buttare a ridere – che ridere non fa mai male, ma (Imprecazioni, ndr), questi insegnano in università con rette da 100 mila euro l’anno e non pubblicano sul Foglio o fanno le dirette sul canale di Ivan Grieco, ma pubblicano articoli sulla più autorevole rivista di politica internazionale del pianeta e affermano serenamente che quando la Germania nazista è entrata in guerra era una potenza in declino, e pure il Giappone: cioè, due paesi all’apice della loro potenza politica, economica e militare dichiarano guerra al resto del mondo per conquistarlo e assoggettarlo, e secondo loro sono potenze in declino. Cioè, ci si può anche ridere, ma quando l’intera élite intellettuale di un paese che, da solo, spende in armi più di tutti gli altri messi insieme non capisce un cazzo a questi livelli, non so quanto ci sia da ridere ecco, soprattutto quando dalla storia passano all’attualità: “Man mano che le prospettive militari a breve termine della Cina migliorano” scrivono infatti i ricercatori “le sue prospettive economiche a lungo termine si stanno oscurando” e questa, sottolineano “è una combinazione che in passato, spesso, ha reso le potenze revisioniste più violente”.
Un’analisi completamente scollegata dalla realtà ed estremamente pericolosa perché da questo punto di vista – dal momento che, senza nessuna motivazione plausibile, pensi che la Cina sia in declino – non solo crei allarmismo ingiustificato perché, appunto, sostieni che le rimane solo da lanciare una guerra disperata, ma ti fai anche un viaggio totalmente strampalato su cosa dovresti fare per ridurre i rischi, un trip delirante che, infatti, arriva subito: “I requisiti per frustrare l’ottimismo della Cina sull’esito di un’eventuale guerra” sostengono i due autori “sono abbastanza semplici”; si comincia con “una Taiwan irta di missili antinave, mine marine, difese aeree mobili e altre capacità economiche ma letali”, si prosegue poi con un bel “esercito americano in grado di utilizzare droni, sottomarini, aerei furtivi e quantità prodigiose di capacità di attacco a lungo raggio per portare una potenza di fuoco decisiva nel Pacifico occidentale”, si passa poi a “accordi con alleati e partner che danno alle forze statunitensi l’accesso a più basi nella regione e minacciano di coinvolgere altri paesi nella lotta contro Pechino” e si finisce con “una coalizione globale di paesi che può colpire l’economia cinese con sanzioni e soffocare il suo commercio transoceanico”. “Washington e i suoi amici” ammettono gli autori “stanno già portando avanti ognuna di queste iniziative. Ma” lamentano “non si stanno muovendo con la velocità, le risorse o l’urgenza necessarie per superare la minaccia militare cinese in rapida maturazione”. Insomma: partendo da un’analisi storica completamente strampalata e da un’analisi economica che non sta né in cielo né in terra, i nostri autori arrivano alle considerazioni di un Edward Luttwack qualsiasi: sono selvaggi, bombardiamoli; almeno Luttwack, però, per dire ‘ste cose mica studia. Passa da un buffet all’altro: se devi dire solo puttanate, almeno goditela, diciamo; imparate da Zio Silvio così almeno, quando – a questo giro – i vostri deliri si paleseranno per le gigantesche cazzate che sono, potrete dire che almeno ve la siete spassata.

Edward Luttwak (quasi)

Sfortunatamente per i nostri due autori, l’idea strampalata del declino economico cinese non poteva arrivare in un momento meno adatto; due giorni fa, infatti, il Fondo Monetario Internazionale – che non è esattamente un braccio della propaganda di Pechino – ha ribadito, numeri alla mano, l’ovvio che ormai sfugge solo a Rampini e a Scacciavillani: “Anche quest’anno” ha affermato Steven Barnett al China Daily “la Cina offrirà il contributo di gran lunga maggiore alla crescita globale con oltre un quarto della crescita stessa” e fino a qui, diciamo – a parte chi legge Rampini – lo sapevamo. La cosa importante, invece, è che sempre il Fondo Monetario sottolinei quanto questo risultato sia straordinario e dimostri tutta la resilienza dell’economia cinese, dal momento che avviene non solo mentre la crescita globale va a rilento – e quindi la situazione economica generale non è delle migliori – ma, in particolare, mentre due degli elementi fondamentali dell’economia cinese sono in profonda crisi: il mercato immobiliare e l’export. Non è un risultato da poco: la Cina, in 30 anni, si è trasformata da un paese agricolo fatto di contadini che vivono in campagna, in una potenza industriale fatta di operai che vivono nelle città: questo, che è in assoluto e di gran lunga il più grande processo di urbanizzazione della storia dell’umanità – e che ho descritto in dettaglio nel mio CEMENTO ROSSO, il secolo cinese, mattone dopo mattone (che, per inciso, è il primo e unico mio libro, visto il clamoroso fallimento editoriale) – ha rappresentato, ovviamente, una componente gigantesca del miracolo economico cinese; ora quella spinta propulsiva è arrivata al capolinea, e alla crescita cinese manca un tassello enorme. Molte altre economie sono andate gambe all’aria per molto, ma molto meno: la Cina, invece, è continuata a crescere anche quest’anno del 5,2% e, secondo l’IMF, anche il prossimo anno – di poco meno, e senza mettere in campo chissà che incentivi, eh? Al contrario del 2008 – e al contrario degli USA, infatti – la Cina, a questo giro, ha deciso di non schiacciare troppo sull’acceleratore degli interventi anticiclici finanziati a debito, ma quello che ha ancora più del miracoloso è che tutto questo avveniva mentre anche la seconda componente storica del miracolo cinese subiva una contrazione piuttosto significativa: parliamo delle esportazioni, che hanno subito una battuta d’arresto non solo e non tanto per la guerra commerciale combattuta a suon di retorica su decoupling e reshoring – che è più fuffa propagandistica che altro – ma soprattutto perché, appunto, i mercati più ricchi dove i cinesi vendevano un sacco di roba (a partire dall’eurozona) sono tutti più o meno in recessione a parte gli USA, dove però la crescita è tutta a debito ed è dovuta agli investimenti privati sostenuti dai soldi pubblici. Insomma: per essere in declino non male, diciamo; per 30 anni fondi il tuo miracolo su due gambe, fai un incidente, te le tronchi tutte e due eppure cominci ad andare in meta. Non so quante volte sia successo in passato, sinceramente; come sia possibile, l’ha spiegato in modo piuttosto convincente in un recente articolo Richard Baldwin, professore di Economia Internazionale alla Business School di Losanna – come l’IMF, non esattamente una bimba di Xi, diciamo – ma a differenza di Rampini e dei due prof di Foreign Policy, evidentemente, manco uno che vive in un mondo parallelo tutto suo. “Non sono un esperto di Cina” esordisce Baldwin “ma durante il lavoro in corso sulle interruzioni della catena di approvvigionamento globale, non ho potuto fare a meno di riflettere su un fatto evidente che però non credo sia così ampiamente noto come dovrebbe essere: la Cina oggi è l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”. Baldwin sottolinea, infatti, come la Cina rappresenti oggi una quota di produzione manifatturiera superiore alla somma dei successivi 10 paesi, dagli Stati Uniti al Giappone, per arrivare al Regno Unito, una cosa mai vista e che, sottolinea Baldwin, è avvenuta con una rapidità senza precedenti: “L’ultima volta che il re della collina manifatturiera è stato spodestato dal trono” scrive Baldwin “è stato quando gli Stati Uniti hanno superato il Regno Unito poco prima della Prima Guerra Mondiale. Un passaggio di consegne che è durato poco meno di un secolo. Il passaggio tra Cina e Stati Uniti invece ha richiesto meno di 20 anni. L’industrializzazione della Cina, in breve” conclude Baldwin “non può essere paragonata a nessun altro evento del passato”.

Richard Baldwin

Contro questa ascesa impetuosa e inarrestabile, agli USA non rimane che buttarla tutta in un altro settore dove invece la superpotenza, almeno sulla carta, continuano a essere indiscutibilmente loro; esattamente come la Cina nella produzione di cose che rendono la nostra vita migliore, gli USA – infatti – primeggiano in cose che la nostra vita la annientano del tutto: la spesa militare di Washington è superiore alla somma delle spese militari dei 10 paesi successivi. La strada, quindi, sembra segnata: la Cina produce e ha bisogno di pace e di sicurezza nelle rotte commerciali per vendere, gli USA son buoni solo a spendere quattrini in armi di ogni genere e per arrestare il loro inarrestabile declino non hanno opzione migliore che scatenare la guerra. In realtà, però, Baldwin sottolinea due aspetti che complicano ulteriormente il quadro: il primo si chiama GGR, Gross Globalisation Ratio, che sta per rapporto lordo di globalizzazione ed è un indice che rappresenta la quota di produzione manifatturiera venduta all’estero; a differenza del PIL manifatturiero, che indica soltanto le vendite di beni finiti, include tutte le vendite di tutti i produttori presenti in Cina. “Durante la sua ascesa allo status di superpotenza manifatturiera” scrive Baldwin “il GGR della Cina è aumentato vertiginosamente, quasi raddoppiando”: tradotto, la Cina è diventata enormemente più dipendente dalle esportazioni ma, a differenza di quanto generalmente si pensi, questa impennata in realtà è sostanzialmente tutta concentrata tra il 1999 e il 2004; “quel periodo” sottolinea Baldwin, effettivamente “ha rappresentato lo straordinario effetto della globalizzazione, ed è probabilmente il motivo per cui così tanti pensano alla Cina come a un’economia incredibilmente dipendente dalle esportazioni”. “Ma la storia” continua Baldwin “non è finita nel 2004. Da allora infatti il GGR cinese è in costante calo. E nel 2020 è ritornato ai livelli del 1995”. Cosa significa? Molto semplicemente che “la produzione cinese non è più dipendente dalle esportazioni come molti potrebbero credere” e questo, continua Baldwin “sfata il mito secondo cui il successo della Cina può essere interamente attribuito alle esportazioni. A partire dal 2004 circa, piuttosto, la Cina è diventata sempre più il miglior cliente di se stessa”; tradotto: continuare a sperare che la Cina continui ad accettare ogni sorta di ritorsione commerciale da parte di chi non è in grado di competere sul piano produttivo perché è troppo dipendente dai nostri mercati e senza la domanda delle nostre economia decotte crollerebbe da un momento all’altro, potrebbe rivelarsi – e in parte si è già rivelato – puro wishful thinking. E non è tutto perché nel frattempo, invece, la dipendenza degli USA dai prodotti cinesi – compresi i semilavorati e tutta la componentistica – non ha fatto che aumentare a dismisura, mentre quella cinese nei confronti dei prodotti USA è leggermente, ma costantemente, diminuita. Insomma: “Nel suo documento di ricerca” scrive il sempre ottimo Ben Norton “Baldwin dimostra che gli USA sono molto più dipendenti dall’acquisto di manufatti cinesi di quanto la Cina dipenda dal mercato statunitense per vendere i propri prodotti”; “I politici che indulgono in chiacchiere sul disaccoppiamento dalla Cina” conclude Baldwin “avrebbero probabilmente bisogno di valutare con un po’ più di lucidità questi fatti oggettivi: il disaccoppiamento sarebbe difficile, lento, costoso e distruttivo, soprattutto per i produttori del G7”.
Insomma: per mesi si è parlato di quanto la Cina fosse ormai in una profonda crisi economica e di come, sostanzialmente, la tenevamo per le palle perché più era in crisi e più aveva bisogno dei nostri ricchi mercati per le sue merci; oggi scopriamo che non c’è nessuna crisi e che abbiamo più bisogno noi della Cina che lei di noi e che, anche a questo giro, andando dietro alla retorica bellicista USA non facciamo altro che darci l’ennesima martellata sui coglioni. Forse, e dico forse, avremmo bisogno di un media che non ci racconta fregnacce per convincerci a darci altre martellate sui coglioni; forse, e dico forse, avremmo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

SCOOP DEL CORRIERE: gli USA hanno fregato Berlino che ha fregato l’Italia

Fermi tutti! Fermi tutti che qui c’abbiamo lo scooppone: il Corriere della serva s’è accorto che gli USA si sono mangiati l’economia europea e che il resto dell’Europa s’è mangiato quella italiana. “Redditi” – titola – “così l’America ha doppiato l’Italia: i trent’anni di declino e i silenzi della politica”: eh, invece il Corriere della serva in questi 30 anni ha fatto proprio una guerra senza frontiere al declino, di sicuro. In particolare, poi, l’autore dell’articolo in prima persona, Federico Fubini: proprio un’avanguardia patriottica che, negli anni, si è immolato contro il furto delle burocrazie di Bruxelles e delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce, non c’è che dire. I numeri che riporta Fubini – che evidentemente ha cominciato a seguire Ottolina Tv – sono una piccola selezione dalla mole di dati che, da oltre un anno, vi riproponiamo fino all’orchite e che da sempre ci chiediamo come sia possibile che non campeggino un giorno sì e l’altro pure sulle prime pagine dei giornali di tutto il vecchio continente, e ci siamo pure dati una risposta: quei giornali sono di proprietà delle stesse identiche persone, famiglie e gruppi di potere responsabili di quei numeri; che non siano disposte a pagare di tasca loro per pubblicizzarli mi sembra proprio il minimo sindacale. Che, con qualche anno di ritardo, finalmente Fubini ne parli quindi è un po’ un mezzo avvenimento storico; peccato che la questione sia relegata alla sua newsletter e non sia stata ritenuta abbastanza rilevante da essere promossa alla carta stampata, ma accontentiamoci.

Federico Fubini

Ma cosa dicono esattamente questi dati riportati da Fubini? Primo dato: in dollari correnti, nel 1996 il prodotto interno lordo dei paesi che costituiscono l’Europa a 27 e quello degli USA “erano di dimensioni uguali: entrambe a circa ottomila miliardi di prodotto lordo. E adesso? Malgrado la forte crescita dei Paesi emergenti dell’Europa centro-orientale, nel 2022 l’economia americana era del 52% più grande di quella dell’Unione europea, uno scarto di quasi diecimila miliardi di dollari che nel 2023 non ha fatto che allargarsi ancora”; una roba gigantesca, da far ribaltare i tavoli, eppure nessuno ribalta niente. Sarà perché ‘sto PIL è un po’ una misura astratta: che vorrà dì? Boh. E allora ecco il secondo numero, più immediato: “All’inizio della globalizzazione, nel 1980” riporta Fubini “il prodotto interno lordo per abitante negli Stati Uniti era paragonabile a quello medio dell’Unione europea a 27 Paesi”; l’anno scorso, “il reddito medio per abitante negli Stati Uniti è stato di 76.300 dollari correnti, quello medio nell’Unione europea di 37.400 dollari correnti: meno della metà”, ma non è ancora finita perché c’è Europa ed Europa – o almeno c’era – e “la quota dell’economia italiana in quella dei 27 Paesi dell’attuale Unione europea è crollata del 26% fra il 1995 e il 2023: dal 17,2% al 12,7%”.
Sono le due dinamiche fondamentali che abbiamo già descritto millemila volte: gli USA che consolidano il loro primato come centro di accumulazione capitalistica del Nord globale, e nella periferia europea i capitali più forti dell’Europa settentrionale che si pappano quelli della periferia della periferia, a partire dal nostro; il tutto con la complicità delle nostre élite economiche, che accettano di buon cuore di vedersi devastare l’economia nazionale davanti agli occhi in cambio della possibilità di esportare i profitti che continuano a estorcere a lavoratori, sempre più ipersfruttati, per andarli a impiegare nello schema Ponzi delle bolle speculative USA dopo averli sottratti al fisco attraverso i paradisi fiscali. Risultato? Come sottolinea Fubini “l’Italia dallo status di Paese avanzato” è passata “al rango di un Paese a reddito medio”; niente di cervellotico e di astratto quindi, ma un declassamento molto concreto non solo del nostro posto nel mondo, ma proprio molto direttamente del nostro tenore di vita, mentre una manciata di oligarchi continuava ad arricchirsi e, con quei soldi, ci si comprava pure i giornali e i mezzi di produzione del consenso che ancora oggi garantiscono buoni stipendi ai Fubini di turno in cambio dell’omertà. Lo ha ammesso qualche anno fa Fubini stesso: “Faccio una confessione” dichiarava ai microfoni di TV2000 nell’ormai lontano 2019: “c’è un articolo che non ho voluto scrivere. Guardando i dati della mortalità infantile in Grecia” continuava Fubini “mi sono accorto che con la crisi sono morti 700 bambini in più di quanti ne sarebbero morti se la mortalità fosse rimasta quella di prima della crisi”; ciononostante, argomentava Fubini, “ho deciso di non scrivere perché il dibattito in Italia è avvelenato da antieruopei pronti a usare qualsiasi materiale come una clava contro l’Europa e quello che rappresenta, cioè la democrazia fondata sulle istituzioni e sulle regole” che, tra l’altro, conferma esattamente la definizione che dà il nostro guru Michael Hudson su cosa intenda davvero la propaganda suprematista quando parla di democrazia vs autoritarismo, dove autoritario sarebbe qualsiasi stato abbastanza forte da impedire alle oligarchie di dettare legge e democratico, invece, qualsiasi stato dove le oligarchie fanno allegramente quel cazzo che gli pare.

Michael Hudson

Ma la domanda allora è: perché Fubini, dopo 30 anni passati a cantare le lodi delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista a guida USA da un lato e dell’austerity ordoliberista di Bruxelles dall’altro, fuori tempo massimo si decide oggi a suonare questo campanellino d’allarme? Una prima risposta è molto simile a quella del 2019, e ce la dà lo stesso Fubini: è tutto merito della Meloni. Fubini, infatti, è indignato perché in 190 minuti di conferenza stampa di inizio anno la nostra Giorgia lamadrecristiana non ha trovato il tempo di snocciolare nessuno di questi numeri, “come se gli italiani non avessero bisogno di una scossa, di un incoraggiamento, di sentire che a Roma c’è qualcuno che cerca di ridare energia al paese”. Non è uno scherzo, eh? Dopo 30 anni, la principale firma sui temi economici del più autorevole quotidiano della borghesia italiana si accorge di come l’Italia sia stata ridotta scientificamente a un paese del secondo mondo, e la ricetta che propone è “ridare energia al paese”; un po’ come la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni che contro la crisi demografica ha detto che la soluzione è far diventare la maternità cool again.
Ora, al di là della imperdibile occasione per perculare un po’ Fubini – che sembra stato creato da madre natura apposta – e anche per metterci al petto la medaglietta di avervi bombardato con numeri che il mainstream ha realizzato con anni di ritardo, visto che è appena iniziato il nuovo anno io in questo episodio voglio provare a vederci anche una piccola luce in fondo al tunnel: oltre 15 anni fa scoppiava quella che la propaganda ci ha voluto spacciare come una crisi finanziaria e che invece, per citare Vijay Prashad, era nientepopodimeno che la Terza Grande Depressione del capitalismo globale; la risposta è stata un furto sistematico dall’alto verso il basso, con le borghesie nazionali più forti che si pappavano le più deboli e tutte insieme che si ingroppavano felicemente chi campa del suo lavoro. Purtroppo – e non a caso – tutto questo è avvenuto all’apice dell’egemonia culturale e ideologica del neoliberismo: avete presente, no? “There is no alternative”, non c’è alternativa. E’ inutile proprio anche porsele certe domande, anche perché, al di là delle chiacchiere, a sostenere questo processo – armi alla mano – c’è la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità. Meglio non fare troppo i furbetti, e poi – certo – questa ristrutturazione capitalistica sarà dolorosa, ma una volta somministrata la cura vedrete che l’economia tornerà a crescere.
Certo, come no: negli ultimi anni è diventato palese che la superpotenza militare USA proprio super non è, e che di tornare a crescita dopo la cura lacrime e sangue non c’è verso; anzi, gli USA tentano di scaricarci sul groppone i costi delle loro avventure imperiali e, nel frattempo, mettono in campo politiche protezionistiche come non se ne erano mai viste e ci fregano pure quel poco che rimane attirando negli USA, a suon di incentivi fiscali, quel poco che le nostre borghesie erano ancora disposte ad investire. Non è che, magari, anche tra le oligarchie compradore europee e, a cascata, anche tra i loro mezzi di produzione del consenso comincia a fare breccia una qualche forma di ripensamento? E non è quindi arrivato il tempo di mettere in campo una proposta politica seria, realistica, di massa, in grado di approfittare di queste crepe che si stanno creando nel fronte che tiene unito imperialismo USA e élite cooptate attraverso l’opportunità di fare parte del loro schema Ponzi? Non è che quella profezia che si autoavvera del “There is no alternative” sta arrivando al capolinea?
E’ arrivata l’ora di tornare a giocare le partite che contano: per farlo, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che sia in grado di farci uscire dalle conventicole e di ridare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Fubini

Nuova Via della Seta: successo o fallimento?

La Nuova Via della Seta è presentata da Pechino come un avanzamento nel processo della globalizzazione. “La globalizzazione non può essere arrestata, ma deve essere aggiustata, nella forma e nella sostanza”, scrive Pechino nel Libro Bianco sulla Nuova Via della Seta. Ma questa iniziativa cinese è davvero una “aggiusta globalizzazione”, o è solo l’inizio di una globalizzazione a guida cinese che alla fine dei finali sarà del tutto identica alla globalizzazione a guida americana? Ne parliamo in questo video!