Skip to main content

Tag: europa

Macron dichiara guerra alla Russia per riconquistare la Francia e l’Europa

Per la rassegna stramba di oggi tornano le sagaci analisi dell’inarrivabile Tommaso Nencioni.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Xi Jinping in viaggio in Europa per dividere l’Europa?

video a cura di Davide Martinotti

La prossima settimana Xi Jinping andrà in Europa, con un’agenda piuttosto particolare: Francia, Serbia e Ungheria, tre paesi che normalmente non associamo l’uno con l’altro, ma che evidentemente per i cinesi rappresentano un priorità. Il tentativo è quello di inserirsi come cuneo nelle relazioni tra USA ed Europa, uno sforzo per cercare di attirare parti dell’Europa che la Cina ritiene potrebbero essere più in sintonia con la sua posizione. Ne parliamo in questo video!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Mettiamo fine all’Unione europea? – Perché il progetto comunitario è fallito e deve finire

Ti dichiari un europeista convinto? Pensi che, per essere competitiva, il destino dell’Italia non possa che essere negli Stati Uniti d’Europa? Sogni il giorno in cui, finalmente, portoghesi e moldavi potranno vivere in uno stesso Stato? Allora questo è il video giusto per te perché a giugno ci saranno le elezioni europee e, come ogni 4 anni, si presentano partiti e liste minacciose e figure ancora più ambigue e sinistre che si candidano a guidare le istituzioni: e, allora, oggi ci tocca fare un discorso che sappiamo un po’ per tutti difficile da digerire perché si tratta di nientepopodimeno che di mettere in discussione l’ultima grande utopia politica di almeno un paio di generazioni di europei (e anche noi, in fondo in fondo, ci abbiamo un po’ creduto); ma, arrivati a questo punto, sarebbe peggio continuare a far finta di nulla, riempirci la testa di rassicurante propaganda e aspettare che la catastrofe diventi irreversibile. E allora facciamo un bel respirone e diciamocelo senza paura: l’entrata dell’Italia nell’euro è stata un fallimento e questa Unione europea è un progetto finito. E, preso atto di tutto questo, le forze popolari europee hanno oggi il compito urgente di proporre una seria alternativa sociale e democratica a queste istituzioni comunitarie fondate sugli interessi delle oligarchie finanziarie, sulla guerra e sulla politica estera americana.
“Ma certo, hai ragione” penserà adesso l’europeista convinto “e il problema sono i sovranisti che impediscono una vera federazione; la soluzione è che ci vuole ancora più Europa! Il nostro destino sono gli Stati Uniti d’Europa; da soli gli Stati nazionali non potranno mai farcela da soli” (cit. europeista convinto). Calma! Calma! Perché su questo argomento non possiamo più permetterci di essere banali, superficiali o ideologici, ed è anzi questa adesione quasi religiosa al progetto di questa Unione europea e alla sua moneta ad aver causato i maggiori danni e ad aver tradito la speranza e l’idea di un vero soggetto geopolitico indipendente e competitivo con le altre superpotenze del mondo. Sì, perché – purtroppo – quando in Italia si parla di euro ed Unione europea ci si scontra ancora con un muro; un muro – come scrive il professore di economia Eugenio Pavarani nel suo articolo per La Fionda Il male della banalità – fatto prima di tutto di “luoghi comuni, di false credenze, di falsi miti, di informazioni distorte, di banalità”.
L’europeismo in Italia non è, infatti, una posizione politica tra le altre, ma è diventato come un tabù religioso; e persino sugli effetti negativi della moneta unica per la nostra economia, ormai dimostrati da una copiosa letteratura scientifica, non si può avere una discussione franca e razionale e, piuttosto che mettere in discussione la bontà e la speranza del suo sogno federalista, l’europeista convinto preferisce non ascoltare e guardare dall’altra parte. “L’euro è assurto a ruolo di indicibile, di totem, di feticcio” scrive il professore di economia a Cassino Gabriele Guzzi su Limes; “Invece di procedere in analisi equanimi ci si nasconde dietro a una religiosità europeista spesso molto sterile. Malgrado questo” conclude “lo iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale si fa ogni anno più insostenibile.” In questo video, non solo richiameremo alcuni dati fondamentali che dimostrano i danni del mercato unico e dell’euro per molte economie europee (compresa la nostra), ma ci soffermeremo soprattutto sulle resistenze culturali che, ancora oggi, impediscono a tanta opinione pubblica di affrontare in maniera obiettiva e realistica l’argomento della moneta comune e del progetto comunitario; un video europeista nello spirito perché avere a cuore il destino del nostro continente e dei popoli europei significa oggi ammettere il fallimento delle sue recenti e contingenti istituzioni politiche e la necessità, dalle loro ceneri, di costruire qualcosa di completamente nuovo.
Partiamo da un presupposto che dovrebbe essere ovvio e che, invece, non lo è per nulla: criticare la moneta unica, o le forme giuridiche e istituzionali dell’attuale unione a 27 membri, non vuol dire essere anti – europeisti; già questa equazione tra l’essere europeisti ed essere a favore del progetto delle politiche della Banca Centrale Europea e della Commissione puzza di ideologia e di propaganda da lontano un miglio. “Un paese maturo” scrive infatti Guzzi “dovrebbe valutare razionalmente l’opportunità di rimanere in un’istituzione come l’Ue. Non dovrebbe cimentarsi in petizioni di principio del tutto astratte. Uno Stato potrebbe considerare l’Europa il proprio punto di riferimento da un punto di vista storico, culturale, persino politico. Ma non dovrebbe porre nell’ambito dei valori una particolare istituzione storica, nata trent’anni fa, o peggio una moneta come l’euro. Su questa tipologia di decisioni è il pensiero critico, ossia la continua valutazione realistica delle opportunità, la dimensione su cui uno Stato maturo dovrebbe porsi. Non vaghi atti di fede.” E quindi questo video, lo sottolineo, non è nemmeno lontanamente un video anti – europeista, ma un video mosso da spirito costruttivo che, da una parte, riporta alcuni dati che dimostrano come l’Italia, insieme a molti altri paesi, sia stata oggettivamente danneggiata dalla moneta unica e, dall’altra, che riflette sul fatto che una nuova Unione tra le nazioni europee fondata sulla solidarietà, sul primato della politica sull’economia e sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti è, nei fatti, strutturalmente incompatibile con le attuali istituzioni comunitarie.
Partiamo dalla situazione attuale; negli ultimi due anni, l’idea che l’epidemia avesse rappresentato un momento rifondativo per l’Ue grazie all’emissione di eurobond si è scontrata con la realtà: non c’è stato nessun salto di qualità, nessuna prospettiva federalista. “Mentre il mondo brucia tra guerre e divisioni” scrive Guzzi “l’Ue continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa” e questo, come vedremo, non perché lo impediscono i sovranisti alla Orban (come subito starà pensando l’europeista convinto), ma perché sono esattamente queste le fondamenta e il progetto dell’Unione europea che emergono dai trattati. E’ esattamente questa l’Unione europea che hanno voluto le élite e che continuano a volere. Non è un incidente. Non è un errore da correggere per poter tornare sulla giusta carreggiata. È così che funziona perché è così che è stata pensata e, oltre agli Stati Uniti che sono da sempre dietro al progetto comunitario, anche piccole cerchie del grande capitale stanno infatti continuando a beneficiarne, naturalmente a spese dei ceti medi e popolari.
Ma partiamo dalla moneta unica: l’euro, ci dicevano, avrebbe reso più ricco e competitivo tutto il continente; a vent’anni dalla sua introduzione, i dati ci dicono esattamente l’opposto. L’Europa, prima dell’euro, aveva il PIL pro capite pari a quello degli Stati Uniti; oggi è a circa la metà. Nel frattempo, nessuna politica fiscale comune è stata fatta e questo non perché ci sono i sovranisti cattivi che lo hanno impedito (come ribatterà il nostro europeista convinto), ma perché non è nemmeno mai stata proposta in quanto non coerente con gli stessi principi fondativi dell’Unione europea. Nel contesto poi di questa perdita di competitività di tutto il continente – che già confuta uno degli argomenti preferiti degli europeisti secondo cui l’Unione europea e l’euro sarebbero fondamentali a competere meglio con le superopotenze – alcune economie hanno ricavato vantaggi dalla moneta unica e altre no (vantaggi a danno degli altri paesi membri, si intende). “Nei propositi iniziali” scrive Guzzi “l’euro avrebbe dovuto raggiungere diversi obiettivi. Tra gli altri, promuovere la crescita economica, ridurre le divergenze tra paesi, diventare un credibile competitore rispetto al dollaro. Dopo venticinque anni, possiamo dire che tutti questi obiettivi non sono stati raggiunti.” “Certo!” penserà l’europeista convinto: “E’ successo perché alcune classi dirigenti nazionali sono state più in grado di altre di sfruttare la moneta unica; non è colpa dell’euro, non è colpa della UE: è, come al solito, colpa dell’incompetenza dei singoli Stati nazionali ed è la prova che ci vuole più Europa!” (europeista convinto)
Ma, ormai, lo abbiamo imparato a conoscere il nostro europeista convinto; è la solita strategia argomentativa del benaltrismo, utile per non mettere mai in discussione la sua fede a prescindere da qualunque dato o argomento: per la strategia del benaltrismo i problemi non sono mai e poi mai legati all’Unione europea e all’euro che sono, sempre e comunque, un bene in sé, ma sempre e solo ai problemi interni delle nazioni, problemi che, invece, si risolverebbero – ça va sans dire – se queste si donassero completamente alle istituzioni comunitarie. Peccato che le cose non stiano proprio così e il caso dell’Italia è paradigmatico: da circa 20 anni il nostro paese ha smesso di crescere e sta vivendo un drammatico declino strutturale che ha inizio nella seconda metà degli anni ’90, proprio in coincidenza temporale con la fissazione del cambio nei confronti dell’ECU che poi, in continuità, è divenuto euro nel 1999; due grafici, che ricaviamo dall’illuminante articolo di Pavarani, fotografano la tempistica e l’entità del declino e non richiedono molti commenti.

