Skip to main content

Tag: fallimento

Perché l’Italia è fallita?

Avete mai realizzato quanto siete poveri? Ecco: ve lo faccio vedere.

In questo grafico, la linea rossa rappresenta il rapporto tra il reddito pro capite degli italiani e quello dei francesi a parità di potere d’acquisto: ancora a inizio anni 2000 eravamo messi meglio noi di loro; da lì in poi è stata una discesa continua. Ancora peggio va il confronto coi tedeschi, che è la linea verdognola: a inizio anni 2000 eravamo allo stesso livello, dopodiché s’è aperta una voragine; e se calcolate che francesi e tedeschi negli ultimi 20 anni se la sono passata tutt’altro che bene, ecco che magari realizzate come – nonostante avete ancora qualche spicciolo per una pizzata con gli amici o per un volo low cost nel weekend per andare a farvi spennare da qualche affittacamere abusivo su Airbnb in una capitale europea a caso – in realtà non siete mai stati così morti di fame come oggi.
D’altronde, non poteva essere altrimenti: in quest’altro grafico è rappresentato l’andamento dei soldi che, in media, prendete se avete la fortuna di aver trovato un lavoro.

La Germania è la linea verde: fatto 100 quello che guadagnavano nel 1960, nel 1990 erano saliti a quota 220; oggi sono a quota 280. I francesi, e cioè la linea rossa, sono passati dai 100 del 1960 ai 250 nel 1990, agli oltre 300 di oggi. Gli italiani, dai 100 del 1960, nel 1990 erano arrivati a quota 260: in 30 anni di quel terribile inferno che era la corrotta prima repubblica, ce la siamo passata meglio di tutti gli altri; oggi siamo sotto quota 250. le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista e di quel simbolo di pace e progresso che sono l’Unione europea e l’euro, per noi – unici nel vecchio continente – hanno significato sempre e solo impoverimento progressivo.
Forse da quest’altra prospettiva vi risulta ancora più chiaro:

In un quadro piuttosto deprimente per tutta la vecchia Europa nel suo complesso, l’Italia è l’unico paese – e, ripeto, l’unico – dove il potere d’acquisto dei salari, nell’arco di 30 anni, è diminuito; non so se è chiaro il concetto: nel 1990 non c’erano ancora non dico i cellulari, ma manco internet. Automazione, rivoluzione digitale, supply chain, just in time – e per comprarti una bottiglietta d’acqua o un tozzo di pane devi lavorare più di prima; per la propaganda analfoliberale è tutta colpa nostra, che siamo choosy, non conosciamo più il valore del sacrificio e siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Fortuna che al mondo, oltre agli analfoliberali che ripetono a pappagallo le vaccate degli oligarchi che gli danno lo stipendio, c’è anche chi studia, come ad esempio il buon Philip Heimberger, giovane e brillante economista dell’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna, che s’è posto una semplice domanda: chi e cosa hanno fatto fallire l’Italia? Ma prima di addentrarsi nella sua risposta, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri vari canali social e di attivare le notifiche; a voi costa 10 secondi di tempo, ma per noi significa molto e ci aiuta a portare avanti la nostra battaglia contro la propaganda analfoliberale e al fianco del 99%.
Tutti i dati macroeconomici confermano che il declino economico dell’Italia, negli ultimi decenni, è stato costante e inesorabile: secondo la narrazione della propaganda neoliberista, dipende dal fatto che abbiamo fatto troppe poche riforme e troppo lentamente, ma secondo l’economista Philipp Heimberger, molto banalmente, è una fake news; Heimberger ricorda come, ancora negli anni ‘80, “La crescita della produttività del lavoro, misurata come PIL prodotto per singola ora lavorata, in Italia era ancora tra le più alte del mondo” come si vede chiaramente da questo grafico.

L’Italia è la linea celeste, la Germania quella verde e fino al 1989 tenevamo abbondantemente il passo; poi ci siamo bloccati per un paio di anni abbondanti. Siamo ricominciati a crescere nei 4 anni successivi e poi, dal 1995, stop. Kaput. Morte cerebrale. Rivoluzione digitale, automazione, logistica integrata, catene del valore complesse: in 30 anni il mondo è stato rigirato come un calzino, ma noi niente; per produrre un euro di PIL abbiamo bisogno dello stesso tempo e della stessa quantità di lavoro di 30 anni fa. Com’è possibile?
Heimberger, giustamente, la prende larga e, giustamente, parte dalla madre di tutte le scuse: il debito pubblico italiano; Heimberger ricorda come l’Italia abbia un debito complessivo che, rispetto alle dimensioni complessive della sua economia, è assolutamente in linea con gli altri paesi dell’eurozona, solo che è molto più spostato sulla parte pubblica del debito piuttosto che sul debito privato – e questo alla propaganda neoliberale e ai sacerdoti dei dogmi mistici dell’economia mainstream non piace. Secondo Heimberger, che tutta questa fobia del rapporto debito pubblico/PIL abbia qualche fondamento scientifico è molto discutibile: “Il rapporto debito pubblico/PIL” insiste “può essere visto come una metrica potenzialmente fuorviante per valutare la reale sostenibilità fiscale di un paese”; Heimberger, poi, ricorda come questo rapporto ha cominciato a divergere in modo consistente da quanto registrato in Francia, Germania e altri paesi dell’Eurozona a partire dal 1980, quando eravamo ancora a quota 54%, per poi raggiungere il tetto del 100% nell’arco di poco più di 10 anni. La causa principale, sottolinea, è “Il divorzio tra la Banca Centrale e il ministero delle finanze”: è la tristemente nota indipendenza della Banca Centrale che, però, in realtà significa indipendenza dalla politica e dalle scelte democratiche, ma dipendenza al cubo dalle scelte antidemocratiche del cosiddetto mercato e che, in realtà, si riduce ai monopoli finanziari privati detenuti da un manipolo di oligarchi.
E’ il primo capitolo di quella che possiamo definire la shock therapy con caratteristiche italiane. Fino ad allora, infatti, i titoli del debito che venivano emessi dallo Stato per finanziarsi, quando non trovavano acquirenti privati perché i tassi di interesse non erano sufficientemente attrattivi, venivano acquistati – appunto – dalla Banca Centrale, che aveva il potere di stampare moneta; questo permetteva di mantenere i tassi di interesse bassi perché, appunto, non si era costretti a farli lievitare per convincere i privati a comprare i nostri titoli del tesoro. E come unica conseguenza negativa aveva che, stampando moneta ogni qualvolta serviva comprarsi nuovi titoli che non avevano trovato acquirenti sul mercato, si indeboliva un po’ la nostra moneta rispetto agli altri paesi, cosa che – di per se – entro certi limiti tanto negativa non è, anzi: perché, ovviamente, rende le tue merci più competitive sui mercati internazionali e, quindi, rafforza il tuo export; certo ovviamente, di pari passo, rende anche più costoso importare dall’estero merci e materie prime che non hai in casa, ma fino a che la bilancia dei pagamenti – alla fine – rimane sostanzialmente equilibrata, grosse conseguenze negative non ce ne sono, che è proprio il caso dell’Italia dove, dal 1970 al 1989, si è registrato in media un piccolissimo deficit nella bilancia commerciale pari ad appena lo 0,2%.
Quando invece si impone all’Italia la shock therapy della privatizzazione della Banca Centrale, da lì in poi i titoli emessi dallo Stato devono – appunto – essere comprati dal mercato e, cioè, dagli oligarchi e dagli speculatori che, per essere convinti, vogliono essere pagati bene: ed ecco, così, che i tassi di interesse che lo Stato è costretto a riconoscere magicamente schizzano verso l’alto, fino a raggiungere la cifra astronomica del 20% a inizio anni ‘80; un costo stratosferico che – a meno che tu non cresca del 10% l’anno e, nel frattempo, tagli col machete la spesa pubblica radendo al suolo totalmente il welfare – non può che tradursi automaticamente in un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e PIL che infatti, appunto, raddoppierà nell’arco di una decina d’anni. Ed ecco, così, che quando poi è arrivata la seconda tappa della shock therapy con caratteristiche italiane – e, cioè, abbiamo sottoscritto quella vera e propria truffa che è il trattato di Maastricht con i suoi parametri deliranti (anche se, grazie all’adozione dell’euro, i tassi di interesse sono andati piano piano diminuendo) – il debito era talmente alto che continuava a drenare una fetta gigantesca di spesa pubblica; e quindi, per tenere fede ai vincoli di bilancio deliranti imposti proprio da Maastricht, siamo stati costretti a tagliare con l’accetta tutte le altre spese, che gli sciroccati analfoliberali chiamavano sprechi e, per carità, spesso e volentieri lo erano anche, ma che messi tutti insieme, in realtà, costituivano la domanda complessiva che permetteva non solo all’economia nel suo complesso di crescere, ma anche di continuare a fare gli investimenti necessari perché, nel frattempo, crescesse anche la produttività.
Da allora, l’Italia è stata di gran lunga il paese più virtuoso dell’eurozona, dove per virtuoso – appunto – si intende un paese dove quello che lo Stato toglie all’economia in forma di tasse è superiore a quello che restituisce in forma di spese: il famoso avanzo primario che, come sottolinea Heimberger, nessuno ha perseguito con più fondamentalismo religioso di noi, come si vede da questo grafico.

Il bello è che deprimendo scientificamente la crescita economica grazie a questa forma di ultra austerità, alla fine il rapporto debito/PIL ovviamente non ha fatto altro che peggiorare – com’era assolutamente inevitabile, a meno di inspiegabili miracoli sui quali, però, forse sarebbe prudente non fondare la politica economica di una nazione. Il punto, molto semplicemente, è che il rapporto debito/PIL – appunto – è un rapporto: e se il numeratore cresce più rapidamente del denominatore, quel rapporto, ovviamente, peggiora; cosa che era ampiamente prevedibile, perché se scientificamente fai di tutto per deprimere l’economia, il PIL o non cresce o cresce molto poco, mentre il numeratore (e, cioè, il debito) anche se spendi meno di quello che incassi, se a quel poco che spendi ci aggiungi gli interessi che devi pagare per il debito che hai accumulato grazie alla prima geniale riforma della tua genialissima shock therapy, ecco che la frittata è fatta.
Ma anche di fronte a questa evidenza, gli analfoliberali comunque non si rassegnano: la tesi è che questi vincoli esterni sarebbero dovuti servire a imporre a una politica clientelare recalcitrante l’obbligo di introdurre riforme strutturali massicce (in particolare per liberalizzare il mercato del lavoro) e che se ne avessimo approfittato per fare queste riforme – quindi per portare a termine la shock therapy da tutti i punti di vista – a quest’ora saremmo una specie di tigre del Mediterraneo; se invece, inspiegabilmente, siamo in declino è solo perché siamo stati troppo buonisti e non abbiamo avuto la forza di fare scelte abbastanza coraggiose. “Secondo questa tesi” continua Heimberger “la protezione dell’occupazione e la regolamentazione del mercato dei prodotti erano troppo rigide, il welfare troppo generoso e i sindacati troppo forti”; “Tuttavia” sottolinea però Heimberger “diversi studi recenti hanno sottolineato che la teoria della mancanza di riforme è smentita dai fatti”: “Nel complesso, infatti” continua Heimberger “l’Italia ha seguito le raccomandazioni sulle riforme strutturali promosse da istituzioni come la Commissione europea e l’OCSE molto più rigorosamente di quanto non abbiano fatto ad esempio la stessa Francia e la Germania”.
Sul versante delle riforme del mercato del lavoro, ad esempio, “Negli anni ‘90 l’indice di protezione per i contratti a tempo indeterminato era leggermente più alto di quelli registrati in Francia e Germania, ma nel 2019 il rapporto si era invertito”.

Ancora peggio per i contratti a tempo determinato che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura, dove – come dimostra questo grafico dove l’Italia è la linea celeste (fig. b) – fino a fine anni ‘90 eravamo il paese con le maggiori tutele e, invece, siamo diventati quelli messi peggio, Germania a parte, almeno fino al 2018 quando, col decreto dignità, l’unico governo non dichiaratamente ferocemente antipopolare degli ultimi 40 anni ha invertito un po’ questo trend catastrofico. A contribuire a questo feroce attacco coordinato ai diritti dei lavoratori, ricorda Heimberger, ci si sono messi prima la fine dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e poi le liberalizzazioni selvagge in nome di quella che lui definisce la flex-insecurity: “Il lavoro atipico è letteralmente esploso, e chi aveva un lavoro precario non era nemmeno coperto da un’assicurazione contro la disoccupazione, aveva bassissimi contributi previdenziali e né malattia né congedi retribuiti”; “In teoria” sottolinea Heimberger “la deregulation del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare la competitività delle aziende italiane riducendone i costi, e garantendo così la conquista di quote di mercato per le sue esportazioni”. In realtà, però, invece “Il basso costo del lavoro ha ridotto l’incentivo per le aziende di fare investimenti” e senza investimenti privati ti puoi scordare l’aumento della produttività. E senza aumento della produttività ti puoi scordare pure la crescita e, soprattutto, l’aumento dei salari: “Pertanto” conclude Heimberger “si può sostenere che le riforme che miravano a liberalizzare il mercato del lavoro hanno fatto più male che bene alla crescita della produttività dell’Italia”. Un bel contributo al declino poi, ovviamente – continua Heimberger – lo hanno dato le privatizzazioni che sono state viste come “una scorciatoia per rientrare nei vincoli introdotti da Maastricht”. “Queste privatizzazioni” sottolinea Heimberger “hanno ridotto il numero di grandi imprese nei settori maturi dell’economia e hanno contribuito ad un calo degli investimenti, dal momento che i nuovi proprietari privati non erano in grado o non erano disposti a mantenere il livello di investimenti delle imprese precedentemente di proprietà statale”: insomma, ribadisce Heimberger, “La narrativa della mancanza di riforme che domina il discorso pubblico sull’Italia non è coerente con i dati rilevanti. I governi italiani in realtà hanno intrapreso importanti riforme strutturali a partire dagli anni ’90, poiché hanno deregolamentato i mercati del lavoro, perseguito le privatizzazioni e attuato riforme pensionistiche”.

Giuseppe Conte

Ma contrariamente alle leggende metropolitane degli analfoliberali tutto questo non ha fatto che aggravare i problemi, invece di risolverli, ma come in tutte le dimostrazioni scientifiche, oltre a descrivere tutto quello che è andato storto applicando un modello, per chiudere il cerchio serve anche la controprova che adottandone una nuovo, che tiene conto delle contraddizioni di quello precedente, si ottengono risultati diversi; e indovinate un po’? Questa controprova oggi c’è e sono i risultati delle iniziative messe sul tavolo dagli unici governi che, negli ultimi 40 anni, non hanno aderito religiosamente ai dogmi mistici della truffa austera e neoliberale: sono i due governi guidati da Giuseppe Conte che, al netto di tutte le criticità possibili immaginabili, hanno – appunto – il merito innegabile non solo di aver testato l’applicazione – per quanto contraddittoria e completamente insufficiente – di un paradigma diverso, ma anche di aver dimostrato, numeri alla mano, che si può fare e che, seppur con millemila limiti, funziona. Diciamo, per lo meno, che si è trattato davvero di fare per arrestare il declino, mentre gli analfoliberali continuavano a dispensare ricette utili solo ad accelerarlo, cosa che hanno immediatamente fatto appena sono tornai ai posti di comando.
Le 3 iniziative in questione sono appunto il reddito di cittadinanza, il decreto dignità e il superbonus: il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento concreto per combattere le sacche di povertà più estreme, è uno strumento piuttosto efficace di politica economica perché, appunto, fa crescere la domanda aggregata e, quindi, stimola la crescita; il decreto dignità impone alle aziende di tornare a investire un minimo per aumentare la produttività, perché ostacola l’ipersfruttamento fondato sulla flex-insecurity e il superbonus che prima di venire completamente distorto e affossato era un modo per creare una moneta fiscale parallela che, in sostanza, permetteva di immettere nuova liquidità nell’economia senza dover aspettare di uscire dall’euro, dall’Unione europea e da tutti i vincoli demenziali che abbiamo sottoscritto e implementato on steroids negli ultimi 30 e passa anni. Al netto di tutte le critiche, queste tre misure sono state le prime tre misure adottate, da 40 anni a questa parte, che uscivano un po’ dal paradigma dell’austerity creato apposta per affossare la nostra economia e favorire la lotta di classe dall’alto contro il basso, e indovinate un po’? Nel loro piccolo, a differenza delle riforme strutturali e dei vincoli esterni, hanno funzionato: non solo perché, per la prima volta, hanno permesso all’Italia di crescere di più dei paesi del nord Europa, ma anche perché, in virtù di questa crescita – come volevasi dimostrare – per la prima volta hanno in realtà permesso di abbattere il rapporto debito/PIL.
Insomma: che cosa fare concretamente domattina perlomeno per arrestare il declino, in realtà, lo sapremmo benissimo; per carità, non è mica il sol dell’avvenire, ma manco il buco nero in cui ci hanno prontamente ricacciato i governi successivi e che ora non potrà che peggiorare ulteriormente con la fine della sospensione del patto di stabilità. Il punto, semmai, è che anche contro quei pochi, timidissimi accenni di un modo diverso di governare l’economia del paese, il partito unico della guerra e degli affari si è subito ricompattato come un sol uomo e, alla fine, il modo per mettere fine all’unica esperienza di governo un minimino democratico e non diretta emanazione delle oligarchie l’hanno trovato subito; figuriamoci il livello di organizzazione e di cazzimma che ci serve se minimamente abbiamo intenzione di andare un po’ oltre questi accenni di prove generali…
Per questo, come minimo, intanto ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della propaganda mistica delle oligarchie neoliberiste, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Disastro Meloni: record di poveri e di cassintegrati e risparmi ai minimi storici

LItalia che non ti aspetti: vi lamentate sempre che vi diamo solo cattive notizie e, allora, oggi abbiamo deciso di regalarvi un mercoledì da leoni insieme agli amici de Il Foglio, che ci danno la carica ricordandoci come il nostro paese “è uscito a razzo dalla pandemia, è cresciuto più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi, ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7 e batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del PIL pro capite”… No, spe’, forse mi avete frainteso: la buona notizia non è tanto questa che, molto banalmente, è una puttanata di dimensioni epiche; la buona notizia è che l’Italia è, ogni giorno di più, con le pezze al culo. Ma poteva andarci anche peggio: potevamo averci tra i coglioni ancora Renzi e il suo giglio magico.

Marco Fortis

A sciorinare sul Foglio “fatti e numeri che smentiscono l’eterna lagna nazionale”, infatti, è Marco Fortis, consigliere economico prima di Monti e poi di Renzi e che, nonostante i risultati economici disastrosi dei governi che sosteneva, da 12 anni, dal palco della Leopolda (sempre con un’abbronzatura invidiabile), c’invita a fregarcene della realtà che tutti noi abbiamo di fronte agli occhi e a inventarci un mondo parallelo fatto di lampade UVA di cittadinanza e una montagna di ingiustificato ottimismo; peccato, però, che a parte aver relegato il mondo della Leopolda e del Foglio all’irrilevanza che si meritano, ci sia ben poco di altro da festeggiare: giovedì scorso sul Sole 24 ore Luca Orlando ci ricordava come il 2023 sia stato un anno molto complicato, ma il 2024 è partito parecchio peggio. -1,2% di produzione industriale in un solo mese: un’ecatombe che asfalta, in un colpo solo, tutta la retorica sulla crescita immaginaria dell’occupazione. Cioè, l’occupazione aumenta anche, eh? E’ innegabile. E graziarcazzo: col part time involontario, un posto di lavoro diventano due che, in un paese in drammatico declino demografico, percentualmente contano parecchio; e se il contributo dei part time involontari non basta per trasformare la merda in cioccolata, basta aggiungerci una ciliegina che si chiama cassa integrazione.
Oltre a quelli che lavorano un’ora la settimana, infatti, per l’ISTAT sono occupati anche quelli che non ne lavorano manco mezza e che, però, prima di essere licenziati teniamo buoni per qualche mese con un assegno – e sono un esercito: a gennaio, infatti, l’INPS ha autorizzato la bellezza di oltre 49 milioni di ore di cassa integrazione tra ordinaria – e, cioè, quella che dovrebbe aiutare in momenti di difficoltà passeggeri – e, soprattutto, straordinaria – e, cioè, quella che viene utilizzata per crisi strutturali che, il più delle volte, non si ha la minima idea di come risolvere; una cifra spaventosa che segna un crescita di oltre il 16% rispetto anche soltanto al mese precedente e addirittura del 44,4% rispetto a 12 mesi prima. E’ la fine definitiva dell’onda lunga del superbonus che, al netto di tutte le critiche possibili immaginabili, ha rappresentato l’unica vera misura espansiva da parte di un governo da decenni a questa parte e che, a quanto pare, non è bastata: Record della povertà assoluta titola, infatti, La Repubblichina; dopo la piccola flessione dell’indice di povertà registrata nel 2019 grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza, infatti, il trend ha ripreso pari pari l’andamento avviato ormai nel lontano 2011 grazie alle politiche lungimiranti di Mariolino Spread Monti che, nell’arco di due anni, era riuscito nell’invidiabile record di aumentare del 70% i poveri in Italia. Da allora, l’aumento è stato incontenibile e se, nel 2010 , erano povere il 4,6% delle famiglie italiane, oggi siamo arrivati all’8,5 e quello che è ancora più grave è che circa la metà hanno un componente che lavora; e anche quelli che, oltre a un lavoro, hanno anche qualche bene di proprietà non è che se la passino proprio benissimo. Lo ricorda Attilio Barbieri su Libero: nel 2011 la ricchezza pro capite degli italiani ammontava alla bellezza di 159.600 euro, contro i 131 dei francesi e i 114 dei tedeschi; primi della classe! Da allora, la nostra ricchezza è cresciuta di appena il 10%, enormemente meno dell’inflazione non dico di questi oltre 10 anni, ma anche solo degli ultimi 2; quella dei francesi è cresciuta del 40%, quella dei tedeschi dell’85 e non credete che si siano ricoperti d’oro: molto semplicemente non hanno perso troppo, e noi siamo precipitati in fondo alla classifica.
Chi invece s’è ricoperto d’oro sono gli statunitensi: nel 2011 avevano, a testa, appena 4 mila euro di patrimonio in più rispetto agli italiani; oggi, ne hanno 230 mila in più. Ci saremo pure sbarazzati di Renzi, renzini e leopoldini vari, ma fino a che come amico del cuore ci continueremo a scegliere quelli che ci fregano i quattrini da sotto il culo alla luce del sole, ho come l’impressione che andremo poco lontano. Prima di continuare in questo viaggio nel cuore della disastrosa politica economica della destra cialtrona e svendipatria, però, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia contro gli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto magari, anche di iscrivervi a questo – come a tutti gli altri nostri canali sulle varie piattaforme – e attivare le notifiche; a voi non costa niente e a noi, invece, cambia parecchio.
“Il nuovo anno si è aperto nei peggiori dei modi” scrive Marco Togna su Collettiva all’inizio di una lunga e dettagliata lista di morti e feriti dell’industria italiana che, ovviamente, non può che iniziare dalla catastrofe Stellantis: 2.260 addetti in cassa integrazione dal 4 marzo al 20 aprile solo a Mirafiori; “Un segnale devastante” scrive la FIOM su un comunicato. Invece che “Made in Italy, qui siamo al destroy Italy”, a partire dall’indotto: tra le prime ad accusare il colpo c’era stata la Lear di Grugliasco, che alle Maserati e alle 500 di Mirafiori forniva i sedili e che, a dicembre, ha annunciato un anno di proroga di cassa straordinaria per tutti i suoi 410 dipendenti; poi è stato il turno della Delgrosso di Nichelino, ad appena 15 chilometri di distanza, 108 lavoratori che, dal 1951, producevano filtri per tutte le principali case automobilistiche italiane ed europee e che, nel 2009, era stata anche nominata da FIAT “miglior fornitore” e che ora si ritrovano pure senza ammortizzatori sociali. Due mesi di cassa integrazione ordinaria per calo di attività produttiva, invece, è quello che aspetta i 200 lavoratori della Maserati di Modena, mentre a 72 dipendenti su 163 della Tecopress di Ferrara che, dal 1971, produce componenti stampati in alluminio per i motori, è stato concesso un altro anno di cassa straordinaria in deroga.
Ma ancora più dell’automotive, in Emilia a preoccupare è il settore delle piastrelle; Meloni e Giorgetti fanno gli spavaldi con numeri farlocchi per cercare di farci dimenticare cosa comporti la fine del superbonus, ma i 6 mila addetti del settore per cui è stata approvata la richiesta di cassa integrazione su 26 mila in totale potrebbero pensarla diversamente. D’altronde, era piuttosto prevedibile: come ricorda sempre Luca Orlandi sul Sole 24 ore, il comparto delle piastrelle nel 2023 ha diminuito la produzione di oltre il 25% anche perché, oltre alla fine del superbonus, c’è anche la crisi della domanda di tutti i mercati più sviluppati, dal -25% della Francia al -30 della Germania, per arrivare agli USA che, nel 2023, hanno registrato 1 milione e 300 mila edifici in costruzione in meno rispetto all’anno precedente e, quindi, di piastrelle italiane non ne hanno più bisogno. E il comparto della ceramica non è manco quello messo peggio: nonostante la retorica sulla transizione ecologica e la mobilità dolce, infatti, un comparto che è sull’orlo del collasso è – inaspettatamente – quello delle bici che, per la prima volta dal 1975, scende sotto la soglia dei 2 milioni di pezzi, 1,3 milioni in meno rispetto ad appena 2 anni fa. Unica cosa a tenere è l’esportazione della gamma più alta “che ad esempio va alla grande in Cina” sottolinea Piero Nigrelli dell’associazione di categoria ANCMA: mica in Francia o negli USA.
In tutto, ricorda Orlando, “sono in calo 13 settori su 16”; a fare eccezione sono le armi, che segnano un bel +43%, e poi l’alimentare, ma è una vittoria di Pirro: appena +0,6%. Troppo poco, ad esempio, per salvare la Fiorucci di Santa Palomba, alle porte di Roma, anche se qui c’è una mezza buona notizia: l’azienda, infatti, ha ritirato la procedura di licenziamento collettivo per tutti i suoi 211 lavoratori; si limiterà a chiudere un pezzetto alla volta, dopo aver mandato un po’ di personale in prepensionamento e aver incentivato, con l’80% del salario per un anno, l’uscita volontaria degli altri. Insomma: una vera e propria ecatombe, che però non impedisce a Giancazzo Giorgetti, alla MadreCristiana e a tutti i pennivendoli che gli vanno appresso di sfrucugliarci le gonadi con gli annunci in pompa manga sull’occupazione record. Anzi!
Dall’anno scorso, infatti, Eurostat e ISTAT hanno introdotto un trucchettino contabile che prevede venga aggiunto agli occupati anche chi è in cassa integrazione per meno di 3 mesi l’anno e che a gennaio, appunto, erano il 44% in più di un anno prima, e non è l’unico inghippo: il solo calo demografico, infatti, di default, a bocce ferme, fa aumentare la percentuale di occupati di circa 0,3/0,4 punti; e poi, appunto, c’è il fenomeno ormai totalmente fuori controllo del part time involontario, che riguarda circa il 60% dei circa 4,3 milioni di lavoratori complessivi in part time. Risultato, appunto: il numero degli occupati è a livelli record; il numero delle ore lavorate, invece, è inferiore di quasi il 10% rispetto al 2008. Ecco spiegato com’è che le famiglie che sono sotto la soglia assoluta di povertà, nonostante un componente abbia un contratto regolare di lavoro dipendente, sono cresciute in un anno dall’8,3 al 9,1%: “Il lavoro povero, malpagato e con poche ore” sottolinea Valentina Conti su La Repubblichina “si conferma snodo cruciale e irrisolto del problema povertà in Italia”. E tutto questo rischia di essere solo l’antipasto: come ricorda Luca Orlando sul Sole 24 ore, infatti, il drastico calo della produzione industriale è dovuto in particolare al fatto che le aziende hanno i “magazzini saturi”, mentre la domanda è “generalmente debole, sia in Italia che all’estero”; questo significa che l’anno scorso, nonostante ci sia stato comunque un calo della produzione, le aziende sono state fin troppo ottimiste.
Insomma: al contrario di noi uccellacci del malaugurio, si sono letti gli editoriali de Il Foglio e si sono fatti trascinare dall’ottimismo dei vari Marco Fortis e non gli è andata esattamente benissimo; fino ad oggi, giustamente, ci siamo concentrati sugli imprenditori che non investono perché si spartiscono i dividendi e li vanno a giocare al casinò delle bolle speculative USA e anche sul pubblico che tira la cinghia perché è tornato il culto mistico dell’austerity. E va tutto bene. Qui però c’è un problemino in più: nonostante sia pubblico che privato non abbiano investito una cippa, quello che hanno prodotto nel 2023 gli è rimasto in magazzino. Non è un nodo da poco: a mancare è proprio la domanda, prima di tutto quella interna, con il doppio dei poveri di 15 anni fa e le famiglie che hanno dato fondo a tutti i risparmi accumulati da nonni e genitori quando l’Italia era una socialdemocrazia. Risultato: nella vendita al dettaglio siamo al ventesimo mese consecutivo di calo dei consumi. E poi anche nel resto del giardino ordinato, a partire, appunto, dal nostro principale mercato – che è la Germania – che, prima, ci ha trasformato in suoi subfornitori e, poi, ha deciso di far chiudere le aziende che fornivamo per far contenti gli americani, che inseguono il sogno della reindustrializzazione e che, magari, possono anche importare un po’ di più dall’Italia, soprattutto in alcune nicchie di mercato che non ritengono strategiche e che ci lasciano, gentilmente, in appalto.
Ma è un giochino che non può bastare; il punto è che l’Occidente collettivo nel suo complesso è condannato alla stagnazione e, in questo gioco a somma zero, la domanda sposta il suo baricentro a nostro sfavore: dal vecchio continente, che ci comprava diverse cosine, agli USA, che si limitano a comprarci due cazzate. Col resto del mondo, invece – quello che cresce -, abbiamo scelto di complicarci la vita tra decoupling o derisking; forse qualcuno non ha fatto proprio benissimo i suoi calcoli o, forse, sa che tanto tutte queste pippe stanno a zero e che il nostro padrone ha deciso che, nel futuro, ci dobbiamo solo occupare di costruire obici e cannoni per tenere impegnata la Russia. Di sicuro c’è che ci siamo infilati in un vicolo cieco e che non saranno gli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie a indicarci la strada per uscirne; abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto dalla radice e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

P.S.: un nutrito gruppo di ottoliner ha appena dato vita a MULTIPOPOLARE, l’associazione degli amici di Ottolina Tv che vogliono portare i nostri contenuti fuori dalla bolla distopica del mondo digitale e permettere a chi si riconosce nei nostri contenuti e nelle nostre modalità di costruire una vera e propria comunità fatta di persone in carne ed ossa; stanno organizzando iniziative di presentazione e di tesseramento in tutto il territorio. Se siete interessati a dare una mano e a mettervi in contatto, scriveteci a [email protected]. Il primo evento è previsto per sabato 30 marzo a partire dalle 15 nella sede romana di Risorgimento Socialista, in viale Giotto 17.

E chi non aderisce è Paolo Mieli















L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

Per farlo però, abbiamo bisogno del tuo sostegno:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su PayPal e GoFundMe.

E chi non aderisce è Christine Lagarde