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Il piano USA per sciogliere gli eserciti nazionali e fondare l’esercito unico dell’imperialismo

Come l’America si può preparare per la guerra in Asia, Europa e nel Medio Oriente: dopo tanto tergiversare, finalmente ci siamo. Con questo titolo, ieri, Foreign Affairs – che, ricordiamo, è la testa ufficiale del think tank neocon bipartisan in assoluto più influente degli USA – finalmente chiarisce il perimetro della partita in gioco: le guerre e i conflitti a cui stiamo assistendo sono pezzi dell’unica grande guerra che l’imperialismo ha dichiarato al resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare che metterebbe fine agli Stati Uniti per come li conosciamo oggi; “Sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e Joe Bidenscrive Thomas Mahnken della John Hopkins University, “la strategia di difesa degli Stati Uniti si è basata sull’idea ottimistica che gli Stati Uniti non avranno mai bisogno di combattere più di una guerra alla volta”. Mahnken ricorda con disprezzo la scelta dell’amministrazione Obama di ridurre, per la prima volta nella storia contemporanea degli USA, non solo la spesa militare in termini di percentuale del PIL, ma addirittura in termini assoluti: dai 730 miliardi annui del 2009 ai 640 scarsi del 2017, a fine mandato; questa riduzione, sottolinea Mahnken, equivaleva all’abbandono della politica di lungo periodo che prevedeva che gli USA dovessero essere pronti a combattere contemporaneamente due grandi guerre e questo, denuncia, “ha ristretto le opzioni a disposizione dei politici statunitensi, dato che impegnare gli Stati Uniti in una guerra in un luogo precluderebbe un’azione militare altrove”. Capito Obama, eh? Manco la libertà di combattere contro tutti ‘ndo cazzo je pare ha lasciato ai suoi successori: un vero despota. “Questo passaggio” si lamenta Mahnken “fu fuorviante già allora, ma è totalmente fuori luogo in particolare oggi” con gli USA che sono impegnati in una costosissima guerra per procura in Ucraina e nello sterminio dei bambini palestinesi proprio mentre si devono preparare alla Grande Guerra del Pacifico.

Thomas G. Mahnken

E non è che possono fare altrimenti: come ricorda Mahnken, infatti, questi 3 teatri “sono tutti vitali per gli interessi USA, e sono tutti intimamente interconnessi”. Mahnken sottolinea ancora come i tentativi passati di disimpegnarsi sia dall’Europa che dal Medio Oriente abbiano profondamente indebolito la sicurezza statunitense: “Il ritiro delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, ad esempio, ha creato un vuoto che Teheran ha riempito con entusiasmo” e ogni volta che una potenza regionale alza la cresta e gli USA tentennano nel portare a termine la loro missione divina di raderla al suolo, mandano un messaggio di debolezza al resto del mondo che mette a rischio la tenuta complessiva dell’impero; e già questa, sostiene Mahnken, dovrebbe essere di per se una linea rossa, dal momento che il mito dell’invincibilità militare USA – fondato sull’incommensurabilità della sua spesa con qualsiasi altra potenza del pianeta e sulla sua proiezione globale dovuta alle quasi 1000 basi sparse in giro per tutto il mondo, ma anche su quella gigantesca macchina di propaganda bellica che è Hollywood – è essenziale alla sopravvivenza stessa del feroce regime superimperialista che impongono a tutti gli altri e che oggi, per la prima volta, si trova di fronte ad avversari di tutto rispetto “che collaborano l’uno con l’altro: L’Iran vende petrolio alla Cina, la Cina invia denaro alla Corea del Nord e la Corea del Nord invia armi alla Russia”. Che, tutto sommato, come esempi di collaborazione non sono nemmeno sto granché, ma poco conta: come i padroni delle ferriere dell’800 – o come in qualsiasi film distopico su società post-apocalittiche rigidamente divise tra schiavi e schiavizzatori (modello Snowpiercer) – quando il sistema che imponi con la violenza è così palesemente e ferocemente ingiusto, ogni forma di collaborazione può essere sufficiente ad innescare l’incendio e va stroncata sul nascere, come ogni buona esperienza di repressione antisindacale insegna. La preoccupazione di Mahnken, quindi, è che il mito dell’invincibilità USA, già messo duramente alla prova dalla debacle siriana in poi, oggi sembra essere del tutto inadeguato ad affrontare con la sicurezza necessaria questi nuovi nemici, in particolare se in qualche modo coordinati tra loro; per dare nuovo slancio al mito dell’invincibilità, quindi, è necessario fare un salto di qualità sostanziale e questo salto di qualità può avvenire se e solo se la macchina bellica dell’imperialismo, invece che essere solo quella USA, può basarsi sempre di più su una rete di solide alleanze. La fortuna di Washington, sottolinea infatti Mahnken, è quella di avere buoni amici, sia nell’est asiatico, sia in Europa, sia in Medio Oriente, perché definirli vassalli (come essenzialmente sono) suona male, “ma per avere successo” insiste Mahnken, questi fantomatici amici “devono imparare a lavorare meglio insieme”: “Washington e i suoi alleati” continua Mahnken “devono essere ciò che i pianificatori militari chiamano interoperabili, capaci di inviare rapidamente risorse attraverso un sistema consolidato a qualunque alleato ne abbia più bisogno. L’Occidente, in particolare, deve creare e condividere più munizioni, armi e basi militari. Gli Stati Uniti devono inoltre formulare migliori strategie militari per combattere a fianco dei propri partner”. Insomma: come ripetiamo fino all’esaurimento da mesi, per combattere la guerra totale contro il resto del mondo c’è bisogno di una NATO globale, un esercito unitario al servizio dell’agenda imperialista; e se questa, ormai, è un’idea condivisa da tutte le varie fazioni, la declinazione che ne dà Mahnken in questo articolo appare particolarmente interessante per la sua spregiudicatezza.
Il primo punto, inevitabilmente, riguarda la produzione bellica: Mahnken sottolinea come i conflitti in cui siamo immersi e – ancora di più – quelli che ci aspettano, sono munitions-intensive, richiedono molte munizioni; per permettere alle aziende di aumentare la produzione allora, propone Mahnken, “Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fornire alle aziende della difesa il tipo di domanda costante necessaria” per garantire che gli investimenti avranno ritorni garantiti. In sostanza, quindi, il governo deve riuscire a convincere le oligarchie del comparto militare industriale che la guerra sarà sufficientemente lunga e devastante da garantire che per i loro prodotti ci sarà sempre domanda a sufficienza, ma non solo. Washington infatti, sostiene Mahnken, deve anche garantire che le munizioni potranno andare agilmente sempre laddove ce n’è più bisogno: oggi, infatti, i canali di approvvigionamento delle forze armate USA e degli alleati sono segregati, con le forniture interne controllate dal dipartimento di Stato e quelle altrui controllate dal dipartimento della Difesa (e con il primo che ha la precedenza sul secondo); i cosiddetti alleati quindi, denuncia Mahnken, “vengono generalmente messi in fondo alla coda, dove possono aspettare anni per ottenere armi che hanno già pagato e che potrebbero essere essenziali per scoraggiare attacchi imminenti”. Secondo Mahnken questa gerarchia va assolutamente superata: “Soddisfare le vendite di munizioni straniere prima di soddisfare le esigenze delle forze armate statunitensi” scrive “può sembrare dannoso per gli interessi americani […] ma consentire alle aziende della difesa di spedire a Taiwan o in Polonia prima di Fort Bragg quando necessario può migliorare la sicurezza degli Stati Uniti, soprattutto quando gli Stati Uniti non stanno combattendo guerre importanti”. E le munizioni sono solo la punta dell’iceberg: “Gli Stati Uniti” infatti, sottolinea Mahnken “hanno moltissime armi da vendere ai propri amici. Ma la riluttanza ad esportare tecnologie avanzate impedisce di fornire ai partner più stretti le migliori attrezzature disponibili. La politica statunitense” propone quindi Mahnken “dovrebbe garantire che i leader politici americani abbiano la possibilità di fornire tali sistemi avanzati agli alleati più stretti”.
Negli ultimi anni, in questo senso, gli USA effettivamente hanno già iniziato a rompere qualche tabù: ultimamente stanno completando un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di sistemi d’arma che, fino ad oggi, erano totalmente off limits, ma il caso più eclatante è quello degli accordi nell’ambito dell’AUKUS, che prevedono la condivisione nientepopodimeno che di tecnologia per i sottomarini nucleari con l’Australia. Ma non solo: grazie a questi accordi, Washington infatti ha dovuto prendere coscienza dei limiti della sua industria cantieristica, ha realizzato “che i produttori americani non sono abbastanza grandi o capaci per modernizzare la flotta sottomarina statunitense e al contempo costruire sottomarini per l’Australia” e questo ha spinto l’Australia “a investire 3 miliardi di dollari nell’espansione della base industriale sottomarina degli Stati Uniti”; questo tipo di condivisione totale, sostiene Mahnken, è l’unica strada che gli USA hanno per poter pensare di combattere contemporaneamente su tutti e tre i fronti della grande guerra globale contro il resto del mondo e ora si tratta di estendere a tutti gli alleati questa forma che più che di collaborazione, appunto, è di vera e propria integrazione totale a partire, come abbiamo sottolineato ennemila volte, dalla cantieristica giapponese e sud coreana, che sono l’unica chance che l’esercito unico dell’imperialismo ha di poter anche solo pensare di combattere ad armi pari con la Cina. “Israele” continua Mahnken “produce eccellenti sistemi di difesa aerea e missilistica, come l’Iron Dome, e la Norvegia mette in campo eccellenti missili antinave. Washington dovrebbe fare di più per incoraggiare questi alleati a condividere le proprie tecnologie di alto livello”; integrare queste capacità nazionali, ammette Mahnken, non sarà semplice: “L’industria della difesa” ricorda “è oggetto di politica interna, sia a Washington che nelle capitali alleate. Ecco perché, anche nelle aree in cui il Congresso ha cercato di promuovere la collaborazione, i funzionari della difesa si sono scontrati con ostacoli burocratici. Ci sono forti incentivi politici per mantenere intatte le barriere esistenti, a partire dalle preoccupazioni sui posti di lavoro nazionali, ma i funzionari statunitensi farebbero bene a resistere a tali pressioni ed eliminarle”.
Un discorso molto simile vale per le basi: gli Stati Uniti, ricorda Mahnken, “possiedono una rete globale senza precedenti di basi militari che gli ha permesso di proiettare il potere per oltre un secolo”; “Ma tutte queste basi”, sottolinea, “sono diventate sempre più vulnerabili, dal momento che gli avversari hanno acquisito la capacità di colpire con precisione su grandi distanze”. Per aumentare il livello di sicurezza dei propri asset militari, allora, USA e alleati devono aumentare a dismisura i posti a disposizione adeguatamente attrezzati dove dislocare liberamente truppe e mezzi: il Giappone ad esempio, sottolinea Mahnken, ha una quantità sterminata di location idonee per questo processo di dispersione, una quantità spropositata di “porti, aeroporti e strutture di supporto collegati alla rete stradale e ferroviaria giapponese”, ma secondo le regole attualmente in vigore, le forze armate giapponesi hanno accesso soltanto a una piccola frazione di queste location e gli USA, poverini, “ancora meno”. Questi vincoli, suggerisce Mahnken, devono essere rapidamente rimossi e altrettanto deve essere fatto urgentemente in Australia che, nella seconda guerra mondiale, si era dotata di una quantità sterminata di postazioni a disposizione della guerra USA contro il Giappone e che ora devono essere “rinnovate ed espanse” e, ovviamente, messe completamente a disposizione della NATO globale.
Insomma: l’idea è quella di avere una quantità di potenziali obiettivi superiore a quanti gli avversari possano realisticamente minacciare di attaccare con successo che, però, è una corsa piuttosto insensata, dal momento che se hai una base industriale sufficientemente sviluppata, è chiaramente più agile aggiungere un missile ipersonico al tuo arsenale che non costruire una nuova base; quindi in sostanza, com’è evidente, in un conflitto tra pari chi deve pensare a organizzarsi per disperdere la sua capacità offensiva rimarrà sempre un passo indietro rispetto a chi si limita a difendersi. Ed ecco allora che, oltre a moltiplicare le basi all’infinito, il punto è migliorare la capacità di difenderle; per farlo in modo efficace, le forze armate dell’imperialismo unitario “devono andare oltre l’approccio tradizionale alla difesa aerea e missilistica, che dipende dall’uso di un piccolo numero di intercettori costosi, verso uno che includa armi ad energia diretta (come laser o armi a impulsi elettromagnetici), un gran numero di intercettori a basso costo e sensori in grado di fornire le informazioni necessarie per sconfiggere attacchi grandi e complessi, come quello lanciato dall’Iran contro Israele in aprile” che, ricordiamo, è costato a chi s’è dovuto difendere circa 50 volte di più di quanto non sia costato a chi ha attaccato. “Australia, Giappone e Stati Uniti” ricorda Mahnken “hanno fatto progressi chiedendo lo sviluppo di un’architettura di difesa aerea e missilistica in rete per difendersi a vicenda”; ora, sottolinea Mahnken, si tratta di proseguire su questa strada anche perché, continua, a sua volta questo contribuirà all’interoperabilità complessiva, perché “addestrandosi e operando a stretto contatto tra loro in tempo di pace, le forze statunitensi e alleate svilupperanno abitudini di cooperazione che saranno loro utili in tempo di guerra”. Anche perché, insiste Mahnken, “interoperabilità significa molto di più che semplicemente condividere le risorse fisiche. Significa sviluppare concetti e strategie condivise. Washington deve avere conversazioni franche con i suoi alleati per contribuire a chiarire le ipotesi su obiettivi, strategia, ruoli e missioni e ottenere una migliore comprensione di come lavorare al meglio collettivamente. Gli Stati Uniti” conclude Mahnken “ovviamente non possono condividere tutto con i partner. Alcuni sistemi d’arma non dovrebbero mai essere condivisi. Ma la storia dimostra che gli americani ottengono risultati migliori quando combattono fianco a fianco con gli alleati. Mentre Washington si trova ad affrontare pericoli crescenti in tre regioni, deve imparare a cooperare e condividere meglio con i suoi numerosi amici”.
Insomma: Mahnken rappresenta al meglio la cultura dei figli dei fiori applicata al grande sterminio di massa che gli USA stanno preparando contro il resto del mondo per tenere in piedi il loro dominio planetario: vuole costruire una comune, solo che, invece che essere devota alla pace, deve essere devota alla distruzione totale; il messaggio sembra rivolto in particolare a chi, all’interno degli USA, continua a guardare con sospetto agli alleati temendo che i meccanismi di subordinazione finanziaria e tecnologica del superimperialismo, senza la minaccia della forza, da soli non bastino e che quindi condividere tecnologie, logistica e strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio e potrebbe permettere un domani agli alleati di ritagliarsi spazi di autonomia strategica finora preclusi. E’ uno dei grandi dilemmi che, evidentemente, attraversa l’establishment dell’impero: per vincere la grande guerra, l’imperialismo ha bisogno di un grande esercito e di un complesso militare industriale unitario, ma per costruire un grande esercito unitario gli USA devono accettare di passare da alleanze che dominavano con la forza, a un’integrazione totale nell’ambito della quale, sostanzialmente, tutto viene condiviso con tutti; affinché questo non gli si ritorca contro, deve essere sicura che l’equilibrio di potere che attualmente è in vigore nei paesi vassalli – dove il potere politico è completamente ostaggio di borghesie compradore al servizio del centro imperiale contro i rispettivi interessi nazionali – sia eterno. E la storia recente sembra dargli ragione: in particolare, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2007 e, ancora di più, dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, le classi dirigenti europee si sono dimostrate i peggiori nemici possibili dei rispettivi Paesi. Rimane però da capire quanto questo sia stato determinato, a sua volta, proprio dal fatto che i paesi europei sono disarmati e succubi della potenza militare USA o quanto, invece, siamo di fronte a una condivisione profonda degli obiettivi strategici del centro imperiale e, anche in tal caso, quanto questa condivisione possa essere messa in discussione dall’evoluzione del quadro politico.
Insomma: la grande guerra impone agli USA di correre dei rischi che, fino ad oggi, aveva evitato accuratamente impedendo ai vassalli di riarmarsi e tenendosi stretta il controllo tecnologico. Prima che restringano definitivamente i pochi spazi democratici che permettono – almeno in linea di principio – di modificare il quadro politico, sarebbe il caso di battere un colpo, almeno per far venire il sospetto che potrebbero aver sbagliato i calcoli; per farlo, in assenza di un’organizzazione politica all’altezza, il terreno di battaglia per eccellenza è proprio quello della battaglia contro-egemonica e per combatterla abbiamo bisogno di un media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Cina, Iran, Russia e Corea del Nord: per la NATO globale è guerra mondiale

“Quello che c’è di veramente eccessivo non è la capacità produttiva cinese, ma l’ansia degli Stati Uniti”: sono queste le parole che il direttore generale del Dipartimento per gli affari nordamericani del ministero degli esteri cinese ha selezionato con cura per riassumere i contenuti della tanto attesa visita di Blinken a Pechino, a poche settimane di distanza da quella del segretario del tesoro Janet Yellen. “Il vero problema” sottolinea Warwick Powell dell’Università del Queensland su Global Times “non è la sovracapacità cinese, ma la sottocapacità occidentale”; Warwick ricorda come i numeri oggettivi facciano un po’ a cazzotti con la narrazione sulla quale l’Occidente collettivo e la sua macchina propagandistica hanno deciso di investire tutte le loro energie: ad esempio, Warwick ricorda come le esportazioni rappresentino il 13% della produzione cinese, poco superiore all’11% che rappresentavano nel 1995 (6 anni prima che la Cina entrasse nel WTO) e di gran lunga inferiori al picco del 18% raggiunto nel 2004. “Questo significa” sottolinea Warwick “che il mercato interno ha assorbito la stragrande maggioranza della crescita della produzione”; “in confronto” insiste Warwick “i settori manifatturiero tedesco e giapponese sono significativamente più dipendenti dalle esportazioni”: nel caso dell’automotive, ad esempio, che è uno dei settori più chiacchierati del momento, Warwick ricorda come la Cina, nel 2023, abbia prodotto la bellezza di oltre 30 milioni di veicoli e ne abbia esportati in tutto meno di 5 milioni, cioè circa il 16%. Il Giappone, invece, è sì sceso al secondo gradino del podio degli esportatori in numeri assoluti, ma i 4,4 milioni di veicoli che ha esportato rappresentano il 63% della sua produzione totale; in Germania l’export pesa addirittura per il 75%.

Warwick Powell

Warwick ricorda anche come l’accusa di sovracapacità è poi regolarmente accompagnata dall’accusa sulla domanda interna cinese tenuta bassa; in realtà però, sottolinea Warwick, nel 2023 “Il reddito disponibile pro capite cinese è aumentato del 6,1% in termini reali rispetto all’anno precedente, ma nello stesso periodo i consumi sono aumentati del 9%”: quindi, a differenza del Giappone e della Germania, i redditi reali crescono rapidamente e la quota dedicata ai consumi ancora di più. Insomma: le potenze industriali ferocemente mercantiliste, il cui modello di sviluppo è incompatibile con uno sviluppo equilibrato (perché mantengono artificialmente bassi redditi e mercato interno per aggredire i mercati esteri) sono altre; eppure, sottolinea Warwick sarcasticamente, “Inspiegabilmente gli USA non si sono mai lamentati della sovracapacità tedesca o giapponese”. In questo caso, poi, la gigantesca fake news sulla sovracapacità cinese è doppiamente infame perché ha come obiettivo difendere i monopoli e le oligarchie delle ex potenze coloniali sulla pelle del Sud globale: gli sherpa dell’imperialismo, infatti, accusano i cinesi di praticare prezzi troppo bassi; ora, effettivamente, i prezzi cinesi sono decisamente competitivi. E graziarcazzo: la politica industriale cinese consiste in uno sforzo gigantesco per aumentare la produttività; la non politica industriale del giardino ordinato invece, al contrario, fino ad oggi è sempre consistita nella protezione dei monopoli privati e nella loro capacità di continuare a fare profitti e scappare col malloppo senza mai investire mezzo dollaro, un lasciapassare nei confronti dell’avidità delle big corporation che ha avuto un peso particolarmente rilevante proprio nella sviluppo delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica, anche perché – nel frattempo – evitando di investire si continuavano a riempire le casseforti degli amici petrolieri che continuano ad essere, ancora oggi, la lobby industriale di gran lunga più potente dell’Occidente.
I primi che hanno solo da guadagnare dalla capacità cinese di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica sono invece i paesi, appunto, del Sud globale, che avrebbero così la possibilità di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili a costi ragionevoli: come sottolinea Warwick “Le lamentele occidentali sono in effetti un tentativo di ostacolare l’opportunità per i paesi in via di sviluppo di accedere alle tecnologie di trasformazione a basso costo”; d’altronde, l’emancipazione dalle fonti fossili dei paesi del Sud globale per gli USA sarebbe un vero e proprio disastro. La trappola del debito nella quale l’imperialismo ha costretto il grosso dei paesi in via di sviluppo, infatti, è in gran parte dovuta proprio alla necessità di indebitarsi in dollari per importare fonti fossili e rappresenta uno degli strumenti strutturali di dominio neocoloniale più efficaci e inaggirabili: quindi, conclude Warwick, è abbastanza evidente che “Il problema non è la sovracapacità cinese, ma le potenze dominanti che vogliono mantenere il controllo su chi può svilupparsi e quando farlo”.
Di fronte a rivendicazioni così platealmente infondate da parte dell’impero, la Cina, ovviamente, non poteva che rispondere picche a Blinken (come aveva già risposto alla Yellen), mentre, nel frattempo, stendeva tappeti rossi alle big corporation che che vogliono continuare ad avere accesso a un mercato interno che, evidentemente, tanto depresso non deve essere; ma allora perché i massimi funzionari USA continuano a incaponirsi così tanto e fanno la fila per andare a raccogliere l’ennesimo inevitabile due di picche a Pechino? Il primo obiettivo è provare, in qualche modo, a disincentivare l’integrazione economica e la cooperazione militare e politica con gli altri paesi che si oppongono esplicitamente al vecchio ordine unipolare: Blinken, infatti, è andato a Pechino fondamentalmente per supplicarli di non correre più in aiuto di Mosca e lo spauracchio delle accuse infondate su fantomatiche pratiche commerciali scorrette è il deterrente che hanno messo sul piatto. La progressiva integrazione economica e politica dei paesi che vengono definiti revisionisti e che, cioè, mettono in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro e il meccanismo globale di sfruttamento su cui si fonda l’imperialismo, negli USA è diventata una vera e propria ossessione, anche perché si sono cominciati ad accorgere, negli ultimi due anni, di averla favorita.
Le nuove alleanze autocratiche era il titolo di un lungo articolo del mese scorso di Foreign Affairs. L’articolo ricordava come il sistema di alleanze messo insieme dagli USA non ha precedenti: “Nessuna rete di alleanze in tempo di pace è mai stata così ampia, duratura ed efficace come quella guidata da Washington dalla seconda guerra mondiale”; in mezzo a mille affermazioni apologetiche, l’articolo fa intravedere un barlume di veridicità quando ricorda come “Le alleanze statunitensi sono asimmetriche”, con Washington che “si è fatta carico a lungo di una quota ineguale del carico militare, per evitare uno scenario in cui paesi come la Germania o il Giappone potrebbero destabilizzare le loro regioni costruendo proprie capacità di difesa a tutto spettro”, che è un modo carino e sofisticato di dire che gli USA hanno imposto ai loro alleati asimmetrici – e, cioè, subordinati – di non riarmarsi, in modo da garantire a Washington il monopolio della forza all’interno dell’alleanza e, quindi, la capacità di piegarla ai suoi obiettivi strategici – tra l’altro, facendo pagare il tutto direttamente agli alleati grazie, appunto, all’esorbitante privilegio del dollaro che impone agli altri paesi di finanziare il debito USA col quale, a loro volta, finanziano la macchina bellica.
Ora, sottolinea giustamente l’articolo, l’alleanza che si sta affermando tra gli Stati canaglia dell’ordine internazionale neocoloniale creato a immagine e somiglianza degli interessi imperiali di Washington, giustamente non ha niente a che vedere con quella che l’articolo definisce la rete di alleanze degli USA e che noi, invece, definiamo l’internazionale imperialista: nel loro caso, infatti, non c’è un unico centro di dominio imperiale con i vassalli attorno, ma ci sono Stati nazione sovrani, ognuno con la sua agenda, ma anche se “I legami tra i revisionisti eurasiatici” e cioè, nello specifico, Cina, Russia, Iran e Corea del Nord “potrebbero non sembrare alleanze nel modo in cui gli americani le intendono solitamente, hanno comunque effetti simili”. La prima di queste funzioni che – letteralmente – terrorizza l’impero è che “Le alleanze revisioniste stanno rendendo le aggressioni meno costose, mitigando l’isolamento strategico che gli aggressori potrebbero altrimenti dover affrontare” che, scremato dalla neolingua della propaganda suprematista, in soldoni significa che gli stati sovrani possono oggi pensare di reagire ai soprusi dell’imperialismo senza crollare il giorno dopo perché l’impero ha imposto a tutto il resto del mondo di isolarli: “Nonostante le sanzioni occidentali e le orribili perdite militari” specifica l’articolo ad esempio “la Russia ha sostenuto la sua guerra in Ucraina grazie ai droni, ai proiettili e ai missili forniti da Teheran e Pyongyang. E l’economia del presidente russo Vladimir Putin è rimasta a galla perché la Cina ha assorbito le esportazioni russe e ha fornito a Mosca microchip e altri beni a duplice uso”. Queste capacità di sfuggire alle armi di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA sono anche dovute a un elemento prettamente geopolitico: questi paesi sono un pezzo rilevante del supercontinente eurasiatico, il che significa che il monopolio della forza per il controllo dei mari (che l’imperialismo USA ha ereditato dalle sue fondamenta talassocratiche), ammesso e non concesso che sia ancora valido, può essere facilmente aggirato.
D’altronde non è un caso se, da sempre, il primo obiettivo geostrategico USA è stato esattamente quello di impedire l’integrazione del supercontinente eurasiatico: provocando la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è riuscito a staccare, scaricando i costi sulle nostre spalle, la propaggine più occidentale, ma per il grosso del supercontinente – invece – non ha fatto che accelerare un processo di integrazione che, molto semplicemente, non ha gli strumenti concreti per ostacolare; e che l’accelerazione di questa integrazione sia dovuta, in buona parte, a una strategia fallimentare degli USA ormai lo denunciano in parecchi. Ne parla un altro articolo, sempre su Foreign Affairs: “Solo dieci anni fa” sottolinea “la maggior parte dei funzionari statunitensi ed europei erano sprezzanti riguardo alla durabilità del partenariato emergente tra Cina e Russia. Nelle capitali occidentali si pensava che l’ostentato riavvicinamento del Cremlino alla Cina dal 2014 fosse destinato a fallire e che non importava quanto intensamente il presidente russo Vladimir Putin tentasse di corteggiare la leadership cinese, la Cina avrebbe sempre privilegiato i suoi legami con gli Stati Uniti e i suoi alleati piuttosto rispetto alle sue relazioni simboliche con la Russia, mentre Mosca a sua volta si pensava temesse una Pechino in ascesa e avrebbe continuato a cercare un contrappeso in Occidente”, tutte riflessioni che, anche se con sfumature diverse, abbiamo fatto noi stessi più volte su questo canale; ma tutto “questo scetticismo non riesce a fare i conti con una realtà importante e triste: Cina e Russia sono oggi più saldamente allineate di quanto non lo siano mai state dagli anni ’50”. L’articolo ricorda come, nel 2022, il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto del 36% raggiungendo i 190 miliardi di dollari, più dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania; e nel 2023 è cresciuto di un altro 25% abbondante, sfondando quota 240 miliardi. Secondo Foreign Affairs, addirittura “Il consolidamento di questo allineamento tra Russia e Cina è uno dei risultati geopolitici più importanti della guerra di Putin contro l’Ucraina.”; “Certamente” sottolinea l’articolo “le relazioni sino-russe non sono prive di tensioni, e le tensioni esistenti potrebbero essere esacerbate man mano che la Cina diventa più fiduciosa ed è tentata di iniziare a comandare i russi in modo più pesante, qualcosa che nessun governante di Mosca prenderebbe alla leggera. Per ora, tuttavia, Pechino e Mosca hanno dimostrato una notevole capacità di gestire le proprie differenze”, che è il motivo per cui ogni tanto ci viene voglia di tifare Trump e le sue groupies di casa nostra.
Secondo questi raffinati scienziati politici, infatti, ancora oggi la strategia USA dovrebbe essere appunto quella di Kissinger al contrario: riportare la Russia di Putin nella sfera di influenza dell’impero per poi convincerlo ad affrontare tutti insieme appassionatamente la Cina di Xi. A ringalluzzire questa prospettiva strategica piuttosto delirante c’è un approccio ultraideologico che tiene insieme l’alt right d’accatto e la sinistra delle ZTL: Putin è un fascista e quindi è pronto a tornare in Occidente se solo l’Occidente, invece che da Rimbambiden e dalla democratica illuminata Ursula von der Leyen, sarà guidato da the Donald e da Giorgia Meloni. Su La Verità c’è un articolo che più o meno ripropone questa illuminata strategia un giorno sì e l’altro pure e io, che ho una grande fiducia nell’umanità, continuo a credere che non sia un errore palese, ma una raffinata strategia dei nostri compagni di fare per accelerare il declino; purtroppo, però, gli amici della Verità sono un po’ dei fenomeni da baraccone e i think tank che contano, come il Council on foreign relations (che è l’editore di Foreign Affairs) non hanno più nessun dubbio: “Qualsiasi speranza di staccare Mosca da Pechino non è altro che un pio desiderio” sentenziano.

Andrea Kendall-Taylor

E presa coscienza di questo processo irreversibile e, in buona parte – appunto – accelerato dall’arroganza dell’imperialismo, ecco l’ultimo compendio, sempre su Foreign Affairs, delle conseguenza che questa alleanza rafforzata tra gli Stati canaglia avrà sulle magnifiche sorti e progressive dell’imperialismo. L’asse dello sconvolgimento è il titolo: “Come gli avversari dell’America si stanno unendo per ribaltare l’ordine globale” ; a firmarlo, Andrea Kendall-Taylor che, dal 2015 al 2018, è stato nientepopodimeno che vice segretario del Dipartimento per la Russia e l’Eurasia del Consiglio Nazionale dell’Intelligence USA. L’articolo ricorda come la Russia abbia fatto abbondante ricorso ai droni iraniani, alle munizioni nord coreane e ai rapporti commerciali con la Cina: “Troppi osservatori occidentali” sottolinea Kendall-Taylor “si sono affrettati a ignorare le implicazioni del coordinamento tra Cina, Iran, Corea del Nord e Russia. I quattro paesi hanno le loro differenze, certo, e una storia di sfiducia e di spaccature contemporanee potrebbero limitare la crescita delle loro relazioni. Tuttavia, il loro obiettivo condiviso di indebolire gli Stati Uniti e il suo ruolo di leadership costituisce un forte collante. In molti luoghi dell’Asia, dell’Europa e del Medio Oriente, le ambizioni dei membri dell’asse si sono già rivelate destabilizzanti. Gestire gli effetti dirompenti del loro ulteriore coordinamento e impedire che l’asse sconvolga il sistema globale devono ora essere obiettivi centrali della politica estera degli Stati Uniti”; “Gli ordini globali” spiega Kendall-Taylor “amplificano la forza degli stati che li guidano. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno investito nell’ordine internazionale liberale perché questo ordine riflette le preferenze americane ed estende l’influenza statunitense. E finché un ordine rimane sufficientemente vantaggioso per la maggior parte dei membri, ci sarà un gruppo ristretto di Stati lo difenderà. E anche i paesi dissenzienti, nel frattempo, saranno vincolati da un problema di azione collettiva: senza un nucleo centrale di Stati potenti attorno al quale coalizzarsi, il vantaggio rimane a favore dell’ordine esistente. Ma se dovessero disertare in massa, potrebbero riuscire a creare un ordine alternativo più di loro gradimento”. La guerra per procura in Ucraina ha accelerato proprio questa diserzione di massa e così oggi “L’asse dello sconvolgimento rappresenta un nuovo centro di gravità: un gruppo a cui possono rivolgersi altri paesi insoddisfatti dell’ordine esistente” e cioè, a vario titolo, tutti i paesi sovrani.
E agli USA gli rimangono solo i cani da compagnia che però, in quanto cani da compagnia, ovviamente hanno problemi enormi di legittimità e stabilità al loro interno e anche se 40 anni di controrivoluzione neoliberista ne hanno rincoglionito le popolazioni, il rischio che prima o poi la difesa dei propri interessi concreti torni a prendere il sopravvento sulle puttanate – dai deliri sulla superiorità delle democrazie delle sinistre ZTL alle armi di distrazione di massa dell’alt right – si fa ogni giorno più consistente. Prima che sia troppo tardi allora, suggerisce Kendall-Taylor, è arrivata l’ora che l’imperialismo smetta di considerare “ogni minaccia come un fenomeno isolato”: “Washington, per esempio, non dovrebbe ignorare l’aggressione russa in Europa per concentrarsi sulla crescente potenza cinese in Asia. È già chiaro che il successo della Russia in Ucraina avvantaggia la Cina revisionista, dimostrando che è possibile, anche se costoso, contrastare uno sforzo occidentale unito. Anche se Washington considera giustamente la Cina come la sua massima priorità, per affrontare la sfida di Pechino sarà necessario competere con altri membri dell’asse in altre parti del mondo”. Tradotto: la guerra è già mondiale, i vari avversari vanno considerati un unico nemico e l’imperialismo deve diventare una forza unica diffusa su tutto il globo che, sotto l’egemonia USA, combatte contemporaneamente su tutti i fronti una guerra esistenziale; “Affrontare l’asse sarà costoso” sottolinea Kendall-Taylor: “Una nuova strategia richiederà agli Stati Uniti di rafforzare la spesa per la difesa, gli aiuti esteri, la diplomazia e le comunicazioni strategiche”, ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. “Washington” sottolinea Kendall-Taylor “dovrà fare pressione sugli alleati affinché investano in capacità che gli Stati Uniti non potrebbero fornire se fossero già impegnati in un altro teatro militare”.
Il timore per le potenziali conseguenze del riarmo degli alleati vassalli, che ha caratterizzato la lunga era della pax americana fino ad oggi, deve essere messo da parte; d’altronde la subordinazione finanziaria che gli USA hanno imposto agli alleati in particolare in questi ultimi 15 anni – a partire dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008 – servono proprio a questo: gli alleati hanno cessato di esistere come Stati nazione sovrani e la totale integrazione delle loro oligarchie con quelle USA li hanno trasformati stabilmente in emanazioni dirette del centro imperiale. Possiamo anche lasciare che si armino; tanto, fino a che non scoppia una rivoluzione, le loro élite fanno gli interessi dell’imperialismo basato su Washington, mica quelli dei loro paesi, motivo per cui parlare di pace oggi rischia di non servire assolutamente a una cippa e, per quanto abbiano provato a convincerci si trattasse di una parola desueta, da vetero nostalgici, rovesciare il potere costituito con ogni mezzo necessario potrebbe risultare, in realtà, oggi l’unica cosa sensata da fare.
Insomma: il tempo della resistenza e della resilienza potrebbe essere finito e, proprio per puro istinto di sopravvivenza, potrebbe essere arrivato il tempo della riscossa, che non può che essere MULTIPOPOLARE. Per sostenerla ci serve un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari