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Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Il delirio degli svendipatria: se il Governo dei Finto-Sovranisti Svende l’Italia agli Oligarchi

Cosa si può vendere per tornare a crescere”

No, giuro. Non è la provocazione di qualche mattacchione. E’ proprio la citazione testuale di un titolo vero di giornale, e non su un giornaletto della parrocchia ma su Libero, che magari vi farà pure ridere ma non dovrebbe: per quanto sia imbarazzante, rimane comunque una delle testate di riferimento della maggioranza di governo che, mentre voi ridete, ha messo il turbo per l’ennesima ondata di svendite a tutto tondo dei gioielli di famiglia alle solite vecchie oligarchie finanziarie che, negli ultimi decenni, ci hanno ridotto in miseria.

La guerra senza frontiere che gli USA, con la complicità delle istituzioni europee al servizio delle sue oligarchie, hanno ingaggiato contro l’economia del vecchio continente, sta dando i suoi frutti: recessione, corsa al rialzo dei tassi di interesse e politiche monetarie ultra-restrittive delle banche centrali, indipendenti dai Governi, ma succubi delle oligarchie finanziarie, stanno facendo saltare tutti i conti. A breve l’Italia dovrà rifinanziare qualcosa come poco meno di centocinquanta miliardi di debito e a comprarlo non ci sarà più la BCE; gli acquirenti ce li dovremmo andare a trovare sul mercato, che è il nome di fantasia che la propaganda neoliberista ha dato a quel manipolo di oligarchi che determinano da soli e senza che nessuno abbia la volontà di mettergli dei paletti, l’andamento dell’intera economia del nord globale.

Per convincerli, li dovremo riempire di quattrini: circa il 5% di interessi, se tutto va bene. Dieci volte quello che pagavamo alla BCE. Le oligarchie, così, si intascheranno tutto quello che abbiamo risparmiato, smantellando senza ritegno lo stato sociale che però – almeno questo è quello che cercano di spacciarci – non è abbastanza e quindi, per far finta di provare a tenere i conti in ordine, dovremmo accollarci un’altra bella overdose di sacrifici che toccheranno soltanto a noi.

I multimiliardari, infatti, è meglio lasciarli perdere, visto che abbiamo passato gli ultimi 30 anni a cucirgli addosso leggi ad hoc che gli permettono, appena anche solo si comincia a parlare di tasse e di redistribuzione, di portare i capitali dove meglio credono senza mai pagare dazio. Ed ecco quindi che per fare cassa, la maggioranza che è andata al governo grazie alla retorica sulla patria e il sovranismo, la patria si prepara a svenderla a prezzi di saldo, quasi fosse un Giuliano Amato qualsiasi, e per giustificarsi ha avviato una campagna ideologica a suon di pensiero magico e fake news che in confronto il maccartismo era un onesto e genuino tentativo di ricercare la verità.

Davvero vogliamo permettergli di svendere quel poco che ci rimane senza battere ciglio?

In tempi di vacche magre, per far quadrare i conti, bisogna tagliare le spese e mettere mano ai risparmi. lo sanno bene padri e madri di famiglia”. Fortunatamente, adesso, lo ha imparato anche il governo, che finalmente si è posto l’obiettivo “di portare in cassa la bellezza di una ventina di miliardi per puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità”.

Sembra il temino di un alunno un po’ zuccone per la prima verifica di economia della terza superiore verso metà degli anni ‘90, quando la nuova moda della religione neoliberista dominava incontrastata e in Italia ancora si faceva fatica a prevedere i disastri epocali che avrebbe causato, e invece è l’incipit di un articolone a tutta pagina di Libero di ieri; lo firma un tale Antonio Castro, che fortunatamente non avevo mai sentito nominare. Googlando, si trova questo: “Antonio Castro, cantante intrattenitore per eventi musicali”, il che giustificherebbe tutto.

E invece no: spulciando più a fondo, si scopre che è solo un omonimo, e che il nostro Castro invece non solo è un giornalista, ma addirittura il capo servizio economia di tutto il giornale.

E’ come se il direttore del centro Nazionale di metereologia e climatologia dell’aeronautica militare iniziasse un suo paper scrivendo che “non ci sono più le mezze stagioni”, o un direttore di un prestigioso dipartimento di antropologia scrivesse che “come tutti sanno, i neri hanno la musica nel sangue”.

L’equiparazione della politica economica di un Governo alla gestione di un bilancio familiare è la frontiera più estrema dell’analfabetismo economico che si è diffuso tra i ceti “intellettuali” in Italia, in particolare appunto a partire da fine anni ‘80; fino ad allora, nei paesi che hanno sconfitto da tempo l’analfabetismo di massa, nessuno si sarebbe azzardato ad affermare simili puttanate, e nei quarant’anni successivi, ovviamente, la realtà ha sistematicamente presentato il conto, smentendo in maniera plateale ogni singolo assunto derivante da queste leggende metropolitane inventate dagli oligarchi e diffuse dall’esercito dei loro utili idioti.

Come ormai sappiamo tutti benissimo, privatizzare e tirare la cinghia non aiuta in nessun modo a mettere in ordine i conti, ma finisce di devastarli; per mettere in ordine i conti, l’unico modo è far ripartire l’economia, e per far ripartire l’economia l’unico modo è aumentare quella che Keynes chiamava la domanda aggregata, e in particolare gli investimenti pubblici e i salari.