Ecco: qui vediamo la famosa Italietta della liretta aumentare stabilmente il proprio PIL pro capite fino alla metà degli anni 90, diventando una delle più ricche e prospere comunità del pianeta, per poi cominciare il suo triste declino in coincidenza con l’introduzione dell’euro; questa curiosa coincidenza temporale, come scrive Pavarani, appare ancora più marcata se confrontiamo – secondo i dati Eurostat – il reddito pro capite italiano con la media dei 15 Paesi dell’eurozona più sviluppati.
Dalla tabella seguente e dal relativo grafico è possibile rilevare che, dopo un lungo inseguimento culminato a metà degli anni ’90, la distanza del reddito pro capite italiano dalla media (livello zero nel grafico) è bruscamente tornata su valori negativi e fortemente decrescenti.

Nel 1996 fu definitivamente stabilito il cambio della lira prima nei confronti dell’ECU, divenuto poi euro. “Dal confronto dei due grafici” scrive Pavarani “emerge una più precisa puntualizzazione temporale dell’inizio del declino, che viene a coincidere con la definitiva perdita della flessibilità del cambio”. Semplice coincidenza temporale? Si può anche continuare a pensarlo e sostenere che sia tutta colpa dei populisti che parlano alla pancia invece che alla testa delle persone, ma – come sottolinea Pavarani – ci si pone allora in aperto contrasto con una ormai corposa letteratura scientifica che ha individuato chiare relazioni di causa ed effetto; ad esempio l’economista J. E. Stiglitz che, nella sua opera dedicata all’euro (L’Euro), scrive che “La causa della crisi è da attribuire alla struttura stessa dell’Eurozona e alle politiche da essa imposte, non alle mancanze dei singoli Paesi”. Persino Giuliano Amato, non proprio un sovranista della prima ora, dichiarava “Abbiamo fatto una moneta senza Stato; abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta, senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato […]; non abbiamo voluto ascoltare le indicazioni della letteratura e oggi possiamo dire che era davvero difficile che l’unione monetaria potesse funzionare e ne abbiamo visto tutti i problemi”.
Non mi soffermerò adesso sugli aspetti tecnico – economici che stanno alla base dei gravi effetti negativi che l’euro ha avuto per la nostra economia e, per chi avesse voglia di farsi una prima idea su questo argomento, metto qui sotto in descrizione gli articoli di Pavarani e Guzzi; sta di fatto che il processo di integrazione e la moneta unica, per come sono stati progettati, non potevano che essere fonte di vantaggi per alcuni e, simmetricamente, di svantaggi per altri: fa parte del suo DNA, ma questo non ci deve stupire. Nata nel clima culturale della controrivoluzione neoliberista, è questa l’ideologia politica su cui si fondano i Trattati Europei e l’euro e che, tutt’oggi, guidano le istituzioni comunitarie; un’ideologia, come sappiamo bene, intrinsecamente oligarchica e fondata sul primato dell’economia sulla politica: “L’intervento dello Stato nel mercato, le politiche distributive, la tutela dei diritti sociali, sono contrastate dalle regole che l’Ue si è data e ostacolate dalle riforme che essa richiede ai Paesi membri” scrive Pavarani. “Le regole del gioco sono quelle del mercato e della concorrenza che premiano e penalizzano”; “Naturalmente” conclude il professore di economia all’Università di Parma “tutto questo è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al progetto di società prefigurato nella nostra Costituzione, e infatti l’Italia è stata fortemente penalizzata dalle dinamiche comunitarie, anche più di altri Stati, proprio per la difficoltà di adeguare il proprio modello sociale (e gli assetti giuridici, economici, politici e sociali) al paradigma imposto dall’UE.”
Ma se la stragrande maggioranza dell’impresa italiana è stata colpita, anche se in modi diversi, dalle politiche di austerità e dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro paese e solo piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato (e continuano a beneficiarne), come spiegare la persistente adesione di buona parte della classe media italiana alla fede europeista senza se e senza ma? È chiaro che le ragioni economiche non bastano e che siamo di fronte ad una forte resistenza ideologica e culturale che impedisce di guardare in maniera lucida e pragmatica alla realtà; e per capire più in profondità cosa ha significato e significa l’euro e l’Unione europea nel nostro inconscio collettivo, bisogna fare un po’ di storia. La firma del trattato di Maastricht avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia; l’anno prima c’era stata la caduta dell’Unione Sovietica con le sue catastrofiche conseguenze sul pensiero di sinistra occidentale. In quegli anni, insomma, l’Italia – con la fine della DC e del PCI – si ritrova in piena crisi istituzionale e sprovvista delle due grandi ideologie politiche che avevano dato un senso alla sua vita politica fino a quel momento: “Un intero sistema era collassato” riflette Guzzi “e le élite italiane valutarono il nostro paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali”; è allora qui che troviamo le radici dell’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica e al progetto comunitario che, per noi, non sono mai stati solo un utile strumento per mantenere la pace e portare avanti gli interessi nazionali, ma sono diventati la nuova grande utopia politica a cui fare riferimento, un’ideologia politica con caratteri quasi millenaristici che permea tutta la nostra cultura politica del terzo millennio. “L’unificazione europea divenne la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare quelle attese millenaristiche che caratterizzavano entrambe le tradizioni [comunista e cattolica]” sottolinea Guzzi: “un marchingegno teologico – politico per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato”; “Anche l’euro” continua “fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nuova identità strategico – culturale del paese”.
Ed è per questo che è così difficile, in molti ambienti, parlare realisticamente e serenamente di queste cose: perché l’ideologia europeista è fortemente intrecciata con la vicenda biografia del paese, con la nostra identità individuale e collettiva, con tutto il senso del nostro agire politico. Alla fine, però, la forza dell’evidenza colpisce sempre più forte e la realtà sono anni che ha incominciato a bussare nuovamente alla porta. Arrivati a questo punto manca, però, un ultimo gradino: senz’altro, l’europeista convinto si sente adesso un po’ scosso e sente forse i primi dubbi presentarsi alla sua coscienza, ma non si sente ancora pronto a rinunciare al suo sogno, alla sua più intima speranza e, cioè, che tra mille inciampi e contraddizioni, è in fondo solo questione di tempo e, prima o poi, gli Stati nazionali europei metteranno da parte le divergenze, di litigare tra loro e si convinceranno che l’unica cosa veramente razionale da fare è di dare vita agli Stati Uniti d’Europa “perché sarà anche vero che l’Unione europea è un progetto neoliberista che ha contributo a distruggere la nostra socialdemocrazia, sarà anche vero che l’euro ci ha danneggiati, che l’Europa ha perso competitività con le altre superpotenze e che gli Stati Uniti dirigono oggi la politica estera europea con ancora più facilità. Ma la federazione delle nazioni europee in stile americano! Quello, se vogliamo sopravvivere, non può che essere il nostro destino!” pensa l’europeista convinto. E non essendo altro che una fede, di fronte a questa prospettiva tutto è possibile, tutto è permesso, tutti i sacrifici sono giustificati; per l’europeista convinto gli italiani potranno, tra 30 anni, anche finire a cibarsi di vermi purché gli dicano che stiamo comunque andando nella direzione del Grande Progetto Federale. Scriveva Carlo Caracciolo su La Stampa il 16.11.2022: “L’idea d’Europa è immortale. Perché perfettamente irrealistica. Non mettendosi alla prova o rifiutandone gli esiti, resta articolo di fede… L’europeismo ideale è indifferente alle miserie dell’europeismo reale”.
Per approcciarci in maniera più realistica a questo tema, proviamo a porci le seguenti domande: quanto è verosimile, ad oggi, che i Paesi membri decidano di aderire ad un ordinamento federale che li priverebbe di ogni sovranità allo stesso modo in cui ne sono privi i singoli Stati della federazione americana? Quanto è probabile che i cittadini francesi, tedeschi, greci e croati rinuncino tutti insieme, nello stesso momento, alla loro Costituzione? Quanto è credibile che un cittadino della Baviera o della Lombardia possa gradire che le imposte da lui versate vadano a beneficio di cittadini della Romania o dell’Estonia? Ora, ammesso e non concesso che una federazione di Stati europei in stile americano che va dal Portogallo alla Lettonia risolverebbe qualcuno dei nostri problemi nazionali ed europei, ha però ragione l’europeista irremovibile? E, tra mille difficoltà e contraddizioni, le istituzioni europee stanno veramente remando in quella direzione e, ogni anno che passa, facciamo un piccolo passettino nella realizzazione di questo progetto?
No: pur ammessa la bontà del sogno dell’europeismo ideale, anche in questo l’europeismo reale è pronto a smentirlo perché non solo, come vedremo subito, la federazione degli Stati Uniti d’Europa non è nell’agenda e nei programmi delle istituzioni europee, ma è anzi in totale contraddizione con i Trattati e con lo spirito neoliberista su cui l’Unione è stata fondata; “La stragrande maggioranza delle persone che conosco sono certe che l’Ue sta seguendo un percorso lineare, diretto, ma ancora incompleto, che porterà alla creazione di uno Stato europeo” scrive Pavarani. “Sono altrettanto certo che, se prendessero coscienza che questa prospettiva appartiene esclusivamente alla dimensione del mito e che non ha nessuna radice nella realtà, la loro eurofilia probabilmente si scioglierebbe come neve al sole.” Benché lo faccia credere ai suoi cittadini, infatti, l’Unione europea non vuole avere una dimensione politica, autonoma e sovrana di tipo statuale: “L’attuale Unione europea” scrive Pavarani “non ha alcun bisogno dello Stato, della politica, di compiuti poteri legislativi ed esecutivi: le scelte politiche, quantomeno in materia economica, sono già state fatte; sono stabilite a monte, sin dall’origine, e sono cristallizzate nei Trattati, una volta per tutte”.
È vero che la costruzione che è stata realizzata presenta un evidente deficit democratico, ma questo era esattamente nei piani perché la democrazia implicherebbe che, con il voto, gli elettori possano cambiare la politica economica e in Europa non deve funzionare così; la sovranità che è consentita al popolo è soltanto la possibilità di cambiare il governo nazionale, ma senza cambiare politica economica perché questa è impostata sul pilota automatico determinato dalle regole e dai Trattati europei. In pieno stile neoliberista, il mitologico mercato – e quindi, in realtà, delle ristrettissime oligarchie che traggono beneficio dallo status quo – deve avere l’ultima parola e deve essere tenuto ben al riparo dalle interferenze e dalle distorsioni prodotte dalle istanze democratiche. Per quale ragione, chiediamoci, le élite economiche, che guidano le istituzioni europee con l’avvallo statunitense, dovrebbero volere sopra di sé il controllo di uno Stato federale democraticamente eletto? “I sognatori sonnambuli non hanno capito che l’ordinamento istituito dai Trattati non si colloca nella direttrice del loro sogno, non è una tappa nel percorso che porta ad un nuovo Stato sovrano, gli Stati Uniti d’Europa. Si è realizzato un altro sogno, ben diverso, che si colloca nella direzione opposta. È il sogno di coloro che si proponevano di liberare l’economia dall’ingombrante presenza pubblica; si proponevano di liberare il mercato dagli effetti distorsivi generati dall’intervento dello Stato nel conflitto distributivo e a garanzia dei diritti sociali attraverso politiche di welfare; si proponevano di sottrarre agli Stati le sovranità nazionali sulle politiche economiche e non certo per riproporle in una dimensione statuale più grande a livello accentrato” scrive Pavarani.
L’obbiettivo, raggiunto e consolidato nell’attuale assetto dell’Unione, era ed è il depotenziamento degli Stati nazionali e lo svuotamento dei poteri di intervento pubblico; non certo l’obbiettivo di costruire un nuovo Stato più grande che riproponesse su scala più ampia, a livello europeo, il modello degli Stati nazionali e, quindi, diciamolo una volta per tutte: l’attuale Unione europea non è un assetto istituzionale incompiuto da completare in senso federale attraverso alcune riforme. È già completa ed è perfettamente coerente al disegno iniziale: “Lo Stato federale non può essere un modello per il futuro per la semplice ragione che questo, come gli Stati nazionali, è concepito in base all’idea di sovranità statuale” conclude Pavarani “mentre l’idea che sta alla base del progetto di integrazione europea nasce, al contrario, proprio dall’istanza del superamento degli Stati nazione e della loro sovranità”. E questo non sono quei disfattisti anti-occidentali di Ottolina, Guzzi e Pavarani a dirlo, ma la stessa Unione europea: il 9 maggio 2022 si è conclusa la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dal presidente francese Macron; la mission della Conferenza è stata delineata in una dichiarazione comune e divisa in 9 temi su cui incentrarsi per il futuro:[1] cambiamento climatico e ambiente;
[2] salute;
[3] un’economia più forte, giustizia sociale e posti di lavoro;
[4] l’Ue nel mondo;
[5] valori e diritti, stato di diritto, sicurezza;
[6] trasformazione digitale;
[7] democrazia europea;
[8] migrazioni;
[9] istruzione, cultura, giovani e sport.
Come si evince, quando l’Unione europea si interroga sul suo futuro non prende nemmeno in considerazione l’opportunità di mettere all’ordine del giorno e di avviare una discussione in merito ai passi necessari, il tragitto verso un assetto statuale di tipo federale (e, infatti, non se ne fa cenno nel documento finale); la costituzione di uno Stato federale non è in alcun modo contemplata.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro che il mito degli Stati Uniti d’Europa ci viene venduto fin da bambini per continuare ad ingoiare tutte le schifezze e tragedie che il vero progetto dell’Unione europea, quello oligarchico, neoliberista e figlio dell’occupazione americana, ci costringe a subire; quello che contribuisce allo smantellamento della socialdemocrazia e alla lotta di classe dall’alto verso il basso. Gli Stati Uniti d’Europa come il nuovo oppio dei popoli europei, l’oppio a causa del quale da 30 anni abbiamo smesso di guardare con lucidità politica a quello che succede intorno a noi. E se anche tu non sei un europeista convinto e, quindi, non ti illudi che le oligarchie economiche filo americane che traggono vantaggio da questa Unione europea decideranno di suicidarsi da sole e pensi che solo la lotta e il conflitto politico faranno nascere un nuovo progetto politico ed economico dei popoli europei, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che combatta la loro propaganda finto europeista. Aderisci alla campagna di campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Il “piùEuropa” e il male della banalità | La Fionda

I BRICS sfidano l’Iimpero – Ft. Davide Rossi

Oggi il nostro Gabriele intervista Davide Rossi, storico del Novecento che si occupa delle più recenti dinamiche mondiali e di sistema-mondo. Davide ci conduce in una lunga carrellata sulle ultime tendenze in atto in India, Cina, Russia, America Latina (con particolare attenzione al Brasile di Lula), Africa, Medio Oriente, Europa e Nord America. Il ruolo dei BRICS è ormai centrale per capire la crisi in cui annaspa l’Occidente collettivo, alla ricerca di una via di fuga dalla crisi presente. Questa lunga discussione non dimentica la lotta del popolo palestinese contro la colonizzazione israeliana e il sionismo. Buona visione!

#BRICS #Cina #India #Russia #USA #multipolarismo #Brasile #Palestina

L’imperialismo a guida USA sta obbligando l’Europa a inviare truppe in Ucraina?

La guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo è in corso e non sarà un po’ di propaganda trumpiana acchiappacitrulli ad arrestarla; il consistente pacchetto di aiuti definitivamente approvato martedì scorso dal senato USA e, probabilmente, già reso esecutivo da Rimbambiden quando vedrete questo video, ha suscitato reazioni di sorpresa e di giubilo che sinceramente sono del tutto infondate. Come abbiamo sempre sostenuto da quando è iniziato questo patetico tira e molla nel congresso di uno dei paesi meno democratici del pianeta, che prima o poi gli aiuti sarebbero arrivati non è mai stato in discussione: quello che era in discussione, molto banalmente, era, al massimo, chi da questo tira e molla ci avrebbe guadagnato di più in termini di consenso in vista delle elezioni presidenziali del prossimo novembre e a cosa sarebbero concretamente serviti gli aiuti di fronte alla situazione concreta che, nel frattempo, si era andata determinando sul campo di battaglia; una situazione che, nelle ultime settimane, stava diventando così catastrofica da venire continuamente denunciata anche dai peggiori propagandisti filo – occidentali, pure troppo: nelle ultime settimane, infatti, è stato tutto un inseguirsi di titoli roboanti su un imminente crollo definitivo del fronte e di una debacle totale ucraina, un’eventualità che, come ha sottolineato Boris Johnson in persona (e, cioè, l’uomo che più di ogni altro si è speso per far naufragare i negoziati che avrebbero potuto congelare il conflitto già ormai due anni fa), rappresenterebbe “una vera e propria catastrofe: la fine dell’egemonia occidentale”.
Non è un’esagerazione: una vittoria totale della Russia nella guerra per procura in Ucraina, infatti, non metterebbe fine alla guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo, ma a quel che rimane della speranza dell’Occidente collettivo che questa guerra possa avere come esito finale una sconfitta totale del nuovo ordine multipolare e la restaurazione dell’unipolarismo USA, sicuramente sì; e chi pensa davvero che, grazie alle elezioni cosiddette democratiche, i cittadini USA potrebbero davvero decidere di permettere che questo avvenga, a mio avviso rischia di vivere completamente fuori dalla realtà. E’ un po’ come la polemica che ogni 3 per 2 riemerge sul potenziale default americano perché nel congresso parte il solito tira e molla per approvare l’ennesimo innalzamento del debito: a partire, in particolar modo, dall’inizio della terza grande depressione innescata dalla crisi finanziaria del 2008, con un’economia USA totalmente dipendente dalle politiche espansive finanziate a debito dal governo, immancabilmente – almeno un paio di volte l’anno – va in scena la commedia della faida sull’innalzamento del tetto del debito e, immancabilmente, la propaganda analfoliberale ci bombarda per qualche settimana con sempre i soliti titoli sugli USA a rischio default. La tesi è che Trump è un attore politico completamente irrazionale che è pronto a far esplodere il paese per un pugno di consensi in più; e siccome viviamo nel mito della democrazia come libero arbitrio, avrebbe anche ovviamente tutto il potere di farlo: il più grande impero della storia dell’umanità che potrebbe crollare così, da un minuto all’altro, solo perché quella mattina il matto di turno s’è svegliato male e gli girano i coglioni.
Ovviamente il mondo, a parte che nelle redazioni dei giornalacci mainstream, è leggermente più complicato di così; i grandi cambiamenti difficilmente avvengono così, quasi per caso, e l’ipotesi che un leader qualsiasi non tanto voglia, ma proprio concretamente possa starsene seduto lungo il fiume ad aspettare di vedere passare il cadavere della – per usare le parole di Johnson – egemonia occidentale puzza di becero complottismo d’accatto da mille miglia di distanza, che si presenti sotto forma di default dello Stato o di crollo del fronte. Ciononostante, anche se parlare di crollo definitivo del fronte sicuramente rappresenta un’esagerazione interessata, volta a spingere verso la tanto attesa risoluzione del teatrino che ha bloccato per mesi gli aiuti, la situazione sul campo è drammaticamente chiara: con l’antiaerea ormai alla canna del gas, i russi possono vantare un controllo dello spazio aereo quasi totale che gli permette di colpire le infrastrutture strategiche dove e come vogliono, senza svenarsi per saturare la difesa; a terra gli avanzamenti sono lenti e millimetrici, ma inesorabili e, sostanzialmente, lungo l’intera linea dello sconfinato fronte, cosa che aumenta esponenzialmente il depauperamento di uomini e mezzi avversari. Quanto riuscirà ad arginare questa deriva catastrofica il nuovo pacchetto di aiuti?
Prima di provare a capirlo nei dettagli, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra lunga guerra di logoramento contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche; a voi non costa niente, ma per noi è fondamentale e ci aiuta nella nostra missione di fare per accelerare, come dice Johnson, il declino dell’egemonia occidentale.

Jens Stoltenberg

“Gli Stati Uniti” scrive sul suo blog l’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar “stanno raddoppiando i loro sforzi per frustrare i piani percepiti dalla Russia per una vittoria militare assoluta in Ucraina entro quest’anno”; prima del pacchetto di aiuti sbloccato martedì dal senato USA, a suonare la carica era stato Jens Stoltonenberg che, nella conferenza stampa al termine della riunione dei ministri della difesa dei protettorati della NATO, aveva annunciato che erano state mappate “le capacità esistenti in tutta l’Alleanza, e ci sono sistemi che possono essere messi a disposizione dell’Ucraina”: Stoltoneberg si era detto colpito favorevolmente dagli “sforzi della Germania, inclusa la recente decisione di fornire un ulteriore sistema Patriot all’Ucraina”. Aveva anche annunciato che “oltre ai Patriot, dovremmo essere in grado di fornire anche altre batterie di Samp-T”: “L’Ucraina” aveva sottolineato “sta usando le armi che le abbiamo fornito per distruggere le capacità di combattimento russe, e questo ci rende tutti più sicuri. Quindi il sostegno all’Ucraina non è beneficenza. E’ un investimento nella nostra sicurezza”. Con tutto questo sostegno si è subito precipitato ad affermare a Zelensky “L’Ucraina avrà una chance di vittoria” e, dalle pagine de La Stampa, un instancabile Alberto Simoni – uno dei tanti giornalisti che, dal febbraio 2022, hanno già invaso la Piazza Rossa al fianco dei battaglioni Azov decine e decine di volte – ci fa sapere che “Con le armi che arriveranno, l’Ucraina potrà pianificare una controffensiva e recuperare oltre metà del territorio perso”.
Ma, probabilmente, è una visione leggerissimamente troppo ottimistica: dei 60 miliardi di aiuti militari sbloccati, infatti, il grosso servirà a riempire gli arsenali degli USA e a pagare le spese di tutto quanto di americano è direttamente coinvolto nell’area del conflitto a vario titolo. Di soldi veri per comprare armi vere da mandare in Ucraina, in realtà, ne rimangono meno di 14 miliardi; una fetta importante andrà in munizioni per le quali, però, ad oggi il problema non è mai stato la mancanza di soldi, ma la mancanza di cose che con quei soldi era possibile comprare concretamente: come ricorda anche Jack Detsch su Foreign Policy (che è altrettanto filoatlantista di Alberto Simoni, ma con un senso del pudore un pochino più accentuato) infatti, “Anche con l’approvazione del pacchetto di aiuti, la maggior parte dell’artiglieria di cui l’Ucraina ha bisogno non arriverà al fronte fino al prossimo anno”. “Il problema” avrebbe ribadito, sempre a Foreign Policy, la parlamentare ucraina Oleksandra Ustinova “è che c’è un’enorme carenza, a livello mondiale, di proiettili di artiglieria. Gli europei” avrebbe affermato “hanno detto che ci avrebbero fornito un milione di proiettili, ma ad oggi siamo a meno del 30%. Gli americani da parte loro invece hanno prosciugato le loro scorte e stanno effettuando consegne anche a Israele”; con l’approvazione del pacchetto di aiuti, commenta Detsch, “l’obiettivo dell’amministrazione Biden è ricostruire le scorte di munizioni del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di cui gli Stati Uniti potrebbero aver bisogno un giorno per combattere una propria guerra, consentendo così alla Casa Bianca margine di manovra sufficiente per iniziare a inviare artiglieria agli ucraini dai magazzini in Europa senza danneggiare la prontezza militare degli Stati Uniti”. “Ma l’aspettativa” continua Detsch “è che l’amministrazione trascorrerà gran parte dell’anno a ricostruire le scorte statunitensi ai livelli prebellici, mentre l’esercito americano punta ad aumentare la produzione di artiglieria a 100.000 colpi al mese entro la fine del 2025”.
Tutto sommato, secondo Franz-Stefan Gady dell’International Institute for Strategic Studies di Londra, nella migliore delle ipotesi l’Ucraina potrebbe arrivare ad avere a disposizione non più di 2.500 colpi al giorno mentre nel frattempo, sottolinea Detsch, “la Russia è sulla buona strada per produrre 3,5 milioni di proiettili nel 2024 e potrebbe riuscire a produrre 4,5 milioni di proiettili entro la fine dell’anno”; in queste condizioni (al contrario dei sogni bagnati delle bimbe di Bandera come Alberto Simoni) il massimo a cui si può realisticamente ambire, appunto, è non capitolare e, appunto, ridimensionare le ambizioni russe di chiudere la partita da vincitori entro l’anno e, magari, prendersi pure Karkiv e Odessa.
Per fare questo ovviamente, oltre a non finire totalmente i proiettili, quello che serve è fortificare il più possibile e, nel frattempo, ricostruire un minimo di antiaerea che impedisca ai russi di sfruttare il dominio dello spazio aereo per tirare giù tutto quello che ostacola l’avanzata delle sue truppe con le bombe plananti teleguidate; il problema, però, è che per costruire le fortificazioni ti servono o grandi mezzi meccanici o tanti uomini belli carichi: i grandi mezzi meccanici, però, o non ci sono o – anche quando ci sono – ci si va abbastanza coi piedi di piombo, perché se manca l’antiaerea per difendere le centrali elettriche, figurati se c’è per difendere i bulldozer e il rischio che il tutto diventi un micidiale tiro al piccione è piuttosto elevato. E sui tanti uomini è meglio stendere un velo pietoso; che siano addirittura belli carichi e in forze peggio che mai: per far finta di poter ambire alle 500 mila nuove reclute che già Zaluzhny, prima di essere defenestrato, aveva chiaramente dichiarato fossero il minimo indispensabile per tenere botta, Zelensky, dopo tanto tribolare, ha finito con l’abbassare l’età minima per il reclutamento da 27 a 25 anni. Il problema è che, in tutto, di cittadini ucraini in quella fascia d’età in tutto il paese ne sono rimasti circa 300 mila; a mantenere qualche parametro minimo per l’idoneità, la cifra si dimezza rapidamente: ed ecco, quindi, che al fronte ci va letteralmente di tutto – compresi, a quanto pare, i disabili, come dimostrerebbe un video virale dal fronte girato negli scorsi giorni che io, sinceramente, mi voglio augurare sia fake perché, altrimenti, dire che siamo messi male è un eufemismo.
Visto che fortificare per bene le linee difensive potrebbe essere una mission impossible, allora l’unica alternativa è dotarsi di missili terra – terra che possano spingere i russi a mantenere le retrovie il più lontano possibile dal fronte; ed ecco così che, finalmente, si parla dell’arrivo dei tanto agognati ATACMS con i loro circa 300 chilometri di gittata, una decisione che, fino ad oggi, gli USA avevano cercato di rinviare perché darebbe la possibilità agli ucraini di intensificare gli attacchi contro le raffinerie direttamente in territorio russo, una tattica che gli USA non sembrano gradire particolarmente visto che rischia di scatenare una corsa al rialzo del prezzo del petrolio che, alla fine, danneggerebbe più Rimbambiden e la sua corsa per la rielezione che non il bilancio russo. Ma ormai la situazione è troppo compromessa e anche questa piccola escalation è inevitabile, anche perché gli ATACMS – come riportavano le fonti anonime ucraine riportate da Politico un paio di settimane fa nel famoso articolo sull’imminente crollo del fronte ucraino – sarebbero indispensabili per pensare, un domani, di poter utilizzare gli F-16 senza vederli venir giù come mongolfiere bucate: secondo l’articolo, infatti, l’antiaerea russa aveva approfittato del ritardo nella scesa in campo del superjet americano per prendere le misure e l’unica possibilità, ora, era poter prendere di mira le installazioni antiaeree russe con missili a lunga gittata; il problema, però, è che gli ATACMS, nonostante costino una fraccata di soldi, non è che siano poi chissà che portento. Anzi, sono un po’ lentini; e che quindi siano in grado di colpire una postazione antiaerea ben protetta potrebbe essere l’ennesima speranza vana.

Maria Zakharova

Non sorprendono, quindi, le parole un po’ sprezzanti e altezzose spese dalla portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova alla vigilia dell’approvazione del pacchetto: “Non abbiamo alcun interesse per le voci che provengono dalla Camera dei Rappresentanti sull’approvazione degli aiuti all’Ucraina” avrebbe affermato; “È interessante notare che, in mezzo a questi litigi interni” continua la Zakharova “la Casa Bianca non punta più su una vittoria effimera del regime di Kiev sotto il suo controllo. Tutto ciò che vuole è che le forze armate ucraine resistano almeno fino al voto di novembre senza danneggiare l’immagine di Biden”. “Il motivo per cui l’agonia di Zelensky e della sua cerchia ristretta si prolunga, non è altro che questo, e gli ucraini comuni vengono costretti con la forza al massacro come carne da cannone”; “In ogni caso” ha concluso “i tentativi frenetici di salvare il regime neonazista di Zelensky sono destinati a fallire. Gli scopi e gli obiettivi dell’operazione militare speciale saranno raggiunti pienamente”. Oltre alla solita propaganda trionfalistica, la Zakharova ha però sottolineato anche un paio di questioni piuttosto spinose: la prima è che ha sottolineato come la convergenza dei repubblicani su questo pacchetto, alla fine, era scontata, perché “I repubblicani difendono gli interessi dell’industria della difesa americana, che riceverà la maggior parte degli stanziamenti per l’Ucraina”.
Sul ruolo specifico della lobby dell’industria militare, Jacobin USA ha recentemente pubblicato un’inchiesta decisamente interessante: rivela come, dal 1995 al 2021, nell’ambito di un programma denominato SDEF (che sta per Secretary of Defense Executive Fellows) “Più di 315 ufficiali militari con gradi d’élite fino a colonnello e contrammiraglio sono stati distaccati direttamente presso i principali produttori di armi come Boeing, Raytheon e Lockheed Martin. E l’accordo ha coinciso con un drammatico aumento della spesa del Dipartimento della Difesa per appaltatori privati valutata in trilioni di dollari”; secondo Jacobin si tratta di un potente strumento di lobbying, dal momento che “Oltre il 40% dei borsisti ad un certo punto della loro carriera post militare sono tornati a lavorare per gli appaltatori governativi”, mentre “Per decenni le raccomandazioni dello SDEF si sono costantemente concentrate su riforme che avvantaggerebbero le aziende e rafforzerebbero la loro influenza sul [Dipartimento della Difesa]”: quindi il dipartimento della difesa ti manda a lavorare per un anno in un’azienda privata, poi torni al dipartimento della difesa e, se sei abbastanza bravo da convincerli a fare qualcosa in favore di quell’azienda, quando hai finito il tuo incarico ecco che ti ritrovi un contratto dorato con quell’azienda. Cosa mai potrebbe andare storto?
Beh, che alla fine ci decidiamo davvero a mandarci i nostri uomini, in Ucraina; anche qui siamo di fronte alla solita tattica della rana bollita: i nostri uomini in Ucraina ci sono già e, mano a mano che i pochi ucraini addestrati decentemente che sono rimasti vengono fatti fuori, toccherà mandarne sempre di più (soprattutto mano a mano che mandiamo sistemi d’arma sempre più complicati che gli ucraini non hanno mai visto) anche se, come sottolinea sempre giustamente il nostro dall’Aglio, se pensiamo di andare lì a insegnarli a fare la guerra perché tanto, stringi stringi, pure loro sono slavi come i russi e cosa voi che ne sappiano, rischiamo di fare anche qualche figuretta, dal momento che noi abbiamo qualche competenza nello sterminare qualche esercito più o meno disarmato, ma di come si fa la guerra non dico a un pari o più che pari tecnologico, ma anche a un quasi pari, molto banalmente non abbiamo la più pallida idea. Comunque, la questione è semplicemente quanti ne mandiamo, a fare cosa: come rivelava ancora Politico, sabato scorso, infatti “Gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di inviare ulteriori consiglieri militari all’ambasciata a Kiev”; “I consiglieri, secondo quanto affermato dal portavoce del Pentagono, Pat Ryder, non avrebbero un ruolo di combattimento, ma piuttosto consiglierebbero e sosterrebbero il governo e l’esercito ucraino”.
Ma oltre ai consiglieri, ormai, si sta gradualmente sdoganando il tabù di mandare anche delle truppe, solo che – come sottolinea Foreign Affairs – non è la NATO, ma l’Europa che “dovrebbe inviare truppe in Ucraina”: la rivista del principale think tank neocon statunitense ricorda come, da quando il 26 febbraio Macron ha osato dire ad alta voce quello che tutti pensavano, piano piano gli si sono accodati in diversi, “dal ministro degli esteri finlandese, a quello polacco” per non parlare del sostegno scontato dei paesi baltici; “Minacciando di inviare truppe” sostiene l’articolo, gli europei stanno cercando di convincere Putin a tirare il freno a mano nella sua avanzata, ma “Per cambiare davvero la situazione in Ucraina, tuttavia, i paesi europei devono fare di più che limitarsi a minacciare”. D’altronde, sottolineano, “L’invio di truppe europee sarebbe una risposta normale a un conflitto di questo tipo. L’invasione della Russia ha sconvolto l’equilibrio di potere regionale, e l’Europa ha un interesse vitale nel vedere corretto lo squilibrio”. Gli europei, insiste “Devono prendere seriamente in considerazione lo schieramento di truppe in Ucraina per fornire supporto logistico e addestramento, per proteggere i confini e le infrastrutture critiche dell’Ucraina, o anche per difendere le città ucraine. Devono chiarire alla Russia che l’Europa è disposta a proteggere la sovranità territoriale dell’Ucraina”. Come commenta il nostro amato Billmon su Moon of Alabama “Ciò che vogliono veramente gli americani è che l’Europa combatta la Russia per conto loro, permettendogli di tenersi fuori dai guai”, che è esattamente quello che, come Ottolina, sosteniamo dal 23 febbraio.
Il fatto che, dopo oltre due anni, la situazione determinata dal campo sia molto ma molto peggiore di quanto avessero previsto quelli che sostenevano che le armi russe fossero dei ferrivecchi, che l’esercito russo fosse un’ammucchiata disfunzionale di ubriaconi privi di ogni disciplina e senso tattico e che la Russia di Putin in quanto stazione di benzina con la bomba atomica fosse economicamente già sull’orlo della bancarotta, non cambia le fondamenta della strategia dell’imperialismo USA che ha dichiarato guerra al resto del mondo e cerca di farla combattere, in gran parte, ai suoi vassalli; ha solo reso gli strumenti, ai quali è necessario ricorrere per poter sperare che tutto questo sia sufficiente per non implodere definitivamente, molto più pericolosi e distruttivi, a partire dalla difesa sistematica del primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità.
Contro la guerra totale architettata dall’impero in declino e contro la succube complicità dell’Europa degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che smonti le puttanate seriali della propaganda e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

















Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

Italia fuori dall’euro? – Perché la monete unica è la moneta del nostro declino

L’Italia è entrata nell’euro più per motivi religiosi che non per reale convenienza. Un europeismo ingenuo e acritico ci ha condotto tra le braccia della crisi e della decadenza della nostra economia. Gabriele Guzzi, professore di economia, ci ha parlato dei difetti strutturali di questa moneta e delle possibili soluzioni per rilanciarci.

Migliaia di europei morti in UCRAINA – ft. Gianandrea Gaiani

Oggi parliamo con Gianandrea Gaiani, direttore di AnalisiDifesa, del recente attentato a Mosca e di un eventuale intervento europeo a supporto dell’Ucraina sul fronte orientale. Quale è il reale potenziale francese? Cosa spinge l’attivismo di Macron? Quale è il reale potenziale di tenuta della società e dell’economia europea in caso di intervento diretto? Ne parliamo oggi cercando di rispondere ad alcune di queste domande. Buona visione.

L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

Tre prove che gli USA stanno preparando la guerra più devastante di tutti i tempi nel Pacifico

Dopo la settimana di fuoco dell’Europa, che si prepara alla grande guerra, e delle più clamorose stragi israeliane, state accusando un repentino calo di adrenalina per l’apparente stasi sul fronte ucraino e l’allungarsi dei tempi della pulizia etnica a Gaza? Tranquilli: Sleepy Joe ha in serbo per voi una bellissima sorpresa che vi darà la giusta carica per non essere sleepy per niente, un uno/due e pure tre che vi restituirà quell’irresistibile brividino che si prova quando si ha la netta sensazione che, nel giro di qualche mese, il mondo come lo avete conosciuto fino ad oggi potrebbe tramontare per sempre; vi siete mai chiesti, infatti, perché – di punto in bianco – Rimbambiden ha deciso di giocare al poliziotto buono di fronte al più grande massacro di civili del XXI secolo e ha trasformato il fraterno amico Bibi lo sterminatore in una specie di supervillain della Marvel intento a distruggere il pianeta nel disappunto generale? E del perché, ultimamente, stia facendo le capriole per convincere l’Europa a riarmarsi come si deve e occuparsi da sola del plurimorto dittatore del Cremlino? Beh, la risposta, tutto sommato, è piuttosto semplice; Rimambiden, ormai, c’ha una certa e di queste scaramucce di quartiere si sarebbe anche abbondantemente rotto i coglioni e, prima di passare a peggior vita, ha deciso di dedicare gli ultimi anni anni a disposizione alla principale delle sue passioni: la più grande e devastante guerra della storia dell’umanità contro l’unico paese che si è permesso di mettere fine al primato economico mondiale USA dopo oltre un secolo di dominio incontrastato e che c’ha pure la faccia tosta di definirsi socialista.

Kurt Campbell

Nell’arco di poco più di un mese, 4 notizie che sono passate completamente inosservate ai media mainstream del mondo libero hanno certificato platealmente la sete di sangue che aleggia nello studio ovale: la prima risale al 6 febbraio scorso quando, con 92 voti contro 5, il Senato ha dato il via libera alla nomina a vicesegretario di stato di Kurt Campbell, aka lo Zar dell’Asia, una svolta significativa; Campbell, infatti, fu l’architetto del famoso Pivot to Asia di obamiana memoria, quando si cominciarono a porre le basi nella regione per una futura guerra a tutto campo contro la Cina, un filo che lo Zar dell’Asia ha ricominciato a tessere con solerzia con la nomina di Rimbambiden, che lo ha voluto sin da subito nel suo team come Coordinatore del Consiglio di Sicurezza nazionale per l’Indo – Pacifico. “Il periodo che definivamo dell’impegno strategico” e che prevedeva la cooperazione economica e la cooperazione diplomatica “è definitivamente giunto al termine” aveva affermato al momento del suo insediamento; “Ora il paradigma dominante nella relazioni USA – Cina sarà la competizione”. Durante i primi 3 anni del suo mandato, il rapporto tra le due potenze – tra sanzioni, ambiguità sulla politica di Una Sola Cina e rafforzamento della presenza militare USA nel Pacifico – si è deteriorato fino a raggiungere il più basso livello dal viaggio di Nixon del ‘72, ma poteva anche andare peggio: Campbell, infatti, fino ad oggi si era visto – almeno parzialmente – ostacolare nella sua foga guerrafondaia dal suo predecessore, Wendy Sherman; non che fosse Rosa Luxembourg, ma la Sherman, che veniva dall’attivismo e dai servizi sociali invece che dai think tank del partito unico della guerra e degli affari, nell’arco della sua carriera si è più volte distinta per la moderazione e la volontà di perseguire il dialogo. Negli anni ‘90 aveva guidato le trattative segrete con Kim Jong Il per evitare la proliferazione nucleare, attirandosi critiche feroci da invasati del calibro di James Baker e John baffetto Bolton; tra il 2013 e il 2015 aveva poi condotto i negoziati che avevano portato alla firme del patto sul nucleare iraniano dal quale, poi, il compagno pacifista Trump si era ritirato unilateralmente: nel 2021 era di nuovo diventata bersaglio delle ire dei bombaroli umanitari per aver cercato di indebolire la ridicola legge USA sul trattamento della minoranza uigura in Cina e, nel maggio del 2023, si era prima opposta all’inasprimento delle misure anticoncorrenziali contro Huawei e poi aveva cercato di convincere Blinken a non cancellare la sua visita in Cina in seguito alla buffonata dei palloni spia cinesi. Insomma: quando negli ultimi anni si è parlato di un pezzo di amministrazione Biden più incline al dialogo con la Cina, in buona misura si faceva proprio riferimento a lei e che, da quando Campbell l’ha sostituita, l’aria sia cambiata è ogni giorno più evidente.
Dopo appena 10 giorni di incarico, il governo USA ha annunciato l’autorizzazione definitiva alla vendita a Taiwan del sistema Link-16, la rete sicura per lo scambio di dati tattici militari utilizzata dalla NATO, che permette a Taiwan di essere integrata nel sistema unificato di distribuzione dell’informazione che fa capo agli USA. In soldoni, tagliandola con l’accetta, le forze armate di Taiwan diventano sostanzialmente un braccio armato al servizio del comando USA e, dopo un altro paio di settimane, ecco la bomba definitiva: il ministro della difesa di Taipei, Chiu Kuo-Cheng, conferma ufficialmente le voci sulla presenza di uomini delle forze speciali USA a Taiwan incaricate di addestrare le truppe dell’Isola; e non in un posto a caso, ma sull’Isola di Kinmen, che si trova qui, a meno di 10 chilometri dalla Repubblica Popolare. Una provocazione talmente scomposta e plateale che, per non far esplodere il bordello in casa, i cinesi hanno cercato in ogni modo di non far circolare la notizia anche perché, nel frattempo, i cinesi, sull’anomalia di questa isoletta avamposto dell’imperialismo occidentale a meno di un tiro di schioppo, erano già stati abbondantemente triggerati poche settimane prima, quando la guardia costiera taiwanese aveva disarcionato un’imbarcazione di pescatori cinesi accusati di aver sconfinato in acque territoriali uccidendone un paio, e senza manco chiedere scusa. Insomma: come scrive Andrew Korybko sul suo blog, USA e Taiwan stanno “testando la pazienza”; quanto mai a lungo potrà durare?
Prima di addentrarci nei particolari di queste evoluzioni inquietanti, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, se non lo avete ancora fatto ricordatevi di attivare le notifiche e di iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in lingua inglese, per permette anche a chi non vive esattamente dentro alla nostra bolla di conoscere la sorpresina che Sleepy Joe ci sta preparando e che i mezzi di stordimento di massa si guardano bene da raccontarvi.

KJ Noh

“In molte tradizioni” scrive lo storico giornalista e attivista coreano KJ Noh su Geopolitical Economy Report, “quando si scolpisce un Buddah, gli occhi sono sempre gli ultimi ad essere dipinti. Ed è solo dopo che gli occhi sono stati completati, che la scultura è davvero viva e nel pieno della sua potenza”: ora gli Stati Uniti hanno dato ufficialmente il via libera alla vendita alla provincia di Taiwan del sistema di comunicazione militare Link 16 e “L’acquisizione del Link 16” commenta KJ Noh “equivale a dipingere gli occhi del Buddah: un ultimo tocco che dà definitivamente vita ai sistemi militari e alle piattaforme d’arma di Taiwan”. Ma a cosa serve, esattamente, questo benedetto Link16? Lo spiega in modo chiarissimo questo breve servizio di Taiwan Plus News che ricorda come “Taiwan ha comprato circa 200 F16 dagli USA. Ma per usare questa flotta in modo efficiente, serve un sistema di telecomunicazioni integrato, in grado di collegarli ad altri sistemi d’arma e ai sistemi di comando e controllo. Ed è proprio a questo che serve Link 16”: in soldoni, è una sorta di “internet delle cose, o di cloud, per l’hardware militare: una rete di collegamento dati militare per le comunicazioni e l’interoperabilità delle armi” ed è un passo che “per scoraggiare un’invasione cinese, rende Taiwan sempre più dipendente da armi da assistenza militare americana”; “Più importante di qualsiasi singola piattaforma d’arma” sottolinea KJ Noh “questo sistema consente all’esercito di Taiwan di integrare e coordinare tutte le sue piattaforme di guerra con le forze armate statunitensi, NATO, giapponesi, coreane e australiane in una guerra armata combinata”. Ad esempio, continua Noh, “permette ai bombardieri strategici nucleari Stealth di coordinarsi con piattaforme di guerra elettronica e sorveglianza, nonché condurre una guerra armata congiunta con gruppi da battaglia di portaerei statunitensi, francesi o britannici, o con cacciatorpedinieri giapponesi o sudcoreani, nonché con sistemi antimissile come i Patriot”. Insomma: è una sorta di sistema nervoso in grado di comunicare a tutti gli arti mortali che gli USA, negli anni, hanno fornito a Taiwan, i comandi del cervello; e il cervello è rigorosamente USA che, oltre agli arti taiwanesi, controlla anche quelli dei vari alleati vecchi e nuovi della regione, dai partner dell’Aukus, al Giappone, alla Corea del Sud. “Punte di lancia pronte a funzionare come innesco di un’offensiva di guerra multinazionale contro la Cina” anche perché, ricorda Noh, “L’attuale dottrina statunitense si basa un’idea di guerra distribuita, dispersa, diffusa, da condurre lungo la miriade di isole che circondano la Cina nel Pacifico”: sono le famose prima e seconda catena di isole che gli USA hanno circondato con migliaia di truppe armate, piattaforme d’attacco e missili di ogni natura e gittata ai quali si stanno aggiungendo, giorno dopo giorno, strumenti di ogni genere per la guerra automatizzata; uno sciame che, per essere utilizzato in modo efficace, deve avere un sistema di comunicazione unico a prova di interferenze – che è proprio quello che fa Link 16 – che permette, così, di aggiungere l’ultimo tassello in quella che gli analisti dello US Naval Institute definiscono, in modo molto rassicurante, la catena di morte della coalizione transnazionale per il Pacifico. “Questa diffusione e dispersione delle piattaforme di attacco in tutto il Pacifico”, sostiene Noh, “smentisce l’affermazione secondo cui si tratterebbe di una forma di deterrenza per difendere l’isola di Taiwan”; secondo Noh, infatti, “Questa diffusione è chiaramente offensiva, pensata e progettata per sopraffare le difese altrui. Come nel caso dell’Ucraina, non si tratta di scoraggiare la guerra, ma di incoraggiarla e di consentirla”: a confermarlo ci sarebbe anche la proliferazione di report da parte di tutti i principali think tank USA dove il quesito non è tanto più se fare la guerra o meno, ma quando e come, e come prepararla adeguatamente. E la fretta aumenta: in un celebre rapporto del 2016, RAND Corporation affermava che la guerra andava preparata entro il 2025; davanti alla commissione difesa del Senato, l’ammiraglio Phil Davidson, 2 anni fa, aveva spostato la deadline avanti di un paio di anni. Nel frattempo è scoppiata la seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina che gli USA premono per sbolognare interamente ai vassalli europei e, poi, il grande imprevisto: il clamoroso attacco della resistenza palestinese del 7 ottobre scorso e l’ancora più clamorosa prova di forza da parte dell’asse della resistenza – e, in particolare, di Ansar Allah – che ha fatto saltare per aria i piani USA per la regione, gli ha impedito di disimpegnarsi gradualmente e ora li minaccia con una potenziale escalation su scala regionale che impedirebbe definitivamente di concentrarsi sul Pacifico e sposterebbe la lancetta del tempo oltre i limiti segnalati da tutti gli analisti.
Ma, come sottolineava – tra gli altri – questo lungo rapporto del Council on foreign relation già lo scorso giugno, tirarsi indietro da Taiwan e dal Mare Cinese meridionale permettendo così, nel frattempo, alla Cina di rendere completamente irreversibile il rapporto di forze nell’area, molto semplicemente proprio non se po’ fa: “Taiwan”, sottolineano infatti, “ha un valore militare intrinseco, e quindi il suo destino determinerà in gran parte la capacità delle forze armate statunitensi di operare nella regione”; “Se la Cina dovesse annettere Taiwan e installare sull’isola risorse militari, come dispositivi di sorveglianza subacquea, sottomarini e unità di difesa aerea” continua il rapporto “sarebbe in grado di limitare le operazioni militari statunitensi nella regione e, di conseguenza, la sua capacità di difendere i suoi alleati asiatici. I politici statunitensi dovrebbero quindi capire che in gioco non è solo il futuro di Taiwan, ma anche il futuro della prima catena di isole e la capacità di preservare l’accesso e l’influenza degli Stati Uniti in tutto il Pacifico occidentale”. In soldoni, a quanto pare, dentro all’amministrazione USA continua a svolgersi un duro braccio di ferro tra chi spingerebbe per mollare la presa sul fronte ucraino e chi, invece, tenderebbe a rimandare l’appuntamento del Pacifico, entrambi uniti nella speranza di non veder definitivamente riesplodere tutto il Medio Oriente; la soluzione, secondo il Council on foreign relation, consiste nel trovare la giusta misura e la giusta modalità per aumentare la deterrenza senza scatenare un conflitto, ma – anche proprio per le caratteristiche intrinsecamente offensive della strategia della guerra diffusa che abbiamo visto più sopra – “rinforzare la deterrenza senza finire per provocare lo stesso conflitto che si vorrebbe evitare” ammette anche il Council on foreign relation “è un compito tutt’altro che banale. Per questo, argomentano alcuni, alla luce dei rischi, gli Stati Uniti dovrebbero ridurre il loro sostegno a Taiwan. Un simile percorso, tuttavia, non riesce a tenere adeguatamente conto di come sarebbe il mondo il giorno dopo un eventuale assalto cinese riuscito: meno sicuro, meno libero e meno prospero” che nel linguaggio suprematista USA significa, molto banalmente, meno a immagine e somiglianza degli interessi imperiali a stelle e strisce.
Anche chi punta a un disimpegno dall’Ucraina si trova, però, di fronte a numerosi ostacoli: come sottolinea KJ Noh, infatti, “Se gli Stati Uniti abbandonassero l’Ucraina, ciò potrebbe indebolire la determinazione e la volontà delle autorità di Taiwan di intraprendere una guerra per conto di Washington” perché sarebbe un chiaro messaggio che “i prossimi ad essere usati e abbandonati potrebbero essere proprio loro”; “Washington allora” suggerisce Noh “deve tenere in vita in qualche modo la finzione ed è alla ricerca di un pretesto plausibile per scappare”: quel pretesto plausibile è esattamente quello che cercano di offrirgli su un piatto d’argento le fazioni politiche europee più spudoratamente asservite a Washington, che non vedono l’ora di farsi riconoscere dal padre padrone come vassalli adulti, in grado di occuparsi da soli di quel pasticciaccio brutto dell’Ucraina. Il problema però è che, molto banalmente, adulti ancora non lo sono e di gestire la patata bollente, molto banalmente, non sono ancora in grado; “Inoltre” sottolinea ancora Noh “gli USA attualmente sono anche in guerra con se stessi, una frattura del corpo politico che può essere sanata solo con una guerra comune contro un nemico comune. Ma la Russia, come si è visto, non può rappresentare quel tipo di nemico. La Cina sì, ed è anche per questo che i repubblicani vogliono la guerra con la Cina adesso”. La nomina di Kurt Campbell, da questo punto di vista, potrebbe indicare la volontà della Casa Bianca di tagliare la testa al toro: per quanto Campbell, infatti, sia noto prevalentemente per aver dedicato alla preparazione della grande guerra contro la Cina il grosso della sua carriera, negli ultimi anni si è cercato di guadagnare anche una certa fama da falco anche sul fronte russo, e già dai primi giorni dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina ha sempre affermato candidamente che gli USA erano perfettamente in grado di sostenere un conflitto su grande scala su due fronti contemporaneamente, come d’altronde avrebbero già fatto durante la seconda guerra mondiale; certo “È difficile. Ed è costoso” avrebbe affermato durante un evento organizzato dal Fondo Marshall tedesco “Ma è anche essenziale, e credo che stiamo entrando in un periodo in cui questo è ciò che verrà richiesto agli Stati Uniti e a questa generazione di americani”.

Insomma: il dottor Stranamore è tornato al comando; cosa mai potrebbe andare storto? Contro la propaganda del partito unico della guerra e degli affari che, ormai, riesce solo a discutere di quando e come mettere fine al mondo per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, abbiamo urgentemente bisogno di un vero e proprio media che sia in grado di riportare al centro del dibattito pace, lavoro e gli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

Antrop8lina – Macumba VS capitalismo – ft. Alessandra Ciattini

Oggi parliamo con la professoressa Alessandra Ciattini, una delle maggiori esperte di antropologia religiosa in Italia, di religioni afroamericane. Lo faremo affrontando molteplici aspetti della questione: prima di tutto l’aspetto meticcio di questi culti, nati dalla commistione di elementi africani (di diverse aree), europei cristiani, europei spiritisti e nativi americani; poi andando a scavarne gli aspetti socioeconomici e politici. Queste religioni, nella loro grande varietà, hanno rappresentato una risorsa comunitaria per reagire al dilagante sistema mondo capitalista e imperialista che ha distrutto culture e vite, ucciso milioni di persone, ridotto schiavitù interi popoli, inquinato e cancellato più ecosistemi. Buona visione!