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Tag: extraprofitti

L’ignobile teatrino di Meloni la svendipatria in ginocchio a Bruxelles per trattare la resa italiana

Come cambiano rapidamente le cose! Soltanto lunedì, tutta la propaganda filogovernativa era in brodo di giuggiole e annunciava una rivoluzione imminente: Meloni alza la posta titolava il Giornanale; cambieremo anche l’Europa. Nuova UE? si chiedeva il combattivo Maurizio Beldidietro su La Verità; Meloni ci mette la faccia: “Grazie a una donna che non ha mai rinnegato il suo passato” sottolineava Beldidietro “il nostro Paese ha più peso di prima, forse addirittura di quando a condurlo era san Mariopio da Goldman Sachs”. A galvanizzare l’orgoglio dei fintosovranisti era stata l’astensione dei partiti di maggioranza quando, pochi giorni prima, era arrivata nell’aula del parlamento europeo la riforma del patto di stabilità, una non riforma che, dopo una breve pausa, reintroduce i dogmi religiosi dell’austerity, ma on steroids perché, nel frattempo, il debito pubblico è aumentato a dismisura e i tassi d’interesse sono letteralmente esplosi e, nonostante gli annunci, al momento non sembrano destinati a diminuire granché. Come ha affermato Madis Muller, il governatore della Banca centrale estone, a Bloomberg “I rischi geopolitici comportano rischi per l’inflazione” e “la Banca centrale europea non dovrebbe affrettare ulteriori tagli dei tassi dopo giugno”, un concetto che ha ribadito anche il vicepresidente della Banca centrale Luis de Guindos lunedì da Londra davanti ai membri dell’Euro 50 group, una delle tante conventicole informali che collaborano alla definizione dell’agenda delle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo: “Anche se prevediamo che l’inflazione ritorni al nostro obiettivo del 2% l’anno prossimo, le prospettive sono circondate da rischi sostanziali” ha affermato; “La situazione geopolitica, soprattutto in Medio Oriente, pone un particolare rischio al rialzo per l’inflazione”. Tradotto: non scommettete su una riduzione rapida dei tassi d’interesse perché ci rimarreste scottati.
La reintroduzione del patto di stabilità, anche se riformato, con un debito esploso e i tassi di interesse alle stelle significa una cosa sola: la mazzata definitiva allo stato sociale e una bella lunga fase di recessione senza via d’uscita che, alla fine del giro, si traduce immancabilmente esattamente in quello che – a chiacchiere – avrebbe dovuto scongiurare e, cioè, un rapporto debito/PIL sempre peggiore, perché se mentre provi a tagliare la spesa il PIL, inevitabilmente, crolla, il rapporto sempre lì rimane (quando non peggiora); una spirale perversa che conosciamo già benissimo e che, a questo giro in particolare, più di ogni altro paese riguarda proprio l’Italia, che non ha nessuna chance di uscirne viva. Se non fosse per la cazzimma dei patrioti della maggioranza che, la settimana scorsa, hanno mostrato i denti: ricordate? 24 aprile, Libero: Patto di stabilità, gli italiani si astengono. I partiti del centrodestra: riforma poco coraggiosa, la cambieremo dopo il voto. La riforma del patto è “un’occasione mancata da parte della UE” denunciava la Lega; “Anziché puntare su un netto cambiamento rispetto al passato, la UE ha scelto di non voltare pagina rispetto a un modello economico che ha mostrato tutti i suoi limiti, in cui prevale l’aspetto dell’austerità”. La cosa divertente è che a fargli la pubblicità migliore, come spesso accade, anche a questo giro è stata l’opposizione e la sua incredibile macchina propagandistica: No al patto UE, Meloni dà battaglia titolava La Stampa; La Repubblichina rilanciava con un gigantesco UE, il patto tradito: incoerenti e inaffidabili, la retromarcia della destra ci allontana dall’Europa. Il Domani, che ormai sembra proprio una caricatura degli aspetti più cringe della sinistra ZTL, era letteralmente in lacrime: Patto di stabilità, figuraccia dell’Italia: la destra si astiene; completamente scollegati dalla realtà e obnubilati dai fiumi di alcol che innaffiano, giustamente, le innumerevoli apericene delle terrazze romane in stile La grande bellezza, i sinistronzi sono davvero convinti che accusando Meloni & company di essere scorretti nei confronti dell’establishment di Bruxelles, l’elettore medio si ravveda e corra a confessare i suoi peccati a Carletto librocuore Calenda.
E’ esattamente lo stesso, identico, tragicomico film che era andato in scena ai tempi della tassa sugli extraprofitti delle banche: ricordate? La propaganda fintosovranista filogovernativa aveva annunciato in pompa magna l’introduzione, da parte del governo dei patrioti, di una sacrosanta tassa sui giganteschi profitti che le banche hanno realizzato truffando letteralmente i loro correntisti, che non avevano ricevuto un euro di interessi sui loro depositi mentre le banche incassavano cifre stratosferiche da mutui che, grazie all’aumento dei tassi di interesse, erano raddoppiati; la sinistra ZTL allora, invece che sottolineare la portata limitata dell’iniziativa e fomentare le folle a non accontentarsi delle briciole, aveva avuto la geniale trovata di difendere le banche e i banchieri multimiliardari: “E’ un attentato al libero mercato”; “Così metti a rischio i conti delle banche”. Quando si dice essere in sintonia col sentimento popolare… Allora, ovviamente, noi ci buttammo come degli avvoltoi a banchettare sulle carcasse della sinistra ZTL e dedicammo un intero video a questo epic fail dei progressisti che odiano il volgo e l’interesse nazionale; come ampiamente prevedibile, però, manco il tempo di festeggiare la prima misura vagamente popolare di questo governo di svendipatria ed ecco che erano già cominciati ad arrivare i primi indizi di marcia indietro fino a che, in mezzo al silenzio totale, la tassa non è scomparsa nel nulla: era stato uno scherzo che, tra l’altro, nel frattempo aveva permesso a una manciata di speculatori di incassare qualche centinaio di milioni con la più banale e prevedibile manovra di scommesse al ribasso che puzza di vera e propria truffa da chilometri di distanza. Alla fine di quel giro, nella sfrenata competizione a chi svende meglio gli interessi del Paese, il governo dei fintosovranisti era riuscito a superare anche la sinistra ZTL; come sarà andata a finire a questo nuovo giro?
Prima di scoprirlo, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi sui nostri canali e attivare tutte le notifiche: a voi porta via 10 secondi di tempo; per noi fa la differenza e ci aiuta a provare a evitare la guerra a colpi di armi di distrazione di massa combattuta, fino all’ultima puttanata, da sinistra ZTL e alt right.
Dopo l’esperienza traumatica dell’inspiegabile scomparsa della tassa del governo dei patrioti sugli extraprofitti della banche rapinatrici, a questo giro, prima di accanirci sull’ennesimo epic fail delle groupies di Mario Monti ed Elsa Fornero, abbiamo deciso di aspettare di vedere come andava a finire la faccenda e – devo confessare – non è stato per niente facile; la serie di assist che c’hanno fornito, infatti, è veramente ragguardevole: tra tutti, una menzione speciale per il prestigioso premio analfoliberale della settimana va senz’altro all’editorialista della Repubblichina Andrea Bonanni. Bonanni sottolinea come quello che è andato in scena al parlamento europeo è “il plateale fallimento dell’attuale classe politica italiana” perché “il ritorno del patto pone dei limiti alla spesa”, ma “le nuove norme sono molto più morbide” che in passato e, per un paese indebitato come l’Italia, rappresentano “una scelta obbligata dal buon senso”, soprattutto dal momento che permettono comunque “di continuare gli investimenti produttivi”, che è un po’ come dire che dare una vaschetta di prugne a uno che si sta squagliando per la cacherella è una scelta di buon senso, dal momento che – altrimenti – le prugne andrebbero buttate per terra e si sporcherebbe il pavimento e che, comunque, bisogna essere felici perché a queste prugne c’hanno levato il nocciolo (e quindi morirai disidratato entro un paio di settimane, ma almeno, nel frattempo, non ti strozzi).

Francesco Lollobrigida

Ciononostante abbiamo resistito e, immancabilmente, anche a questo giro il governo degli svendipatria non ci ha tradito: Via libera al nuovo patto di stabilità titolava martedì La Stampa: sì dell’Italia dopo l’astensione in Aula. Il sì definitivo del governo è arrivato nell’ambito della riunione dei ministri dell’Agricoltura dove, ad astenersi, i barricaderi italiani hanno lasciato da soli i poveri belgi: una figura di merda talmente epica che il titolare del dicastero, l’uomo che fermava i treni, il cognato d’oro d’Italia, al secolo Francesco Lollobrigida, non ha avuto manco il coraggio di presentarsi; c’ha mandato il suo vice che, tra l’altro, è un leghista. Uno sgambetto in piena regola che il principale partito di governo aveva pianificato da tempo: quando, la scorsa settimana, anche Fratelli d’Italia aveva sconfessato l’azione del governo con l’astensione, infatti, la colpa era stata attribuita proprio ai leghisti che avevano deciso di astenersi comunque; e così, per non fare la figura dell’unico partito che obbediva ciecamente alla disciplina anti-italiana di Bruxelles, regalando una marea di voti ai loro alleati/competitor aveva costretto a fare altrettanto anche al partito della madrecristiana. D’altronde Il Giornanale lo rivendicava pure: “Il nodo politico” scriveva “era tenere la maggioranza compatta per evitare fughe del Carroccio in vista delle elezioni”. Ad esser maligni, viene quasi da sospettare che Giorgia la madrecristiana, sempre alla ricerca dell’approvazione dei suoi superiori (come col bacino sulla fronte di Rimbabiden) sia magari pure andata a chiedere il permesso, della serie fateci lanciare quest’arma di distrazione di massa, che tanto non comporta niente, altrimenti capace alle europee vi trovate con una marea di parlamentari leghisti in più ed è peggio per tutti, che quelli sono amici di Putin e non è detto siano sempre completamente appecorati come noi. Con l’approvazione definitiva della riforma, ora, come riassume La Stampa, si va incontro a un “taglio deciso e a ritmi serrati del debito, maggiore riduzione del deficit, e poi riforme strutturali a gogo” e a differenza del vecchio patto di stabilità che sì, era più rigido, ma era talmente rigido e irrealistico che alla fine nessuno l’aveva mai rispettato e le infrazioni ormai finivano sistematicamente nel dimenticatoio, col patto riformato “Le regole dovranno essere attuate da subito, pena multe salate che potrebbero arrivare già a giugno”.
Ma perché Giorgiona la madrecristiana e il suo cerchio magico, cresciuti nel mito di Mussolini che Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per l’Italia (cit. Giorgia Meloni), si riducono a imporre all’Italia manovre lacrime e sangue per fare contento l’establishment globalista e liberale di Bruxelles che tanto odiano? Prima di tutto perché è gratis: l’unica opposizione reale al partito unico della guerra e degli affari temporaneamente rappresentato da Giorgia la madrecristiana, infatti, è quella di Giuseppe Conte e dei 5 stelle, l’unico che non si è limitato a mettere la testa sotto la sabbia con l’astensione, ma ha votato contro; “Questo è un governo di patrioti che sta svendendo l’Italia” ha commentato in modo molto ottolino. Ma lo spettro di Daddy Conte non sembra poter impensierire minimamente Giorgia la madrecristiana anche perché, come è stato ampiamente dimostrato, non gode del sostegno dell’establishment di Bruxelles e di Washington senza il quale, molto banalmente, in Italia al governo non ci vai o se, per qualche bug temporaneo nel sistema, ci vai, duri come un gatto in tangenziale.
L’unica opposizione possibile perché organica all’establishment (ancora più di Giorgia stessa) rimane, appunto, quella della sinistra ZTL, dove regna sovrana l’egemonia delle oligarchie transnazionali rappresentate dal gruppo GEDI, un’opposizione che condivide con Giorgia tutte le misure anti-italiane e antipopolari – dalla politica internazionale all’austerity come strumento della lotta di classe dall’alto contro il basso – e che basa tutta la sua battaglia politica sulla guerra culturale che però, ormai, sembra aver definitivamente perso. Giorgia lo sa benissimo ed è per questo che domenica scorsa gli ha dedicato il grosso del lungo comizio che ha tenuto per la chiusura della convention di Fratelli d’Italia a Pescara, scaldando i cuori della sua fan base: La Meloni si candida e promette una spallata alle follie green dell’UE titolava entusiasta La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana. Oltre all’immancabile crociata contro l’ideologia green, il discorso di Giorgia è un decalogo esaustivo di tutte le armi di distrazione di massa messe in campo negli anni dai fintosovranisti: dall’Europa che volevano si liberasse della sua identità religiosa e oggi invoca la chiusura delle scuole per la fine del Ramadan al politicamente corretto, tanto di moda nei salotti bene dei quartieri chic delle grandi città occidentali, per finire con l’esigenza di continuare a parlare di mamma e di papà in un’epoca che ha perso il senso dei confini dettati dalla natura, Giorgia coglie con maestria tutte le occasioni che un dibattito pubblico a dir poco demenziale gli ha offerto su un piatto d’argento; e allo zoccolo duro del blocco sociale che la sostiene, tanto basta.
E alla fine anche agli altri, tutto sommato, va bene così perché, nel frattempo, l’agenda del partito unico degli affari e della guerra procede incontrastata su entrambe le gambe: quella militare da un lato – e, cioè, la costruzione della NATO globale e la guerra totale contro i paesi che si ribellano all’imperialismo fondato sul dominio del dollaro e del pentagono – e quella finanziaria – e, cioè, la finanziarizzazione dell’economia degli alleati vassalli di Washington, che è la precondizione affinché gli USA possano permettere alle colonie di armarsi senza temere che le colonie stesse usino la loro forza militare per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché totalmente dipendenti e subordinati al capitale finanziario gestito dai monopoli finanziari privati a stelle e strisce. L’approvazione della riforma del patto di stabilità da parte del governo degli svendipatria dopo il teatrino dell’astensione della settimana scorsa, fa parte esattamente di questo vero e proprio progetto eversivo e anticostituzionale e totalmente bipartisan: una fetta enorme della nostra spesa pubblica, infatti, serve a finanziare il sistema previdenziale e quello sanitario; obbligare il nostro paese, grazie al vincolo esterno, a contenere il deficit mentre sempre più soldi servono per pagare gli interessi sul debito, significa – in soldoni – tagliare drasticamente pensioni e sanità. E quello che manca dovranno pagarlo direttamente i cittadini che, dopo 30 anni di stagnazione salariale, devono essere costretti a destinare una quota sempre maggiore del loro misero reddito residuo ai fondi privati che gli garantiranno di avere una pensione dignitosa e di potersi curare in qualche modo; e questi fondi che gestiscono i soldi (che prima potevamo spendere allegramente per vivere dignitosamente e, d’ora in poi, serviranno per evitare di morire di fame o di malattie) sono i mattoncini di base dell’economia completamente finanziarizzata che le diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra stanno costruendo sulla nostra pelle. Ma non vi incazzate, mi raccomando: pensate che, secondo quanto prospettato da Draghi e da Letta, una bella fetta di queste risorse serviranno per più che raddoppiare la nostra industria bellica, che è indispensabile per andare a sterminare i bambini palestinesi e chissà di quale altro popolo in futuro; insomma, è un sacrificio, ma tutto sommato è per una buona causa.
Al piano distopico della privatizzazione di pensioni e sanità (che la Meloni rende sempre più necessario grazie al suo sì al nuovo patto di stabilità) dedica un paio di articoli molto istruttivi l’inserto economico de La Repubblichina, il principale giornale della finta opposizione al governo dei fintosovranisti: il primo pubblicizza un grande evento di Affari & Finanza dedicato alla previdenza complementare e fa un quadro esaustivo della cuccagna che attende le oligarchie finanziarie; l’articolo, infatti, ricorda come se oggi, in media, la nostra pensione è pari all’81,5% del nostro ultimo stipendio, nel 2050 questa percentuale, nonostante l’aumento dell’età lavorativa, scenderà al 67,6% che per la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani, molto banalmente, non è sufficiente per vivere. “In questo scenario” sottolinea l’articolo “ben si capisce come il ricorso alla previdenza complementare possa ribilanciare la componente pubblica destinata ad assottigliarsi sempre più”; eppure, continua rammaricato l’articolo, “nel nostro paese sono ancora in pochi ad aver intrapreso questa strada”: secondo le stime dello Studio Ambrosetti “La previdenza pubblica oggi contribuisce per il 75% al reddito degli individui con più di 65 anni, mentre la previdenza complementare solo per il 5,3%”. In Germania, elenca con malcelata invidia, sono già al 13,7; in Francia al 15,4 – e questi sono i dilettanti; tra i professionisti, nel Regno Unito si arriva al 41,8, nei Paesi Bassi al 44,9. Le risorse gestite dalla previdenza complementare in Italia sono, in soldoni, ancora spiccioli: appena 223 miliardi, il 12,7% del PIL; non ci compri nemmeno il 10% di una big tech americana (e infatti siamo a un decimo della media OCSE). Quel che manca ancora è una vera e propria miniera d’oro.

Il gruppo JEDI

Il gruppo GEDI sul tema ha organizzato una mega convention che vedrà la partecipazione di tutti i peggiori squali della finanza che discuteranno di come accelerare la finanziarizzazione; ovviamente si parlerà anche di un po’ di cazzate, come l’educazione finanziaria che oggi “colloca l’Italia tristemente all’ultimo posto tra i paesi europei”, ma la ciccia, ovviamente, sta tutta da un’altra parte: rendere il ricorso alla previdenza integrativa sempre più urgente e inevitabile tagliando tutto il tagliabile e, in questo senso, la previdenza deve lavorare in tandem con la sanità. Gli italiani, infatti, possono ancora illudersi di potersi accontentare di sopravvivere con pensioni nettamente inferiori ai loro salari in uscita perché, comunque, hanno ancora accesso a un servizio sanitario che, per quanto devastato, è ancora universale e gratuito; per incentivarli, quindi, il modo migliore è raderlo letteralmente al suolo e, già che ci siamo, affidare quel poco che rimane ad altri fondi integrativi.
Ed è a questo che è dedicato l’altro articolo di Affari & Finanza: Per la sanità integrativa l’obiettivo è far crescere la platea degli iscritti titola. La frustrazione per i privati, nel caso della sanità integrativa, è ancora maggiore che nel caso della previdenza perché la torta, ad oggi, è stata appena appena intaccata: in tutto, infatti, in Italia ad oggi sono iscritti a fondi sanitari integrativi soltanto 16,5 milioni di italiani e raccolgono appena 4 miliardi di euro all’anno; e in grandissima parte si tratta di fondi di categoria, previsti dai contratti collettivi nazionali. Una roba che puzza ancora troppo di socialismo anche se, sottolinea Nino Cartabellotta della Fondazione GIMBE, ha già fatto i suoi bei danni: quando sono stati istituiti nel 1992, infatti, i fondi integrativi dovevano essere dedicati sostanzialmente solo alle prestazioni che non rientrano nei livelli essenziali di assistenza che dovrebbero essere garantiti dal servizio sanitario pubblico; parliamo quindi di prestazioni odontoiatriche, fisioterapia, check up, prevenzione e robe simili, “ma nel corso degli anni” ricorda Cartabellotta “una serie di provvedimenti normativi varati da diversi governi ha previsto che i fondi possano erogare anche fino all’80% delle prestazioni offerte dal servizio sanitario nazionale”. Ora, quindi, che l’idea dei fondi integrativi, passo dopo passo, si è evoluta verso una sostituzione del servizio sanitario e con la spesa sanitaria pubblica che è già oggi il fanalino di coda dell’Europa (ed era già previsto venisse ridotta di poco meno del 15% nei prossimi 3 anni prima ancora che si tornasse a parlare di austerity), la torta è bella pronta per essere infornata e servita agli oligarchi. E su questo, i fautori delle follie green e del politicamente corretto e quelli della grande rivoluzione conservatrice, come la definisce Sechi su Libero, un modo di fare pace lo trovano sempre.
Contro il disegno eversivo del partito unico della guerra e degli affari e contro le armi di distrazione di massa della guerra culturale tra scemo e più scemo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Saviano

LA GRANDE TRUFFA DELL’AUTO ITALIANA – Che fine hanno fatto i 220 miliardi regalati agli Agnelli?

“La famiglia miliardaria degli Agnelli, che con la sua casa automobilistica negli anni ‘70 impiegava oltre 170 mila persone” scrive il Financial Times “è stata una regalità industriale italiana per oltre un secolo, corteggiata da tutti i governi che si sono succeduti, attraverso incentivi e politiche di favore”; “adesso, non più”. Dopo la sfuriata contro gli extraprofitti delle banche, la Giorgiona nazionale, per la seconda volta, trova il coraggio di dire apertamente quello che ogni italiano che non abbia subito una lobotomia totale ha sempre pensato e – per la prima volta nella storia dei primi ministri di questo paese – si scaglia contro la stirpe più parassitaria della storia italiana contemporanea. Nel caso degli extraprofitti delle banche non finì proprio benissimo, diciamo: dopo una bella overdose di retorica da è finita la pacchia, giusto il tempo di far incassare qualche decina di milioni agli speculatori al ribasso ed ecco che la tassa veniva già abbondantemente ridimensionata fino a ridursi a una minchiata tale da non trovare neanche più spazio nella legge di bilancio; non c’è motivo di credere che, a questo giro, possa andare meglio. Ciononostante, inveire contro gli eredi di una stirpe che, da oltre un secolo, viene sommersa da aiuti e incentivi pubblici di ogni genere senza restituire mai una seganiente è sempre un esercizio benefico e liberatorio e quindi, con grande gioia, ci uniamo a gran voce al coro: GLI AGNELLI CI HANNO ROTTO IL CAZZO. Stellantis aveva promesso il ritorno a 1 milione di veicoli prodotti in Italia: sono fermi a 750 mila. Nel 2022 ha registrato profitti record e nei primi sei mesi del 2023 ancora un altro record: li hanno distribuiti come dividendi e c’hanno ricomprato le azioni, e non hanno investito un euro – manco per la carta igienica; a maggio a Pomigliano i lavoratori si sono dovuti fermare due ore perché, come riportava addirittura Bloomberg, “Lo stabilimento è sporco, i bagni puzzano e mancano pure le tute da lavoro: i lavoratori devono aspettare mesi per sostituire quelle vecchie e logore”. Nel frattempo non hanno fatto altro che elemosinare altri incentivi e altri favori e quando la nostra Giorgiona, giustamente, li ha mandati a cagare, Tavares su Bloomberg ha risposto con le minacce: “Se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mette a rischio il mercato italiano e i nostri impianti, a partire da Pomigliano e Mirafiori”. Detto fatto: a marzo 2260 operai di Mirafiori se ne andranno in cassa integrazione e potrebbe non essere una cosa passeggera; erano impiegati nelle linee della Maserati e dell’unico veicolo elettrico del gruppo costruito in Italia, la 500e. Per i nuovi modelli Maserati bisognerà aspettare anni e la 500e non è competitiva; senza un altro modello di grande consumo – è l’opinione unanime di tutti gli analisti – Mirafiori è spacciata.

Gli Agnelli

Però, in realtà, un investimento in Italia gli Agnelli l’hanno fatto: si sono comprati il gruppo GEDI. A differenza di Stellantis non produce profitti, ma ne vale la pena: tra Repubblica e La Stampa dell’addio all’Italia di Stellantis non c’è traccia. Al suo posto, questa roba vergognosa qua: “La nuova Lancia riparte dall’Italia”; “I nostri valori sono la storia, il design e una visione ambiziosa per il futuro”: è l’informazione mainstream ai tempi dell’editoria in mano agli oligarchi, una fabbrica di armi di distrazione di massa, opuscoli promozionali al posto delle notizie. Di fronte alla rivoluzione dell’elettrico l’automotive europeo si è fatto trovare completamente impreparato e, inevitabilmente, il primo anello a saltare è quello più debole: ci accontenteremo delle sparate inconcludenti della Meloni come per gli extraprofitti delle banche o, a questo giro, ci diamo finalmente una svegliata e ci prepariamo a vendere cara la pelle?
Nel 2023 produzione ferma a 750 mila veicoli titolava in prima pagina ieri Il Sole 24 Ore: “L’obiettivo del milione rischia di essere archiviato”. Lo smantellamento dell’automotive italiano, programmato scientificamente da Stellantis con la copertura dei media comprati ad hoc dalla famiglia Agnelli, procede inesorabile: la quota del milione di veicoli prodotti, infatti, non è stata fissata a caso; è la massa critica minima necessaria per tenere in piedi tutto il settore che, con poco oltre 160 mila persone impiegate in oltre 3 mila aziende, è il cuore di quel poco che rimane del nostro manifatturiero. “Siamo nati al fianco della FIAT nel 1980” ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato della Promax Spa Nicola Pino al Sole “e grazie a loro ci siamo internazionalizzati, ma questi volumi produttivi ci mettono in ginocchio”: tra Melfi e il Piemonte, la Promax, che produce sedili, occupa circa 1000 persone; erano 1.600 giusto una quindicina di anni fa. Tutto merito di Stellantis che copre il 60% delle commesse: “Un milione di veicoli è la cifra minima per provare almeno a risalire la china, anche se i buoi sono già scappati, e il terreno perso è difficilmente recuperabile”; “La questione” sottolinea Il Sole 24 Ore “è emersa con drammaticità a Melfi, dove le aziende della componentistica e le imprese dei servizi sono nate intorno allo stabilimento ex FIAT, e che ora si trovano a corto di commesse”.
A fare una bella e utile cronologia del massacro, sempre su Il Sole 24 Ore, ci pensa il sempre ottimo e puntualissimo Paolo Bricco; la sua ricostruzione parte dal 2004: all’epoca, ricorda Bricco, “la FIAT era tecnicamente decotta. E quando arriva Sergio Marchionne, il gruppo perde due milioni al giorno”. Dopo 5 anni arriva l’acquisizione di Chrysler, la più malconcia delle Big Three di Detroit: “L’operazione funziona” sostiene Bricco “ma il nuovo gruppo, FCA, è frastagliato, sconnesso, disomogeneo. E di sicuro il baricentro non è più italiano”; d’altronde, come sottolineava Marchionne, è “la fusione di due società povere”e, per risalire la china, non trova di meglio che cominciare a staccare dei pezzi che si spostano “a Londra per la migliore fiscalità” e “ad Amsterdam per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”. Questo è un aspetto fondamentale che molto spesso non viene citato: il codice civile olandese, infatti, stabilisce che una società per azioni può stabilire liberamente il numero di voti per ogni azione detenuta da determinati soci che, ovviamente, rappresenta un vantaggio gigantesco per gli azionisti più forti perché gli permette di controllare la società anche senza maggioranza, un altro dei dispositivi tecnici che, negli ultimi decenni, ha favorito la concentrazione del potere economico nelle mani di pochissimissimi. “IVECO – CNH, che fa trattori e macchine movimento terra” ricorda Bricco “è la prima”; seguiranno poi FCA, Exor, Ferrari e Magneti Marelli, il gioiello della componentistica che poi sarà ceduto al fondo KKR, quello che recentemente s’è comprato pure la rete digitale di Telecom grazie al lavoro diplomatico dell’ex direttore della CIA David Peatraues. Nel frattempo, ricorda Bricco, “in Italia accadono due cose”: la prima risale al 2010, quando viene annunciato il piano Fabbrica Italia – mica pizze e fichi, ma, come scrivevano nero su bianco Marchionne e John Elkann in una lettera agli azionisti, “Il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”, così straordinario che dopo poco più di un anno, senza che nel frattempo si fosse mossa foglia, veniva ritirato. Per la seconda tappa bisognerà poi aspettare il 2016 quando, sempre in pompa magna, viene annunciato il fantomatico Polo del lusso che, a partire dalla sinergia tra Alfa Romeo e Maserati, doveva attirare altri marchi internazionali di prestigio come Audi e Mercedes e proiettare nel futuro l’Italia dell’auto, ma – ricorda Bricco – “anche il polo del lusso non va bene. E un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”.

Gli italiani

Poi, appunto, c’è la vendita di Magneti Marelli: è il 2018 e FCA incassa la bellezza di 6,2 miliardi; i fondi speculativi sono predatori, ma a volte pagano bene. Sarebbero stati dei bei soldini per provare a rilanciare la produzione in Italia, ma è troppa fatica; gli azionisti di maggioranza di FCA, grazie anche proprio al voto multiplo permesso in Olanda, impongono una scelta lungimirante: i quattrini vengono spartiti come super dividendi, e dall’automotive finiscono chissà dove. Di fronte a questa cronologia impietosa, sostiene Bricco, quelli che oggi si scandalizzano per l’indifferenza degli Agnelli rispetto alle sorti dell’Italia (e che sono rimasti muti negli ultimi 15 anni) fanno abbastanza ridere; la storia degli Agnelli, da decenni, è – come titola il suo prezzo Bricco – una storia alla Prendi i soldi e vendi. Ma quanti soldi hanno preso? Una stima che circola spesso sono 220 miliardi, ma “probabilmente” sottolinea Bricco “sono molti di più”; nessuno, però, lo saprà mai perché, continua Bricco, “è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (e non solo la FIAT) si è più volte ristrutturata a spese del bilancio dell’INPS”. Di sicuro, conclude Bricco, c’è “che il Paese ha dato molto. E il bilancio è del tutto a favore della fu FIAT”. Con la fusione con PSA, ovviamente, le cose non potevano che peggiorare: mentre la Francia diventava un socio forte direttamente con le azioni detenute dallo Stato, a rappresentare gli interessi dell’Italia rimanevano, appunto, solo gli Agnelli; non esattamente una botte di ferro, diciamo, e in una fase che per il decotto automotive europeo – totalmente incapace di reggere la concorrenza cinese dove, nella transizione e nell’elettrificazione, si investono cifre spropositate da anni e anni e dove si sono raggiunte un’economia di scala e un’efficienza ineguagliabili – è di per se un discreto bordello. Risultato: quel poco che si mette sul tavolo per difendere gli insediamenti produttivi tradizionali va a tutelare la produzione francese, e quella italiana viene abbandonata. La nuova 600 elettrica si produce in Polonia, la Panda elettrica in Serbia, ma l’assemblaggio finale – per provare a reagire alla concorrenza cinese – non basta, ed ecco così che arriva la goccia che fa traboccare il vaso: come riporta Bloomberg, Stellantis avrebbe inviato una lettera ai suoi fornitori italiani nella quale segnalava le straordinarie opportunità di investimento in Marocco.
Non è un paese a caso; 11 novembre, South China Morning Post: “La Cina punta sul Marocco mentre la nazione nordafricana diventa il centro della rivoluzione dei veicoli elettrici”; “La vicinanza del Marocco all’Europa, l’abbondanza di minerali essenziali e gli incentivi fiscali” scrive la testata di Hong Kong “hanno posto il Marocco al centro del settore dei veicoli elettrici”. “Nell’ambito della tendenza globale al nearshoring” continua “per accorciare le catene di approvvigionamento le aziende cinesi si stanno ora schierando nel Paese nordafricano”: come vi abbiamo raccontato svariate volte negli ultimi mesi – al di là delle tesi strampalate di chi avversa l’elettrico perché gli piace il rombo del motore e altre segate varie – l’automotive del prossimissimo futuro è elettrico e l’unica speranza che ha l’Europa di non venire completamente esclusa dai giochi – come avvenuto con i microchip e le piattaforme digitali e come sta avvenendo di nuovo, in modo ancora più preoccupante, con l’intelligenza artificiale – è trovare il modo di integrare le catene del valore con l’unica superpotenza manifatturiera mondiale, e cioè la Cina; il resto sono chiacchiere, soprattutto da quando gli USA hanno deciso che per giocarsi la loro partita era tornato il tempo del protezionismo più feroce, e se le istituzioni e la politica europea non fanno i conti con questo dato materiale incontrovertibile, vorrà dire che i produttori europei l’integrazione coi cinesi la faranno fuori da casa nostra. E in questo processo l’Italia, che è l’anello debole del vecchio continente, non poteva che fare da apripista.

El Kann

Ingaggiare qualche dissing contro gli Agnelli, che ormai l’Italia l’hanno abbandonata da mo’, sicuramente fa sempre piacere e sicuramente – giustamente – esalta un pezzo di elettorato, ma se continui a fare lo zerbino di Bruxelles e di Washington nella loro guerra ideologica contro Pechino, finito il piacere per l’industria italiana, a casa, comunque, non hai portato nulla, esattamente come per la tassa sugli extraprofitti delle banche. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce: da una parte, al netto di tutte le contraddizioni, ci sono pace, investimenti e sviluppo; dall’altra, oligarchie predatorie e venti di guerra e, al di là di qualche battuta anche simpatica, la Giorgiona nazionale da che parte sta l’ha sempre fatto capire piuttosto chiaramente. Contro la sua propaganda abbiamo bisogno di un vero e proprio media che perculi gli Agnelli come Giorgia e più di Giorgia, ma che al contrario di Giorgia stia dalla parte del mondo nuovo che avanza e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

Alessandro Volpi – come le banche ci hanno fregato tutto e hanno registrato profitti mai visti

Il punto di partenza è rappresentato dagli straordinari risultati che stanno avendo le banche poi realtà non soltanto le banche. In realtà numerose società sono stanno registrando profitti che sono di natura veramente stellare e per usare questo senso Stella Antiseri è una e una di queste. Ma mi concentrerei sul fenomeno intanto delle banche perché secondo me è rilevante per capire alcuni aspetti della situazione nella quale ci troviamo. I dati sono oggettivamente impressionanti. Partiamo dal caso degli Stati Uniti. Ci sono appunto grosso modo sei banche che in maniera diversa nelle sei principali banche hanno fatto in nove mesi profitti per quasi 100 miliardi di dollari. Tenuto conto del fatto che escono da un anno precedente altrettanto significativo, quindi stiamo parlando veramente di un boom che queste banche hanno avuto in termini di risultato. Le banche Sappiamo quali sono gli episodi, anche la più importanti, la più significativa. Ormai banca di questo pianeta Wells Fargo, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Bank of America, quindi queste banche, sia pure ripeto con risultati tra loro un po diversi, ma alla fine hanno partorito in sei per nove mesi profitti per 100 miliardi è una cifra di assoluto rilievo se vogliamo considerare il caso italiano come elemento di confronto, per cui non si tratta di fare i confronti, ma di conferma di questo quadro generale e anche della sostanziale globalizzazione finanziaria che ormai si è venuta a determinare. Nel caso italiano abbiamo profitti per 15 16 a seconda di come si calcolano le banche più importanti del Paese per una quarantina di miliardi 43 miliardi, tra l’altro con un dato anche qui secondo me interessante, che vediamo. Cioè ricordiamoci che alcuni di queste banche avevano perso una decina di miliardi dopo l’annuncio di capitalizzazione dopo l’annuncio dell’imposta sugli extraprofitti.

Beh, quei 10 miliardi sono ampiamente recuperati. Anzi, dalla seduta. Se noi facciamo un confronto fra ieri, l’altro ieri e la seduta successiva al tracollo hanno riguadagnato 7 miliardi. Quindi evidentemente ormai imposero gli extraprofitti, è stata ampiamente digerita. Io resto dell’idea che quell’operazione fosse stata un’operazione di tipo speculativo, di serie trading di tipo speculativo. E però le banche viaggiano con degli dei profitti che sono assolutamente straordinari negli Stati Uniti, come come da noi. Quindi un dato chiaro ora. La prima domanda che si farebbe chiunque, diciamo così, con un minimo di ragionevolezza. Ma le banche crescono così tanto? Ma l’economia reale che tipo di riflesso ha? Perché noi, almeno per quelli che hanno un minimo di conoscenza di storia economica in genere le banche si sono quantomeno correlate. Non dico sempre perché poi sono stati i finanziamenti, soprattutto a partire dagli anni 80. Però una relazione con l’andamento reale dell’economia c’è sempre stato. Ecco noi, per esempio, nel caso italiano sappiamo che abbiamo 43 miliardi di utili nelle banche, con una crescita complessiva del Paese che se ci togliamo l’inflazione è pari allo zero. Quindi è evidente che non esiste un rapporto diretto fra i profitti delle banche e la crescita del Paese. È evidente che le ragioni dei profitti delle banche non sono riconducibili alla crescita del Paese. Ma questo vale anche per gli Stati Uniti, sia pure in maniera diversa. Gli Stati Uniti hanno attraversato una fase decisamente meno sfavorevole di quella europea. Però ugualmente la natura dei profitti delle banche non si giustifica con la crescita dell’economia reale. Quindi sgombriamo il campo dal dire che le banche crescono perché l’economia cresce e che le banche danno un contributo reale alla crescita dell’economia reale. Ecco, questo mi sembra che questi numeri siano tangibilmente e forse mai come oggi chi ha chiaramente espliciti del fatto che non esiste una correlazione diretta fra l’aumento dei profitti e quello che è invece l’andamento dell’economia? E allora vengo al secondo punto, al di là del dato numerico. Ma allora da cosa dipende questa forte crescita dei profitti delle banche negli Stati Uniti? E ripeto, non voglio fare troppe differenze con l’Europa, dove certamente il fenomeno è meno polarizzato, ma è altrettanto altrettanto marcate e di cui l’Italia rappresenta uno dei pochi, uno dei possibili elementi di esemplificazione da cosa dipende, ma intanto dipende certamente dalle politiche delle banche centrali. Questo ormai lo scrivono in tutte le salse i rapporti, lo scriveva con grande chiarezza persino il Giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore di domenica, perché alla fine questo sta diventando un dato eclatante. E cioè gli alti tassi praticati dalla banca centrale determinano appunto il fatto che si genera un divario fra quanto le banche fanno, chiedono di remunerazione, cioè quindi quanto i tassi di interesse chiedono quando fanno un prestito e quale è invece il tasso di interesse che utilizzano per remunerare i loro risparmiatori? C’è il famoso differenziale, quello che avrebbe dovuto essere considerato della famosa imposta profitti. I tassi sono molto alti nel momento in cui faccio un prestito io banca e quando io invece io banca devo remunerare i miei clienti. Il tasso è decisamente molto più basso e quindi c’è un differenziale decisamente decisamente forte e quindi anche questa è una fonte, è una fonte molto, rilevante. Una delle considerazioni che spesso si fa è rappresentata dal fatto che sia aumentata nel momento in cui aumentano i tassi, aumenta certamente il margine. Per quanto riguarda le banche, in termini di prestiti, però, si svalutano i titoli di cui sono in possesso e il prezzo dei titoli di cui sono in possesso, magari in questo caso anche delle loro stesse azioni. Beh, ciò che abbiamo visto nel corso degli ultimi mesi in maniera sempre più crescente. Vedremo nei prossimi mesi, proprio in virtù di questa enorme liquidità determinata dai profitti maturati e che le banche riescono a fare operazioni di buy back, cioè si comprano buona parte dei titoli che rischiavano di essere svalutati in maniera tale che danno immediatamente un segnale agli operatori finanziari che quei titoli sono titoli protetti e quindi con quel tipo di operazione impedisce che, come si può dire, il dato negativo dell’aumento dei tassi? Voglio essere ancora più chiaro aumentano i tassi, hanno dei margini che sono significativi rispetto a quanto pagano ai loro clienti, quindi hanno un utile, come si diceva, di un centinaio di miliardi. Destina una parte di quello utile, quello che non viene destinato direttamente al dividendo lo destinano a ricomprare una parte dei titoli che rischierebbero di perdere valore, a cominciare dai loro. Questo gonfia ulteriormente il valore del titolo e ovviamente fa sì che la forza di quella banca diventi in termini finanziari ancora più marcata. Ma aggiungerei ancora altri due elementi dentro questo ragionamento perché fanno molti, fanno molti, molti soldi. E intanto certamente è evidente, come dicevo prima, che questo tipo di profitti vengono tradotti in dividendi, quindi diventano una remunerazione finanziaria. Non vengono investiti se non in misura molto limitata nelle attività delle imprese e comunque certamente non nella remunerazione dei dipendenti di queste imprese che anzi di queste imprese bancarie. Perché poi a tutti gli effetti stiamo parlando nel caso dei sei big degli Stati Uniti di banche con numero di dipendenti molto significativo le banche italiane sono oggi di strutture Usa questo termine produttive in termini di industria finanziaria che hanno un maggior numero di dipendenti. Cioè qui non è che in Italia noi abbiamo più le grandi industrie manifatturiere con migliaia di dipendenti oggi in Italia. Se andate a vedere che la grande occupazione si lega ad Eni ed Enel e poi si lega appunto ai dipendenti dei colossi bancari, beh che cosa stanno facendo? Stanno licenziando, stanno drasticamente riducendo il numero dei loro dipendenti, stanno utilizzando i prepensionamenti in maniera massiccia, stanno utilizzando tutte le forme di digitalizzazione di informatizzazione e di riduzione dei servizi territoriali.

Quindi alla fine, sul piano dei costi hanno un contenimento radicale dei costi che passa attraverso quello che ormai viene dato anche per scontato e forse persino dai sindacati, cioè di una riduzione di un dimagrimento del numero del personale e degli occupati del settore del settore bancario, del settore bancario, come poi abbiamo visto nel caso anche di altri, di altri settori dove appunto l’aumento dei profitti non significa più un tentativo di mantenere in vita la manodopera o di remunerare maggiormente. Per cui si può dire paradossale. Io ho provato anche a scriverlo che i salari sono diventati una variabile indipendente al contrario. Cioè una volta c’era la grande battaglia per dire che il salario va difeso, anche perché ha a che fare con il potere d’acquisto dei lavoratori, anche in condizioni di criticità. Qui si penserà ai dipendenti. Perché anche quando le cose vanno benissimo, i salari si riducono e sono indipendenti dall’andamento complessivo dei profitti dell’azienda e si determina un forte, direi fortissimo, processo di dimagrimento organico di questi grandi gruppi vari. Negli Stati Uniti vale per le banche, vale per le big tech, vale nell’automotive. Vale per i caso, per caso europeo e italiano. Poi c’è un altro aspetto ancora che è di cui abbiamo accennato anche nei nostri colloqui, che è rappresentato dal fatto che una parte significativa, se andate a vedere i bilanci di queste banche, una parte significativa di questi, diciamo profitti, deriva da attività che non sono l’attività di prestito in senso stretto, ma sono l’attività di gestione del risparmio che viene indirizzato alle banche attraverso società di cui le banche sono sostanzialmente proprietarie e che è il risparmio di coloro che si affidano alla previdenza complementare e alla sanità complementare.

È cresciuto in maniera esponenziale nel corso degli ultimi cinque anni, il volume di risorse destinate alle società che si occupano di risparmio gestito. Le società di risparmio gestito sono per il 90% dei casi in Italia, ma con percentuali analoghe in giro per il mondo un pochino più basse, legate o di proprietà delle banche. Le banche ricevono quindi la liquidità che sono i risparmi di coloro che ovviamente non riescono più ad avere una pensione soddisfacente o si immaginano di non avere più una pensione soddisfacente. Sanno che il sistema contributivo è certamente molto punitivo, sanno che il sistema sanitario si sta progressivamente riducendo e quindi destina una parte del loro salario, della loro retribuzione a forme di risparmio gestito. Le forme di risparmio gestito finiscono inevitabilmente attraverso queste società, appunto, che sono di risparmio gestito nelle mani delle banche, le quali utilizzano questa enorme liquidità per fare scelte di natura finanziaria. Comprano titoli, vendono titoli, comprano se serve titoli di Stato con questa liquidità e beneficiano del fatto che il rendimento sui titoli di Stato è più alto di quanto non lo fosse qualche anno fa. Per chi poi alla fine è la quota parte di debito, nel caso italiano, per esempio, nelle mani delle banche è ancora altissimo. Quindi è evidente che se le banche hanno comprato il debito e ora non lo comprano più con le risorse della Bce ma con il risparmio gestito degli italiani, maturano comunque interessi significativi su cui vengono riscosse commissioni. Quindi, alla fine della fiera questa trasformazione profonda che sta subendo il sistema bancario per cui non è più un erogatore di credito per il sistema produttivo o lo è sempre meno o se lo è lo è, ha costi che sono significativamente alti e quindi che escludono parti importantissime del sistema micro produttivi, cioè delle imprese più piccole e per certi versi anche delle famiglie che non hanno garanzie di tipo immobiliare sufficientemente adeguate. Qui le banche, invece che fare questo mestiere che storicamente hanno svolto, diventano soggetti che si ricordano i propri titoli che operano sul margine dei tassi di interesse e che si affidano, affidano molti dei loro destini. In questo caso direi decisamente positivo all’attività di bancassicurazione, quella che si chiama la bancassicurazione, cioè io mi Lego con grandi assicurazioni che raccolgono risparmio gestito e risparmio gestito, è cresciuto perché è tutta una serie di servizi non sono più garantiti dallo Stato, quindi bisogna auto prodursi e per autoprodursi e bisogna affidare i propri magri o grandi risparmi a soggetti finanziari che appunto poi hanno come terminale le banche, le quali su questi di questo tipo di con questo tipo di liquidità fanno dei margini che sono dei margini significativi. Quindi, paradossalmente, la banca si sgancia dal sistema produttivo e quindi perde il rapporto con l’andamento del Paese, diventa una sorta di sostituzione di uno stato sociale che è però estremamente oneroso per i risparmiatori, perché ovviamente se lo devono pagare e contestualmente favorisce dei margini per le banche stesse che prima le banche non avevano, Dal momento che quel tipo di attività, dalla sanità alla previdenza erano affidate, erano affidati allo Stato.

Questo negli Stati Uniti è un fenomeno colossale, è un fenomeno gigantesco nel nostro Paese sta progressivamente rapidamente crescendo con dei numeri che ormai riguardano più di una decina di milioni di italiani. Vorrei aggiungere poi due ulteriori considerazioni. La prima mettiamo insieme gli Stati Uniti con l’Europa. C’è sicuramente il fenomeno della crescita dei tassi di interesse praticati dalla Federal Reserve negli Stati Uniti, la Banca centrale europea, sono all’origine della crescita del sistema dei sistema bancario e dei profitti del sistema bancario. C’è però una differenza importante e che serve a spiegare anche perché i numeri sono chiari alla fine l’economia americana cresca anche in queste condizioni. Se è vero, come dicevo prima, che la mole dei profitti è talmente grande che non può essere giustificata dalla crescita dell’economia americana. Però è altrettanto vero che l’economia americana non ha un andamento stagnante come l’economia europea. Ma allora perché Qui ecco, qui c’è un altro elemento che secondo me vale la pena di fare, su cui vale la pena riflettere e ragionare. Il che è sostanziale. Questo negli Stati Uniti, appunto. Gli alti tassi di interesse praticati dalla Banca centrale americana producono, come del resto in Europa, e spero di essere chiaro in questa esplicitazione producono un aumento dei tassi di interesse a cui viene con cui viene retribuito il debito pubblico. Cioè la Federal riserva aumenta il tasso di interesse e lo porta sostanzialmente intorno al 5%. È evidente che i titoli di Stato americani si devono allineare al tasso, come avviene in economia. Si devono allineare al tasso di interesse tradotto e determinato dalla banca centrale, cioè se la banca centrale applica un tasso di interesse che è appunto vicino al 5%, bisogna che anche i tassi del debito pubblico americano, cioè quanto il governo degli Stati Uniti, il governo federale li paga per in indebitarsi sia in linea con il tasso di interesse praticato dalla banca centrale. Ora per gli Stati Uniti, però, questo problema non esiste. Nel senso che lo sappiamo ormai dalla regola mix che questo maggiore quantitativo di interessi che sono pagati sul debito non sono pagati come in Europa attraverso l’aumento del carico fiscale attraverso la spending review sono pagati producendo nuovi dollari, cioè sono sostanzialmente quindi si alzano i tassi di interesse. Questo determinerebbe una criticità per gli Stati Uniti, che sarebbe quella di dover pagare i tassi di interesse più alti sul proprio debito.

Gli Stati Uniti che cosa fanno? Gli Stati Uniti producono una maggiore quantità di dollari per pagare quei tassi di interesse e questo alla fine ha due benefici. Il primo beneficio è che appunto non sentono l’effetto dell’aumento dei tassi, perché coprono quell’aumento dei tassi. Non ripeto con maggiori pressioni fiscali per avere le risorse per pagare il debito o con contrazioni e tagli di spesa, ma sostanzialmente stampando. Quindi non c’è un effetto recessivo e non solo e garantiscono tassi di interesse più alti a cui gli altri Paesi del mondo si devono adeguare. Perché è chiaro che se i tassi di interesse americani pagano i Treasury bond, pagano il 5%, il quattro e 90%, bisogna che anche gli altri Paesi, anche i titoli di Stato dei paesi europei, si adeguino. Allora è evidente che torno a dire che gli alti tassi di interesse sono lo strumento attraverso cui le banche traggono un chiaro beneficio nelle loro operatività e quindi hanno profitti significativi. Sono uno degli elementi. È chiaro che quegli alti tassi di interesse negli Stati Uniti praticati dalla Federal Reserve vengono coperti con i dollari e quindi non partoriscono l’effetto negativo della necessità di finanziare quella maggior spesa per gli interessi che nel caso di Stati Uniti sono quasi 1 miliardi di dollari, con tagli di spesa o con tasse e in più con quei tassi di interesse attraggono il capitale estero. Ora tutto questo in Europa non succede. Tutto questo in Europa non succede perché noi abbiamo una banca centrale che quando alza i tassi di interesse e quindi di fatto impone ai Paesi come nel caso italiano, di pagare interessi più alti sul proprio debito. Beh, quegli interessi che lo Stato italiano deve pagare, che sono 100 miliardi ormai già nel 2023 noi non li non li produciamo con nuovo euro ma producendo nuovi euro. Ma li paghiamo sostanzialmente facendo manovre finanziarie che taglino la spesa perché li dobbiamo pagare noi. Nel nostro bilancio dello Stato italiano ci scriviamo come voce di spesa, cioè di spesa corrente, 100 miliardi di euro. Quei 100 miliardi vanno coperti come la spesa sanitaria, come la spesa per le pensioni. Non possiamo ricorrere alla solarizzazione, appunto all’autorizzazione alla monetizzazione del debito. Cioè questo mi sembra un dato che dobbiamo avere chiaro nel confronto con il contesto. Il contesto americano è qui. Vengo all’ultimo punto perché l’ultimo punto, la famosa appunto differenza fra Stati Uniti ed Europa, la polarizzazione che consente agli Stati Uniti la monetizza del debito, quindi la copertura dei debito attraverso la produzione di cartamoneta di dollari americani. Ecco, è possibile negli Stati Uniti perché si è realizzata. E qui, lo abbiamo detto più volte, è la più formidabile concentrazione di ricchezza e di reddito finanziario. Mai conosciuta nella storia contemporanea. Perché se ancora una volta andiamo a vedere ma chi sono i proprietari delle sei banche che hanno fatto il botto di cui si parlava prima che hanno partorito 100 miliardi di profitti nel giro di nove mesi e che quindi i benefici erano in larga misura dei dividendi partoriti da questi 100 miliardi. La risposta è molto semplice noi troviamo in queste sei banche che la presidenza di tre fondi che sono i soliti mangia BlackRock ed è mediamente oscilla fra il 15 e il 20%. Cioè sono gli azionisti di riferimento. Per intenderci c’è un microchip per quanto riguarda Morgan Stanley. Perché Morgan Stanley per avere questo blocco dei soliti tre Big Three appunto, ha anche una presenza di Mitsubishi, che è intorno al 20%, e Bank of America che aggiunge ai tre principali fondi il fondo Berkshire Hathaway di Warren Buffett. Quindi alla fine noi abbiamo che queste grandi banche sono di proprietà di un numero limitatissimo di fondi, i quali fondi sono, come abbiamo detto più volte, i destinatari del risparmio di milioni di americani e sempre più diventeranno destinatarie di risparmi anche di milioni di europei e di altre parti del mondo, che peraltro sono gli stessi fondi che sono proprietari di gran parte del sistema produttivo e comunque, soprattutto del sistema societario delle principali società del mondo. Quindi questi signori hanno una infinita liquidità. Ora questa infinita liquidità, questi signori lo vorrei dire con chiarezza. Questi tre fondi hanno deciso che la tengono in dollari e la polarizzazione in sta nella misura in cui i fondi che hanno in mano qualcosa come 22 23.000 miliardi di dollari di liquidità che stanno cominciando in maniera sempre più pervasiva a comprare titoli di Stato americani che sono i soggetti che sono presenti in tutte le multiutility del nostro Paese, francesi e inglesi, che sono azioni bene, quindi hanno deciso che le transazioni del mondo si fanno in dollari e non ce ne sono le leggi internazionali che hanno deciso che la liquidità finanziaria va veicolata in dollari. Emettono titoli in dollari di derivati, fanno scommesse in dollari. Cioè questo vuol dire una montagna complessiva che peraltro è molto superiore all’economia reale. Cioè è dieci 23. Non sappiamo più neanche quale sia l’apporto reale, quindi una montagna di carta che può essere accresciuta a dismisura con l’effetto delle speculazioni che però ha un fine. Ha il fine che tutta questa roba continua a girare in dollari. Ma se gira in dollari vale il ragionamento di cui si parlava prima Vale il fatto che la Banca centrale europea, la Federal Reserve, a differenza della Banca centrale europea, può alzare i tassi di interesse. Il debito pubblico americano costa di più, ma alla fine se lo pagano stampando dollari perché essi lo possono pagare stampando dollari. Perché evidentemente i grandi player che ormai hanno nelle mani che è così, Perché se andate a vedere di chi sono le principali assicurazioni che fanno la raccolta del risparmio gestito, beh andate a vedere. Ci trovate dietro che ci sono i tre grandi fondi mondiali, le banche, così le imprese. Così Quindi questi signori hanno deciso che la liquidità è il dollaro. A questo punto, al pari di alti tassi e in qualche modo, appunto, un debito che costa di più negli Stati Uniti ma finanziato con il appunto con l’utilizzo di nuova produzione di dollari, è un volano formidabile di cui il resto del mondo non dispone.

E questo è il punto per cui gli Stati Uniti alla fine si possono permettere delle manovre monetarie, come dire studiando la storia. Noi siamo passati dal mondo di Bretton Woods, dove le grandi potenze si mettono intorno a un tavolo e prova a definire qual è lo strumento monetario col quale fare i pagamenti internazionali. Avendo piena consapevolezza di quanto fosse rilevante. Basti pensare alle posizioni che aveva maturato John Maynard Keynes in quella. In quella circostanza a un mondo nel quale oggi e Bretton Woods non serve, oggi serve che in qualche stanza di qualche mega lussuosissimo albergo degli Stati Uniti si riuniscano i come i difficili e difficilmente identificabili proprietari di questi. Di questi fondi, che sappiamo essere legati da partecipazioni incrociate e per partorire le strategie che sono le strategie, diciamo di natura, Prima di tutto torna a dire valutaria e di definizione delle transazioni per capire dove va, dove va, dove va il mondo.