Ma allora perché è ripartita fuori tempo massimo questa campagna ideologica completamente campata in aria?

Semplice: come vi ripetiamo da mesi, costringere i paesi come il nostro, alla periferia dell’Europa e con i conti sempre in bilico, a svendere i gioielli di famiglia era la finalità ultima di buona parte delle assolutamente insensate scelte di politica economica perseguite negli ultimi anni senza distinzione da tutte le forze politiche, finti patrioti in testa. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso: tra i gioielli di famiglia da svendere agli oligarchi, quei fini intellettuali di Libero in particolare ne hanno individuati due: la RAI e le Ferrovie. Non fa una piega. La privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito da decenni è il caso scuola probabilmente in assoluto più eclatante di come la privatizzazione dei monopoli naturali sia sempre, immancabilmente, una vera e propria rapina effettuata dalle oligarchie contro tutto il resto della popolazione. “La RAI”, invece, sottolinea Libero, “può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti”; e giustamente, se le grandi società internazionali sono golose e vogliono concentrare ancora di più i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di oligarchi, chi siamo noi per impedirglielo?

Ma le aziende pubbliche strategiche sono solo una parte del pacchetto regalo che il governo degli svendipatria ha in serbo per le oligarchie finanziarie globali; c’è tutto un mondo di piccole e medie imprese da offrire in palio e anche qua ci siamo già portati un bel pezzo avanti.

Comprate e chiuse”, titola La Verità, “le aziende italiane in mano straniera. Negli ultimi 5 anni”, sottolinea l’articolo, “1000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale”. Le cifre ricordate dall’articolo, fanno letteralmente paura: negli ultimi 5 anni infatti, le aziende con sede in Italia ma con soci di maggioranza stranieri, sono aumentate di oltre il 25%, e oggi sono la maggioranza assoluta di quelle con oltre 250 dipendenti.

Per molte di queste”, sottolinea l’articolo, “il destino non è il rilancio, ma il saccheggio e poi la chiusura”; in particolare, dal momento che a fare shopping nella maggioranza dei casi non sono altri gruppi industriali, che cercano di raggiungere una maggiore efficienza attraverso l’integrazione e il raggiungimento di economie di scala. Afare shopping, il più delle volte, sono fondi speculativi e “la finanza”, sottolinea giustamente l’articolo, “è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona in termini di trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione dei dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni di lavoro”.

Gli esempi si sprecano: il più celebre, grazie alla cazzimma dei lavoratori coinvolti, è senz’altro quello della GKN di Campi Bisenzio, chiusa dal giorno alla notte dal fondo inglese Melrose, nonostante i conti in ordine e l’alto livello di competenza della manodopera. Stessa sorte per la Gianetti Ruote di Monza, caduta nella rete del fondo speculativo tedesco Quantum Capital Partner, che è salito alla ribalta delle cronache per aver licenziato in tronco tutti i dipendenti poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco dei licenziamenti introdotto durante la fase pandemica.

A febbraio scorso”, ricorda l’articolo de La Verità, “il tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280 mila euro agli ormai ex suoi lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento”. Negli ultimi giorni invece è scoppiato il caso della Magneti Marelli di Crevalcore: era stata venduta a un fondo dagli Agnelli nel 2018, ovviamente a seguito della solita buffonata della garanzia del mantenimento dei posti di lavoro in Italia. Per acquistare l’azienda, il fondo, come accade sostanzialmente sempre, si era indebitato e poi aveva scaricato questo debito sui conti dell’azienda, azzerando gli investimenti proprio quando la transizione ai motori elettrici li avrebbe resi più necessari. Ora ovviamente il fondo piange miseria a causa del calo di affari dovuto alla imprevedibile transizione energetica dai motori a combustione a quelli elettrici, e a pagare il prezzo sono i 229 lavoratori e l’economia italiana tutta. Quel fondo si chiama KKR, “la macchina dei soldi” come lo definiva già nel 1991 in un bellissimo libro la giornalista investigativa americana Sarah Bartlett.

Negli anni, KKR è diventato sinonimo in tutto il mondo di spregiudicate operazioni di acquisto a debito, o leverage buyout, in grado di riempire le tasche degli azionisti sulla pelle dei lavoratori e dei territori che vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza; ora, a breve KKR potrebbe diventare proprietario della rete di telecomunicazioni di TIM, con il pieno sostegno del governo.

Cosa mai potrebbe andare storto?

Ma l’aspetto ancora più paradossale è che, nel tempo, i governi che si sono succeduti su queste acquisizioni hanno cominciato a mettere il becco, ostacolandone alcune attraverso il famoso strumento del golden power. Peccato, l’abbiano fatto totalmente a sproposito: invece che opporsi agli acquisti predatori da parte dei fondi speculativi, infatti, si sono opposti ai pochi acquisti di natura veramente industriale, che invece che depredare il nostro tessuto produttivo, avrebbero potuto arricchirlo. Il motivo? A comprare, in quel caso, erano gruppi industriali cinesi, mentre i fondi speculativi battono tutti bandiere occidentali; amiamo così tanto i nostri alleati democratici che, pur di accordargli qualche privilegio, siamo disposti a sacrificare fino all’ultimo operaio.

Contro la ferocia predatoria dei prenditori della finanza, e contro le politiche suicide degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che sta dalla parte di chi la ricchezza la produce, e non di chi se ne appropria e la distrugge.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti.