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Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni

Anche tu, come noi, riponevi ancora qualche speranza nell’umanità? Bene, da domenica sera direi che è definitivamente arrivato il momento di abbandonare ogni speranza: la vittoria – e pure con ampio margine – di Javier Milei alle presidenziali in Argentina è la prova più palese possibile immaginabile dell’assoluta inadeguatezza delle masse di scegliersi liberamente un governo nell’ambito delle regole della democrazia liberale, almeno a questo stadio di sviluppo; e non tanto perché un personaggio assolutamente impresentabile come Milei dovrebbe essere escluso a prescindere da ogni possibilità di ricoprire un qualsiasi incarico di responsabilità, ma soprattutto perché la sua elezione è avvenuta in Argentina. Sin dalla sua fondazione, l’Argentina – infatti – periodicamente è precipitata tra le grinfie delle solite identiche oligarchie compradore che sistematicamente ne hanno devastato l’economia con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione: uno schema quasi noioso da quanto è diventato prevedibile e sempre identico a se stesso. Raramente un popolo, al mondo, ha avuto la stessa possibilità che hanno avuto gli argentini di individuare con chiarezza – a partire dalla loro vita concreta quotidiana – l’esatto gruppo di potere e il tipo di proposta politica direttamente responsabili di tutti i loro problemi. Da due secoli!
Javier Milei, il gruppo di potere che lo ha sostenuto e le sue ricette politiche sono le stesse identiche medicine che, periodicamente, vengono riproposte al popolo argentino con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione, e un furto sistematico di ricchezza da parte di una minuscola oligarchia predatoria. La differenza è che, in passato, per imporle servivano golpe e giunte militari; oggi l’involuzione antropologica è tale che la gente se le sceglie da sola, a larga maggioranza.
Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni”: così Esteban Almiron, nel dicembre scorso, intitolava un suo lungo articolo – pubblicato da Geopolitical economy review – dove cercava di tirare le somme di due secoli di devastazione sistematica dell’economia Argentina da parte delle sue oligarchie, legate a doppio filo a Londra prima e a Washington poi. La storia inizia nel lontano 1824 quando, appena 8 anni dalla dichiarazione di indipendenza dall’impero spagnolo, l’unione delle province – che sarebbe poi diventata la Repubblica argentina – ottiene un prestito di 1 milione di sterline, equivalenti a 110 miliardi attuali, da una banca privata britannica: “Il prestito, denominato in sterline” ricorda Almiron “sarebbe dovuto servire a finanziare il porto di Buenos Aires e altre infrastrutture strategiche”. Poco meno di metà del debito andò in commissioni di ogni genere agli intermediari e il resto “evaporò rapidamente in una guerra con il Brasile”. Risultato: già nel 1827 l’Argentina non era più in grado di pagare gli interessi e dichiarò il suo primo default; da lì in poi, per ripagare quel primo debito impiegò la bellezza di 80 anni e – alla fine – aveva sganciato 8 volte il suo valore iniziale. L’Argentina, allora, sviluppò una certa sana diffidenza verso il debito internazionale e conobbe i suoi anni migliori raggiungendo, nella prima parte del secolo scorso, un reddito pro capite tra i più alti dell’intero pianeta; è per questo che quando – una volta finita la seconda guerra mondiale – venne istituito il Fondo Monetario Internazionale, l’allora presidente populista e progressista Juan Domingo Peron decise di tenersene alla larga.

Evita e Juan Domingo Peron

Durò pochino: nel ‘55 Peron fu cacciato a suon di bombardamenti aerei sul palazzo presidenziale da un sanguinoso colpo di stato, e sotto la feroce dittatura di Pedro Aramburu decise – finalmente – di aderire all’FMI. Ma per vedere il delirio neoliberista in tutto il suo splendore bisognerà aspettare un altro colpo di stato, 20 anni dopo, quando l’esercito arresta l’allora presidente regolarmente eletta Evita Peron e, con il sostegno di Washington, dà il via a una stagione di terrorismo di stato fatto di “stupri, torture sistematiche, detenzioni arbitrarie, sorveglianza distopica e desaparecidos”. Sotto la guida feroce del dittatore Jorge Videla, nell’ambito di quello che venne denominato il “processo di riorganizzazione nazionale” – proprio come nel Cile di Pinochet -, il posto di guida dell’economia venne affidato a una conventicola di invasati ultra – liberisti: da Adolfo Diaz – l’allievo di Milton Friedman – messo a capo della Banca Centrale, a Martinez de Hoz – l’amico di David Rockefeller – nominato ministro dell’economia. “Quasi subito dopo l’ascesa al potere di Videla” ricorda Almiron “De Hoz ottenne un prestito dall’FMI di 100 milioni di dollari di allora”: in cambio, si impegnò ad implementare la solita ricetta lacrime e sangue fatta di abbattimento delle barriere commerciali, deindustrializzazione e restrizioni salariali, mentre l’inflazione continuava a correre non a due, ma addirittura a tre cifre. Risultato: il potere d’acquisto dei lavoratori diminuì di poco meno del 50% nell’arco di appena un anno. Nel frattempo, gli amici oligarchi della giunta militare guadagnavano una quantità di quattrini spropositata attraverso una vera e propria truffa promossa e finanziata dal regime e denominata bicicleta financiera. A costo di distruggere le esportazioni e le aziende locali, il governo aveva introdotto un sistema di regolazione del cambio tra pesos e dollari USA che aveva fortemente rivalutato e stabilizzato la moneta locale; a quel punto “con il sostegno del governo” scrive Almiron “gli speculatori potevano ottenere prestiti a basso interesse denominati in dollari all’estero, mentre a loro volta concedevano prestiti in pesos agli argentini a tassi stratosferici, intascando la differenza”: un giochino che costò alle casse dello Stato un aumento del debito pubblico denominato in dollari di 5 volte nell’arco di appena 7 anni. Un debito che divenne sostanzialmente non più solvibile quando, dopo due anni di festa grossa per le oligarchie locali, il governo abbandonò di punto in bianco la regolamentazione del cambio tra peso e dollaro comportando una svalutazione repentina della valuta locale.
Nel 1983, al regime di Videla subentrò il governo di Raul Alfonsin che, sottolinea Almiron, “avrebbe potuto contestare la legittimità del debito. Dopotutto” continua Almiron “era stato contratto da un regime dittatoriale sostenuto dalla CIA, e che sotto l’influenza USA favoriva gli interessi stranieri rispetto a quelli argentini. Purtroppo però” conclude Almiron “il governo Alfonsin e la nuova, fragile democrazia erano troppo deboli per una simile sfida”. E con un debito del genere sul groppone il nuovo governo argentino era destinato al fallimento; per stare in piedi non aveva altra scelta che affidarsi, di nuovo, a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che imposero una nuova stagione di riforme lacrime e sangue che, ancora una volta, pochi anni dopo, portarono a un’altra gigantesca crisi economica che raggiunse il suo apice nel 1989 “quando” ricorda Almiron “salari e risparmi evaporarono rapidamente, povertà ed estrema povertà salirono alle stelle, e cominciarono a scoppiare rivolte e saccheggi”. Il sogno di un governo moderatamente progressista, preoccupato dagli interessi della nazioni più che a quelli delle solite oligarchie, si sciolse così come neve al sole: era arrivata l’ora di un’altra bella shock therapy.
A infliggerla – sotto l’egida del neo eletto Carlos Menem – il famigerato Domingo Cavallo, altro neo – liberista purosangue coccolatissimo dai media occidentali. La ricetta era sempre la stessa: primo step, sopravvalutare artificialmente il pesos e ancorarlo al dollaro; come sottolinea Almiron “tutti potevano scambiare liberamente pesos e dollari, ora sostenuti dallo Stato con le sue riserve”. In soldoni, quindi, la Banca Centrale limitava l’emissione di nuovi pesos alla presenza di altrettanti dollari tra le sue riserve, togliendo così ossigeno all’economia. Ma non solo: quei pochi dollari che, comunque, la Banca Centrale accumulava come riserve erano ottenuti nel più barbaro dei modi e cioè con “una delle più grandi operazioni di privatizzazione della storia”. “In pochi anni” ricorda Almiron “vennero privatizzati il sistema pensionistico, le ferrovie nazionali, le banche pubbliche, la rete telefonica, la compagnia aerea di bandiera, i porti, il servizio postale, la rete idrica, quella del gas, quella elettrica, diverse reti televisive e radiofoniche e alcuni servizi di assistenza sanitaria”. Le multinazionali statunitensi ed europee, poi, ebbero l’occasione di fare shopping a prezzi di saldo nell’industria navale, in quella chimica e in quella aerospaziale; anche qui, le oligarchie locali i quattrini li facevano sempre come sotto Videla. Cavallo aveva imposto per legge che ogni pesos potesse essere scambiato con un dollaro; gli oligarchi emettevano prestiti in pesos a tassi altissimi – perché di pesos in circolazione ce n’erano pochini – e tutti gli interessi che intascavano li convertivano in dollari, e poi con questi dollari ci andavano a comprare un po’ di immobili di prestigio negli USA. Nel frattempo, la disoccupazione – da meno del 6% – sfiorava quota 20% e l’Argentina entrò in una profonda recessione che sarebbe durata la bellezza di 4 interminabili anni. Menem, che nel frattempo faceva il tamarro girando il paese a bordo di una Ferrari, divenne il politico più odiato del paese. Alle presidenziali successive il paese cerca una via d’uscita eleggendo La Rua che, però, continua sulla stessa falsa riga e – alla fine – decide di riaffidarsi nuovamente a Domingo Cavallo, nominato un’altra volta ministro dell’economia; ed ecco così che si arriva al 2001, quando il timore per un tracollo finanziario definitivo scatena una corsa epica agli sportelli e, alla fine, porta al default dell’Argentina con un debito di 95 miliardi di dollari. Era la prova provata di come le ricette neo – liberiste non funzionassero, ed ecco così che alle elezioni successive si fa avanti un semisconosciuto governatore di una piccola provincia meridionale.

Cristina e Néstor Kirchner

Si chiamava Néstor Kirchner. Non era chissà quale militante marxista leninista; era un moderato, un umile avvocato di provincia che però non era a libro paga di nessuno, e i risultati si fecero vedere subito. Durante il suo mandato il PIL crebbe a ritmi cinesi di poco meno del 10% l’anno, la disoccupazione crollò al 7,3% e le riserve internazionali – da zero – superarono quota 30 miliardi. Ma, soprattutto, ha sfanculato il Fondo Monetario Internazionale: “il 16 dicembre 2005” ricorda infatti Almiron “Kirchner annuncia che l’Argentina avrebbe ripagato integralmente e in anticipo l’intero debito del FMI con le sue riserve estere”. Le riserve erano state accumulate facendo esattamente il contrario dei predecessori: invece di ancorare il pesos al dollaro, Kirchner l’aveva fatto svalutare, aumentando così le esportazioni e incassando valuta pregiata, e ora era in grado di dimostrare che tutti quelli che l’avevano preceduto avevano usato l’FMI come scusa per imporre ricette lacrime e sangue che – prima ancora che il fondo stesso, o gli USA – beneficiavano i loro amici oligarchi.
Ma la partita era solo all’inizio perché, ben oltre il debito col fondo monetario internazionale, a zavorrare l’Argentina c’era il debito denominato in dollari contratto con i privati attraverso l’emissione di bond; con la stragrande maggioranza dei creditori, Nestor prima e la moglie Cristina – che gli è succeduta alla presidenza del paese per ben due mandati – poi, sono riusciti a trattare e a rinegoziare, ma c’era una piccola minoranza che di mollare la presa non ne aveva nessuna intenzione. Sono i famosi “fondi avvoltoio” e cioè i fondi speculativi USA che, di mestiere, comprano i bond dei paesi in crisi a prezzi stracciati: un’attività molto remunerativa ma ad alto rischio, almeno se la fai te, o me. Se la fanno loro, meno; gli unici rischi che si accollano questi fondi, infatti, è a quanto ammonterà la parcella degli avvocati, perché il paradosso del mercato dei bond sovrani è questo: se la tua economia non è perfettamente in salute, per convincere gli investitori a comprarli devi pagare interessi altissimi perché il rischio che quello Stato non sia in grado di ripagarti è alto, ma se sei un fondo con la sede negli USA e hai abbastanza soldi per pagarti i migliori avvocati – e magari provare la stessa causa in diverse corti, fino a che non trovi il giudice giusto – in realtà quel rischio non lo corri mai. La legge è costruita in modo che, alla fine, se non demordi vinci sempre.
Lo sa bene Paul Singer, il capo del fondo Elliott: per provare a farsi ridare tutti i soldi investiti (con una montagna di interessi sopra) ha ingaggiato una guerra legale lunga 15 anni. “Sono terroristi economici” aveva tuonato Cristina rivolgendosi all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2014 “che destabilizzano l’economia di un paese e creano povertà, fame e miseria, e tutto in nome della speculazione”; quando, dopo 8 anni di presidenza, per legge ha dovuto fare un passo indietro, il debito di Singer era ancora lì. Finalmente il popolo aveva trovato una classe dirigente che stava dalla sua parte ma, molto saggiamente, ha deciso di gettarla nel cesso. Durante gli ultimi anni della presidenza di Cristina, le oligarchie avevano cominciato ad alzare il tiro mettendo in piedi i soliti teatrini che tanto piacciono agli analfogiustizialisti; è lo stesso identico copione che abbiamo visto anche in Brasile contro Lula e la Roussef: una casta di giudici corrotti, legati a doppio filo alle oligarchie, che trasferiscono nei tribunali una battaglia politica che non sono riusciti a vincere nel resto del paese e che la propaganda dei media – di proprietà degli stessi oligarchi – riesce a spacciare in lotta contro la corruzione. Il bue che dà del cornuto all’asino.
Questa campagna di delegittimazione fondata sulla post verità comunque dà i frutti sperati: alle presidenziali successive la sinistra peronista perde di un soffio e alla guida del paese arriva Mauricio Macri. E’ il rampollo di una famiglia dell’oligarchia nazionale che si è arricchita grazie al sostegno politico alla dittatura militare e non delude le aspettative: a pochi mesi dall’insediamento salda il debito con Elliott – 2,28 miliardi di dollari a fronte di un investimento iniziale di appena 177 milioni – ed è solo la punta dell’iceberg. Nel giro di pochi giorni, l’Argentina di Macri sgancia ai fondi avvoltoio la bellezza di 9,3 miliardi: “per un paese che si dice sovrano, una vera e propria umiliazione” scrive Almorin “che ha fatto anche arrabbiare molti piccoli investitori, compresi pensionati e lavoratori, che hanno perso il grosso dell’investimento con la rinegoziazione del debito, mentre un piccolo gruppo di miliardari statunitensi e speculatori di ogni genere hanno fatto fortuna”. Ed era solo l’antipasto: dopo quell’operazione, il governo Macri ha cominciato a accumulare debito su debito passando, in un solo anno, da un rapporto debito PIL del 56% all’86%. Una quantità incredibile di dollari che non sono andati – nemmeno in minima parte – nelle infrastrutture necessarie per far ripartire l’economia reale, ma direttamente nelle tasche delle oligarchie, che hanno convertito in dollari i loro pesos e poi li hanno portati fuori dal paese. Il paese era di nuovo sull’orlo della bancarotta, ed ecco così che si ritorna a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale che, a regola, avrebbe dovuto rispondere picche; secondo il suo regolamento, infatti, “un membro non può utilizzare le risorse generali del fondo per far fronte a un deflusso ampio o prolungato di capitali”, a meno che non lo chieda il vero unico padrone di casa: il governo degli USA.
Che è esattamente quello che è successo: alla Casa Bianca, infatti, nel frattempo era arrivato il compagno Donald Trump, che era alla ricerca di alleati regionali per provare a fare le scarpe al governo rivoluzionario del Venezuela. Macri si presta allegramente al gioco: riconosce immediatamente e ufficialmente il politico fantoccio USA Juan Guaido come presidente legittimo auto – nominatosi del Venezuela e, in cambio, ecco che magicamente le porte dell’FMI si spalancano di nuovo. Pochi mesi dopo, il fondo stanzia a favore del governo Macri la bellezza di 44 miliardi “ma” ricorda Almorin “nemmeno un dollaro inviato dal Fondo è mai stato visto dal popolo argentino, né utilizzato per alcun progetto di sviluppo economico. Piuttosto, nell’arco di appena 11 mesi il denaro è letteralmente evaporato, finendo nelle tasche degli oligarchi nazionali e stranieri” e – nell’agosto del 2019 – l’Argentina doveva dichiarare nuovamente default, “il primo ufficiale del Paese per mancanza di fondi dal 2001”. Nonostante il disastro, la potenza della propaganda è tale che alle elezioni successive Macri perde sì – ma manco poi di tanto – e per sconfiggerlo Cristina and company sono costretti a fare un passo di lato, presentare un candidato più moderato e mettere in piedi una coalizione così vasta da risultare abbastanza inconcludente. Ciononostante, rispetto ai rapinatori di professione la presidenza Fernandez è oro colato: intraprende subito una guerra a 360 gradi contro il debito contratto dall’élite compradora che li ha preceduti, si avvicina gradualmente alla Cina e ai Brics fino ad ufficializzare l’ingresso e quando in Brasile, dopo il golpe giudiziario, torna al potere Lula, comincia a lavorare all’integrazione dell’area del Mercosur per tentare di sganciarsi dal dollaro. Ma il paese che Fernandez ha ereditato da Macri è un paese sull’orlo del baratro e la crisi pandemica non fa che peggiorare la situazione a dismisura: perseguitato dal debito denominato in dollari, Fernandez si ritrova travolto dall’ennesima spirale inflattiva che cerca – in ogni modo – di non scaricare interamente sulle masse popolari rincominciando a stampare moneta e svalutando il pesos, che è la scelta socialmente meno iniqua ma che, sicuramente, non permette di riportare l’inflazione sotto controllo. Ed ecco qui, allora, che avviene quello che fa definitivamente perdere ogni speranza nell’umanità: sulla scena politica si affaccia un invasato che ha chiamato i suoi cani con i nomi dei guru della setta neoliberista e che, per prendere le decisioni più importanti, organizza delle sedute spiritiche durante le quali invoca lo spirito dei suoi cani morti.

Javier Milei

Javier Milei ripropone – pari pari – le ricette che, appena 5 anni fa, avevano fatto esplodere il debito pubblico e riportato l’Argentina al default. Solo, on steroids: invece che di semplice rivalutazione del pesos e di ancoraggio al dollaro, promette esplicitamente di abolire la Banca Centrale tout court e di adottare come moneta nazionale direttamente il dollaro, e promette di farlo circondato da un team di tutto rispetto. Fenomeno da baraccone mediatico privo di qualsiasi struttura politica, nonostante l’imbarazzante retorica anti – casta si consegna mani e piedi alla cerchia ristretta di Macri, gli eredi di quella élite nazionale che, da 200 anni, saccheggiano il paese senza ritegno senza aver mai conseguito un risultato positivo che sia uno. Cosa mai potrebbe andare storto?
La vittoria di Milei non è semplicemente l’ennesimo caso di vittoria di chi gioca a fare l’underdog e poi si rivela inesorabilmente non essere per niente under ma solo dog dei soliti interessi; è proprio la prova provata di un’involuzione antropologica epocale che impedisce – in questa fase di caos sistemico e di iper – informazione alle masse popolari – di riconoscere minimamente i propri interessi basilari, anche quando sono palesi. E’ l’era del trionfo totale delle ideologie più inverosimili e della post verità: per superarla, la battaglia culturale e di controinformazione da fare è titanica e lunghissima.
Tocca attrezzarsi con gli strumenti adeguati, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Javier Milei

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde