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Tag: euro

Disastro G7: l’Europa a guida Meloni prende ordini da Biden e dichiara guerra a Russia, Cina ed Euro

Negli ultimi giorni ne sono successe di ogni: proviamo ad andare, più o meno, in ordine cronologico. Lunedì scorso l’Arabia Saudita ha ufficialmente messo fine all’accordo, siglato ormai ben 50 anni fa, con gli USA che, in cambio della protezione militare a stelle e strisce, le imponeva di prezzare e commerciare petrolio esclusivamente in dollari; abbandonata la convertibilità in oro su cui si era fondata la centralità del dollaro da Bretton Woods in poi, la nascita dei petrodollari era stata la principale garanzia che gli USA avrebbero potuto stampare denaro all’infinito – e tutti i problemi che questo creava potevano essere agilmente scaricati sul resto del mondo. L’emancipazione del mercato del petrolio dalla dittatura del dollaro era già in corso dal tempo, ma – fino ad oggi – era ostacolata da questo accordo e si fondava su vari sotterfugi; con questo ultimo atto formale, il processo di dedollarizzazione subisce un’accelerazione (anche simbolica) epocale e comincia a rivelarsi in tutta la sua irreversibilità. Mercoledì scorso, invece, la Commissione europea ha annunciato la sentenza preliminare a seguito dell’indagine sugli aiuti di stato cinesi all’industria dell’automotive elettrico e che prevede l’introduzione di dazi aggiuntivi fino al 38,1% sui veicoli elettrici cinesi importati a partire da luglio. Come denuncia il Global Times “Questa cosiddetta indagine si è fondata sin dal principio sulla presunzione di colpevolezza, ed è stata condotta con modalità che non rispettano le regole del WTO”; nonostante questo, “L’industria automobilistica cinese ha collaborato attivamente all’indagine”, ma “la parte europea ha scelto selettivamente le società campione, ha ampliato arbitrariamente la portata dell’indagine e ha gravemente distorto i suoi risultati”. Come si spiega tanta manipolazione, soprattutto visto che l’industria dell’auto europea si opponeva a questa conclusione? Semplice: come sapete, meno di un mese fa papà Biden aveva deciso di superare in protezionismo i toni della campagna elettorale di Trump e aveva inaspettatamente aumentato, di punto in bianco, le tariffe sui veicoli elettrici cinesi dal 25 al 100%; l’Europa senza sovranità e senza dignità ha messo il pilota automatico, ha recepito il messaggio e si è affrettata a fare altrettanto, con la differenza che negli USA, comunque, hanno il dollaro e finanziano la reindustrializzazione a suon di mille miliardi di nuovo debito ogni 100 giorni. Noi invece c’abbiamo l’euro. E l’austerity.
L’euro arretra a livello globale titolava ieri Milano Finanza: “Nel 2023” sottolineava l’articolo “le banche centrali hanno ridotto di 100 miliardi gli asset in moneta unica”. La notizia è particolarmente grave visto che, nonostante la crisi economica, la BCE ha mantenuto tassi di interesse altissimi; ovviamente, tassi di interesse alti dovrebbero attirare capitali e, invece, il capitale continua a migrare tutto contento verso il nostro carissimo alleato a stelle e strisce, che rilancia: come riportava, sempre ieri, il Financial Times infatti, “I funzionari della Federal Reserve americana hanno annunciato che prevedono di tagliare i tassi di interesse solo una volta quest’anno, assumendo una posizione aggressiva sull’inflazione”. Quindi, come da mesi ormai sottolineiamo insieme ad Alessandro Volpi, al contrario delle aspettative del mainstream la guerra dei tassi continua e le vittime e i feriti sul campo siamo noi europei; ed è solo l’antipasto: le agenzie di stampa che ieri provenivano dal G7, infatti, davano come sostanzialmente conclusa la partita del furto degli asset congelati russi. Congelati sin dall’inizio del conflitto, 325 miliardi di asset russi generano ogni anno 3 miliardi di dollari di interessi: ora questi 3 miliardi dovrebbero essere usati per prendere un prestito da 50 miliardi da dare all’Ucraina per prolungarne un po’ l’agonia; il punto, però, è che – caso più unico che raro – questi 325 miliardi di asset russi non stanno negli USA o nel Regno Unito, ma nell’Unione europea, in Belgio per l’esattezza. Dimostrare, dati alla mano, che se porti le tue riserve in Europa e non sei simpatico a Joe Biden poi l’Europa li usa per armare i tuoi nemici, potrebbe non essere esattamente la migliore pubblicità possibile per attrarne di altri; quindi, riassumendo, proprio mentre c’è una gigantesca fuga dall’euro dovuta alle politiche monetarie del nostro alleato USA, noi decidiamo di accelerare ulteriormente la fuga dall’euro per rimanere fedeli alla guerra voluta dagli USA stessi contro la Russia e contro l’Europa. E – è bene sempre sottolinearlo – a prendersi il merito di questo capolavoro è stata la regina dei patrioti e dei sovranisti, Giorgia Meloni, fresca fresca di un più che buono risultato alle urne che ha deciso di spendere subito per essere eletta reginetta della svendita degli interessi dell’intero continente al padrone che non solo è statunitense, ma pure democratico; ci siamo lamentati per decenni di quanto fossero fessi gli elettori di sinistra che continuavano a votare il partito della lotta di classe dall’alto contro il basso per eccellenza come il PD, convinti di votare l’erede del PCI e della sinistra DC, ma bisogna ammettere che, rispetto agli elettori patrioti e nazionalisti che continuano a votare la più grande svenditrice della patria di sempre, erano comunque dei dilettanti allo sbaraglio.
Nel frattempo, Nikkei Asia ieri c’ha graziato con un’altra notizia bella succulenta; nel primo trimestre del 2024, infatti, gli USA sono diventati la prima destinazione delle esportazioni dei paesi dell’ASEAN, sorpassando la Cina e manco di poco: 67 miliardi contro 57. Oh, lo vedi? Decoupling e friendshoring funzionano! Beh, se continuano a crederci a noi certo non ci dispiace, perché la realtà è diametralmente opposta; la settimana precedente, infatti, erano usciti i dati sull’export cinese: Il boom dell’export cinese verso il Sud globale continua titolava il solito David Goldman su Asia Times; “Il meme occidentale sulla sovracapacità cinese” scrive Goldman “non funziona bene nel Sud del mondo, dove la domanda di infrastrutture di telecomunicazioni cinesi, veicoli elettrici a basso costo, pannelli solari e acciaio è in crescita”. Il processo suicida messo in moto dal suprematismo del centro imperiale – e dai fintisovranisti europei che gli vanno dietro – lo abbiamo raccontato svariate volte e ogni giorno che passa si consolida di più: in sostanza gli USA, invece che importare dalla Cina, importano merci cinesi (o che comunque contengono una marea di componentistica cinese) dai paesi che considerano amici, ma che, giustamente e inevitabilmente, più che essere amici dell’imperialismo USA sono semplicemente amici di se stessi. L’esempio del Vietnam è paradigmatico, come si vede da questo grafico:

da quando Trump ha avviato le politiche protezionistiche, l’import USA dal Vietnam è esploso, ma quello vietnamita dalla Cina è esploso ancora di più e ancora più rapidamente; risultato? Il Vietnam è ancora più legato alle catene del valore cinesi e la Cina non ha fatto che aumentare la sua influenza economica.
Un’altra notizia piuttosto succulenta che dà un segno preciso dei tempi riguarda Apple: da poco Apple, infatti, aveva annunciato che tutti i suoi mega investimenti nel campo dell’intelligenza artificiale non avevano portato, sostanzialmente, a una sega niente; questo fallimento si andava a sommare al crollo sui mercati cinesi, al che Warren Buffet – che è un finanziere, si, ma un po’ old school e investe fondamentalmente in aziende che crede abbiano ampi margini di crescita, come dimostra la sua partecipazione nel colosso cinese dell’automotive elettrico BYD – ha venduto un po’ di azioni. Ma il mondo non funziona più come è abituato a pensare Warren Buffet: nonostante il doppio fallimento, le azioni di Apple, alla fine, sono tornate a crescere; com’è possibile? Le risposte sono due: lo Schema Ponzi della finanza USA e il regime monopolistico del tecno-feudalesimo. Lo Schema Ponzi funziona che non importa se sei un’azienda del cazzo che non ne coglie una e butti via più soldi del Corpo Forestale in Calabria: i monopoli finanziari hanno deciso che le tue azioni devono valere tot e le tue azioni quello valgono, anche se sei sull’orlo della bancarotta. Il regime monopolistico del tecno-feudalesimo, invece, funziona che proprio grazie alla quantità senza senso di risorse finanziarie che ti vengono garantite dai fondi, se qualcosa non la sai fare (o, almeno, non sei all’altezza di competere), molto semplicemente te la compri, che è proprio quello che ha annunciato Apple: non siamo in grado di sviluppare intelligenza artificiale in modo competitivo come azienda? Vorrà dire che compreremo quella di OpenAI; che problema c’è? La differenza tra Apple e il servizio informatico del comune di Pizzo Calabro, stringi stringi, è che c’hanno li sordi; anzi, meglio ancora: manco gli servono li sordi. Come ricordava ieri Bloomberg, infatti, “Apple pagherà OpenAI per ChatGPT attraverso la distribuzione, non in contanti”: cioè, siccome c’hanno il monopolio delle app con gli App store proprietari, se vuoi conquistare il mercato devi passare da loro e paghi il dazio, come il fiorino in Non ci resta che piangere, un sistema feudale che bisogna difendere con ogni mezzo necessario.
Nel week end, subito dopo il G7 pugliese, in Svizzera si terrà il fantomatico Summit per la Pace in Ucraina, un summit piuttosto eccentrico dal momento che non vedrà la partecipazione di una delle due parti in causa e, a cascata, di nessun paese che più o meno è allineato a quello che Bloomberg ieri definiva l’asse della resistenza russo-cinese. Ovviamente i paesi del Nord globale parteciperanno, ma (a quanto ci è dato sapere) tra questi paesi la pace c’è già; a cosa dovrebbe servire quindi? Come sottolinea su Asia Times Jon Richardson della Australian National University, “Il principale target dell’Ucraina dovrebbero essere tutti gli altri paesi del Sud del mondo” e, cioè, quelli non più o meno esplicitamente schierati con Mosca, vale a dire la stragrande maggioranza. L’idea, appunto, sarebbe quella di provare a strappare un po’ di sostegno ai paesi che fino ad oggi hanno optato per farsi gli stracazzi loro e, laddove era possibile, hanno approfittato della situazione per strappare qualche fornitura di petrolio a prezzi di saldo, oppure hanno fatto qualche spicciolo triangolando merci e beni altrimenti preclusi ai russi: ora si tratterebbe di spiegargli che le sanzioni secondarie – cioè quelle che gli USA impongono con la forza del loro imperialismo finanziario a tutto il mondo contro la sua volontà – diventeranno mano a mano sempre più severe e inaggirabili; convincerli che Putin – come titolava ancora ieri il suo articolo Dan Altman della Georgia State University su Foreign Affairs – comunque perderà e che questa è l’ultima chance per salire sul carro del vincitore. A quanto pare, però, questa narrazione non è risultata esattamente molto convincente: “Non è chiaro” infatti, sottolinea sempre Richardson, “quanti dei maggiori attori, come Brasile, India, Indonesia, Turchia e Sud Africa, saranno rappresentati – o se invieranno funzionari anziché leader o ministri. E ci sono indicazioni che l’Arabia Saudita e il Pakistan, tra gli altri, non saranno presenti, il che non potrà che deludere amaramente l’Ucraina”.
Insomma: come abbiamo sottolineato milioni di volte, gli USA, a parte l’arroganza dei monopoli finanziari, non hanno più niente da offrire; nel Sud del mondo lo sanno e a fatica, giorno dopo giorno, cercano (e a volte di più, a volte di meno, trovano) il modo di sganciarsi. Se in Europa ci fosse una classe dirigente minimamente rappresentativa dei nostri interessi, sarebbe un’occasione straordinaria per cominciare ad emanciparci come mai siamo riusciti fino ad ora; certo, con patrioti come la Meloni e progressisti come Elly Schlein e alleati verdi e sinistri, diciamo che questo è un piano sul quale proprio non si arriva nemmeno concettualmente. Figurarsi concretamente! Per costruire dal basso una classe dirigente all’altezza dei tempi bisogna studiare, discutere e lottare e, per farlo, c’è bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walter Veltroni

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Il G7 della resa: come i grandi sanciscono la fine dell’Euro e dichiarano guerra a Russia e Cina

Non sono passate che poche ore dalle elezioni europee e già si capisce che aria tirerà. La commissione ha annunciato che introdurrà dazi fino al 40% sulle auto elettriche cinesi e il G7 sarà all’insegna del furto degli asset russi congelati. L’Europa dei fintosovranisti segue pedissequamente l’agenda imposta da Washington: distruggere l’Euro e riportare quello che rimane di capacità produttiva oltreoceano. Forse ormai parlare di semicolonia è fin troppo ottimistico. Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi.

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Ecco perché l’Unione europea è funzionale alle oligarchie e all’impero USA

Eugenio Pavarani, professore di economia all’Università di Parma, ci descrive – dati alla mano – coma mai la scelta dell’Italia di entrare nell’euro è stata una scelta suicida. Dopo 30 anni di Unione Europea e 2 di Euro infatti, il nostro stato sociale è stato smantellato e la democrazia rappresentativa svuotata di senso. I trattati europei, infatti, sono trattai neoliberisti che impongono il primato delle oligarchie economiche sulla politica e una sottomissione di fatto dei popoli alle leggi del capitale. In questi contesti, gli Stati Uniti d’Europa non sono un racconto puramente mitologico.

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Mettiamo fine all’Unione europea? – Perché il progetto comunitario è fallito e deve finire

Ti dichiari un europeista convinto? Pensi che, per essere competitiva, il destino dell’Italia non possa che essere negli Stati Uniti d’Europa? Sogni il giorno in cui, finalmente, portoghesi e moldavi potranno vivere in uno stesso Stato? Allora questo è il video giusto per te perché a giugno ci saranno le elezioni europee e, come ogni 4 anni, si presentano partiti e liste minacciose e figure ancora più ambigue e sinistre che si candidano a guidare le istituzioni: e, allora, oggi ci tocca fare un discorso che sappiamo un po’ per tutti difficile da digerire perché si tratta di nientepopodimeno che di mettere in discussione l’ultima grande utopia politica di almeno un paio di generazioni di europei (e anche noi, in fondo in fondo, ci abbiamo un po’ creduto); ma, arrivati a questo punto, sarebbe peggio continuare a far finta di nulla, riempirci la testa di rassicurante propaganda e aspettare che la catastrofe diventi irreversibile. E allora facciamo un bel respirone e diciamocelo senza paura: l’entrata dell’Italia nell’euro è stata un fallimento e questa Unione europea è un progetto finito. E, preso atto di tutto questo, le forze popolari europee hanno oggi il compito urgente di proporre una seria alternativa sociale e democratica a queste istituzioni comunitarie fondate sugli interessi delle oligarchie finanziarie, sulla guerra e sulla politica estera americana.
“Ma certo, hai ragione” penserà adesso l’europeista convinto “e il problema sono i sovranisti che impediscono una vera federazione; la soluzione è che ci vuole ancora più Europa! Il nostro destino sono gli Stati Uniti d’Europa; da soli gli Stati nazionali non potranno mai farcela da soli” (cit. europeista convinto). Calma! Calma! Perché su questo argomento non possiamo più permetterci di essere banali, superficiali o ideologici, ed è anzi questa adesione quasi religiosa al progetto di questa Unione europea e alla sua moneta ad aver causato i maggiori danni e ad aver tradito la speranza e l’idea di un vero soggetto geopolitico indipendente e competitivo con le altre superpotenze del mondo. Sì, perché – purtroppo – quando in Italia si parla di euro ed Unione europea ci si scontra ancora con un muro; un muro – come scrive il professore di economia Eugenio Pavarani nel suo articolo per La Fionda Il male della banalità – fatto prima di tutto di “luoghi comuni, di false credenze, di falsi miti, di informazioni distorte, di banalità”.
L’europeismo in Italia non è, infatti, una posizione politica tra le altre, ma è diventato come un tabù religioso; e persino sugli effetti negativi della moneta unica per la nostra economia, ormai dimostrati da una copiosa letteratura scientifica, non si può avere una discussione franca e razionale e, piuttosto che mettere in discussione la bontà e la speranza del suo sogno federalista, l’europeista convinto preferisce non ascoltare e guardare dall’altra parte. “L’euro è assurto a ruolo di indicibile, di totem, di feticcio” scrive il professore di economia a Cassino Gabriele Guzzi su Limes; “Invece di procedere in analisi equanimi ci si nasconde dietro a una religiosità europeista spesso molto sterile. Malgrado questo” conclude “lo iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale si fa ogni anno più insostenibile.” In questo video, non solo richiameremo alcuni dati fondamentali che dimostrano i danni del mercato unico e dell’euro per molte economie europee (compresa la nostra), ma ci soffermeremo soprattutto sulle resistenze culturali che, ancora oggi, impediscono a tanta opinione pubblica di affrontare in maniera obiettiva e realistica l’argomento della moneta comune e del progetto comunitario; un video europeista nello spirito perché avere a cuore il destino del nostro continente e dei popoli europei significa oggi ammettere il fallimento delle sue recenti e contingenti istituzioni politiche e la necessità, dalle loro ceneri, di costruire qualcosa di completamente nuovo.
Partiamo da un presupposto che dovrebbe essere ovvio e che, invece, non lo è per nulla: criticare la moneta unica, o le forme giuridiche e istituzionali dell’attuale unione a 27 membri, non vuol dire essere anti – europeisti; già questa equazione tra l’essere europeisti ed essere a favore del progetto delle politiche della Banca Centrale Europea e della Commissione puzza di ideologia e di propaganda da lontano un miglio. “Un paese maturo” scrive infatti Guzzi “dovrebbe valutare razionalmente l’opportunità di rimanere in un’istituzione come l’Ue. Non dovrebbe cimentarsi in petizioni di principio del tutto astratte. Uno Stato potrebbe considerare l’Europa il proprio punto di riferimento da un punto di vista storico, culturale, persino politico. Ma non dovrebbe porre nell’ambito dei valori una particolare istituzione storica, nata trent’anni fa, o peggio una moneta come l’euro. Su questa tipologia di decisioni è il pensiero critico, ossia la continua valutazione realistica delle opportunità, la dimensione su cui uno Stato maturo dovrebbe porsi. Non vaghi atti di fede.” E quindi questo video, lo sottolineo, non è nemmeno lontanamente un video anti – europeista, ma un video mosso da spirito costruttivo che, da una parte, riporta alcuni dati che dimostrano come l’Italia, insieme a molti altri paesi, sia stata oggettivamente danneggiata dalla moneta unica e, dall’altra, che riflette sul fatto che una nuova Unione tra le nazioni europee fondata sulla solidarietà, sul primato della politica sull’economia e sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti è, nei fatti, strutturalmente incompatibile con le attuali istituzioni comunitarie.
Partiamo dalla situazione attuale; negli ultimi due anni, l’idea che l’epidemia avesse rappresentato un momento rifondativo per l’Ue grazie all’emissione di eurobond si è scontrata con la realtà: non c’è stato nessun salto di qualità, nessuna prospettiva federalista. “Mentre il mondo brucia tra guerre e divisioni” scrive Guzzi “l’Ue continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa” e questo, come vedremo, non perché lo impediscono i sovranisti alla Orban (come subito starà pensando l’europeista convinto), ma perché sono esattamente queste le fondamenta e il progetto dell’Unione europea che emergono dai trattati. E’ esattamente questa l’Unione europea che hanno voluto le élite e che continuano a volere. Non è un incidente. Non è un errore da correggere per poter tornare sulla giusta carreggiata. È così che funziona perché è così che è stata pensata e, oltre agli Stati Uniti che sono da sempre dietro al progetto comunitario, anche piccole cerchie del grande capitale stanno infatti continuando a beneficiarne, naturalmente a spese dei ceti medi e popolari.
Ma partiamo dalla moneta unica: l’euro, ci dicevano, avrebbe reso più ricco e competitivo tutto il continente; a vent’anni dalla sua introduzione, i dati ci dicono esattamente l’opposto. L’Europa, prima dell’euro, aveva il PIL pro capite pari a quello degli Stati Uniti; oggi è a circa la metà. Nel frattempo, nessuna politica fiscale comune è stata fatta e questo non perché ci sono i sovranisti cattivi che lo hanno impedito (come ribatterà il nostro europeista convinto), ma perché non è nemmeno mai stata proposta in quanto non coerente con gli stessi principi fondativi dell’Unione europea. Nel contesto poi di questa perdita di competitività di tutto il continente – che già confuta uno degli argomenti preferiti degli europeisti secondo cui l’Unione europea e l’euro sarebbero fondamentali a competere meglio con le superopotenze – alcune economie hanno ricavato vantaggi dalla moneta unica e altre no (vantaggi a danno degli altri paesi membri, si intende). “Nei propositi iniziali” scrive Guzzi “l’euro avrebbe dovuto raggiungere diversi obiettivi. Tra gli altri, promuovere la crescita economica, ridurre le divergenze tra paesi, diventare un credibile competitore rispetto al dollaro. Dopo venticinque anni, possiamo dire che tutti questi obiettivi non sono stati raggiunti.” “Certo!” penserà l’europeista convinto: “E’ successo perché alcune classi dirigenti nazionali sono state più in grado di altre di sfruttare la moneta unica; non è colpa dell’euro, non è colpa della UE: è, come al solito, colpa dell’incompetenza dei singoli Stati nazionali ed è la prova che ci vuole più Europa!” (europeista convinto)
Ma, ormai, lo abbiamo imparato a conoscere il nostro europeista convinto; è la solita strategia argomentativa del benaltrismo, utile per non mettere mai in discussione la sua fede a prescindere da qualunque dato o argomento: per la strategia del benaltrismo i problemi non sono mai e poi mai legati all’Unione europea e all’euro che sono, sempre e comunque, un bene in sé, ma sempre e solo ai problemi interni delle nazioni, problemi che, invece, si risolverebbero – ça va sans dire – se queste si donassero completamente alle istituzioni comunitarie. Peccato che le cose non stiano proprio così e il caso dell’Italia è paradigmatico: da circa 20 anni il nostro paese ha smesso di crescere e sta vivendo un drammatico declino strutturale che ha inizio nella seconda metà degli anni ’90, proprio in coincidenza temporale con la fissazione del cambio nei confronti dell’ECU che poi, in continuità, è divenuto euro nel 1999; due grafici, che ricaviamo dall’illuminante articolo di Pavarani, fotografano la tempistica e l’entità del declino e non richiedono molti commenti.

Ecco: qui vediamo la famosa Italietta della liretta aumentare stabilmente il proprio PIL pro capite fino alla metà degli anni 90, diventando una delle più ricche e prospere comunità del pianeta, per poi cominciare il suo triste declino in coincidenza con l’introduzione dell’euro; questa curiosa coincidenza temporale, come scrive Pavarani, appare ancora più marcata se confrontiamo – secondo i dati Eurostat – il reddito pro capite italiano con la media dei 15 Paesi dell’eurozona più sviluppati.
Dalla tabella seguente e dal relativo grafico è possibile rilevare che, dopo un lungo inseguimento culminato a metà degli anni ’90, la distanza del reddito pro capite italiano dalla media (livello zero nel grafico) è bruscamente tornata su valori negativi e fortemente decrescenti.

Nel 1996 fu definitivamente stabilito il cambio della lira prima nei confronti dell’ECU, divenuto poi euro. “Dal confronto dei due grafici” scrive Pavarani “emerge una più precisa puntualizzazione temporale dell’inizio del declino, che viene a coincidere con la definitiva perdita della flessibilità del cambio”. Semplice coincidenza temporale? Si può anche continuare a pensarlo e sostenere che sia tutta colpa dei populisti che parlano alla pancia invece che alla testa delle persone, ma – come sottolinea Pavarani – ci si pone allora in aperto contrasto con una ormai corposa letteratura scientifica che ha individuato chiare relazioni di causa ed effetto; ad esempio l’economista J. E. Stiglitz che, nella sua opera dedicata all’euro (L’Euro), scrive che “La causa della crisi è da attribuire alla struttura stessa dell’Eurozona e alle politiche da essa imposte, non alle mancanze dei singoli Paesi”. Persino Giuliano Amato, non proprio un sovranista della prima ora, dichiarava “Abbiamo fatto una moneta senza Stato; abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta, senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato […]; non abbiamo voluto ascoltare le indicazioni della letteratura e oggi possiamo dire che era davvero difficile che l’unione monetaria potesse funzionare e ne abbiamo visto tutti i problemi”.
Non mi soffermerò adesso sugli aspetti tecnico – economici che stanno alla base dei gravi effetti negativi che l’euro ha avuto per la nostra economia e, per chi avesse voglia di farsi una prima idea su questo argomento, metto qui sotto in descrizione gli articoli di Pavarani e Guzzi; sta di fatto che il processo di integrazione e la moneta unica, per come sono stati progettati, non potevano che essere fonte di vantaggi per alcuni e, simmetricamente, di svantaggi per altri: fa parte del suo DNA, ma questo non ci deve stupire. Nata nel clima culturale della controrivoluzione neoliberista, è questa l’ideologia politica su cui si fondano i Trattati Europei e l’euro e che, tutt’oggi, guidano le istituzioni comunitarie; un’ideologia, come sappiamo bene, intrinsecamente oligarchica e fondata sul primato dell’economia sulla politica: “L’intervento dello Stato nel mercato, le politiche distributive, la tutela dei diritti sociali, sono contrastate dalle regole che l’Ue si è data e ostacolate dalle riforme che essa richiede ai Paesi membri” scrive Pavarani. “Le regole del gioco sono quelle del mercato e della concorrenza che premiano e penalizzano”; “Naturalmente” conclude il professore di economia all’Università di Parma “tutto questo è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al progetto di società prefigurato nella nostra Costituzione, e infatti l’Italia è stata fortemente penalizzata dalle dinamiche comunitarie, anche più di altri Stati, proprio per la difficoltà di adeguare il proprio modello sociale (e gli assetti giuridici, economici, politici e sociali) al paradigma imposto dall’UE.”
Ma se la stragrande maggioranza dell’impresa italiana è stata colpita, anche se in modi diversi, dalle politiche di austerità e dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro paese e solo piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato (e continuano a beneficiarne), come spiegare la persistente adesione di buona parte della classe media italiana alla fede europeista senza se e senza ma? È chiaro che le ragioni economiche non bastano e che siamo di fronte ad una forte resistenza ideologica e culturale che impedisce di guardare in maniera lucida e pragmatica alla realtà; e per capire più in profondità cosa ha significato e significa l’euro e l’Unione europea nel nostro inconscio collettivo, bisogna fare un po’ di storia. La firma del trattato di Maastricht avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia; l’anno prima c’era stata la caduta dell’Unione Sovietica con le sue catastrofiche conseguenze sul pensiero di sinistra occidentale. In quegli anni, insomma, l’Italia – con la fine della DC e del PCI – si ritrova in piena crisi istituzionale e sprovvista delle due grandi ideologie politiche che avevano dato un senso alla sua vita politica fino a quel momento: “Un intero sistema era collassato” riflette Guzzi “e le élite italiane valutarono il nostro paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali”; è allora qui che troviamo le radici dell’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica e al progetto comunitario che, per noi, non sono mai stati solo un utile strumento per mantenere la pace e portare avanti gli interessi nazionali, ma sono diventati la nuova grande utopia politica a cui fare riferimento, un’ideologia politica con caratteri quasi millenaristici che permea tutta la nostra cultura politica del terzo millennio. “L’unificazione europea divenne la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare quelle attese millenaristiche che caratterizzavano entrambe le tradizioni [comunista e cattolica]” sottolinea Guzzi: “un marchingegno teologico – politico per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato”; “Anche l’euro” continua “fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nuova identità strategico – culturale del paese”.
Ed è per questo che è così difficile, in molti ambienti, parlare realisticamente e serenamente di queste cose: perché l’ideologia europeista è fortemente intrecciata con la vicenda biografia del paese, con la nostra identità individuale e collettiva, con tutto il senso del nostro agire politico. Alla fine, però, la forza dell’evidenza colpisce sempre più forte e la realtà sono anni che ha incominciato a bussare nuovamente alla porta. Arrivati a questo punto manca, però, un ultimo gradino: senz’altro, l’europeista convinto si sente adesso un po’ scosso e sente forse i primi dubbi presentarsi alla sua coscienza, ma non si sente ancora pronto a rinunciare al suo sogno, alla sua più intima speranza e, cioè, che tra mille inciampi e contraddizioni, è in fondo solo questione di tempo e, prima o poi, gli Stati nazionali europei metteranno da parte le divergenze, di litigare tra loro e si convinceranno che l’unica cosa veramente razionale da fare è di dare vita agli Stati Uniti d’Europa “perché sarà anche vero che l’Unione europea è un progetto neoliberista che ha contributo a distruggere la nostra socialdemocrazia, sarà anche vero che l’euro ci ha danneggiati, che l’Europa ha perso competitività con le altre superpotenze e che gli Stati Uniti dirigono oggi la politica estera europea con ancora più facilità. Ma la federazione delle nazioni europee in stile americano! Quello, se vogliamo sopravvivere, non può che essere il nostro destino!” pensa l’europeista convinto. E non essendo altro che una fede, di fronte a questa prospettiva tutto è possibile, tutto è permesso, tutti i sacrifici sono giustificati; per l’europeista convinto gli italiani potranno, tra 30 anni, anche finire a cibarsi di vermi purché gli dicano che stiamo comunque andando nella direzione del Grande Progetto Federale. Scriveva Carlo Caracciolo su La Stampa il 16.11.2022: “L’idea d’Europa è immortale. Perché perfettamente irrealistica. Non mettendosi alla prova o rifiutandone gli esiti, resta articolo di fede… L’europeismo ideale è indifferente alle miserie dell’europeismo reale”.
Per approcciarci in maniera più realistica a questo tema, proviamo a porci le seguenti domande: quanto è verosimile, ad oggi, che i Paesi membri decidano di aderire ad un ordinamento federale che li priverebbe di ogni sovranità allo stesso modo in cui ne sono privi i singoli Stati della federazione americana? Quanto è probabile che i cittadini francesi, tedeschi, greci e croati rinuncino tutti insieme, nello stesso momento, alla loro Costituzione? Quanto è credibile che un cittadino della Baviera o della Lombardia possa gradire che le imposte da lui versate vadano a beneficio di cittadini della Romania o dell’Estonia? Ora, ammesso e non concesso che una federazione di Stati europei in stile americano che va dal Portogallo alla Lettonia risolverebbe qualcuno dei nostri problemi nazionali ed europei, ha però ragione l’europeista irremovibile? E, tra mille difficoltà e contraddizioni, le istituzioni europee stanno veramente remando in quella direzione e, ogni anno che passa, facciamo un piccolo passettino nella realizzazione di questo progetto?
No: pur ammessa la bontà del sogno dell’europeismo ideale, anche in questo l’europeismo reale è pronto a smentirlo perché non solo, come vedremo subito, la federazione degli Stati Uniti d’Europa non è nell’agenda e nei programmi delle istituzioni europee, ma è anzi in totale contraddizione con i Trattati e con lo spirito neoliberista su cui l’Unione è stata fondata; “La stragrande maggioranza delle persone che conosco sono certe che l’Ue sta seguendo un percorso lineare, diretto, ma ancora incompleto, che porterà alla creazione di uno Stato europeo” scrive Pavarani. “Sono altrettanto certo che, se prendessero coscienza che questa prospettiva appartiene esclusivamente alla dimensione del mito e che non ha nessuna radice nella realtà, la loro eurofilia probabilmente si scioglierebbe come neve al sole.” Benché lo faccia credere ai suoi cittadini, infatti, l’Unione europea non vuole avere una dimensione politica, autonoma e sovrana di tipo statuale: “L’attuale Unione europea” scrive Pavarani “non ha alcun bisogno dello Stato, della politica, di compiuti poteri legislativi ed esecutivi: le scelte politiche, quantomeno in materia economica, sono già state fatte; sono stabilite a monte, sin dall’origine, e sono cristallizzate nei Trattati, una volta per tutte”.
È vero che la costruzione che è stata realizzata presenta un evidente deficit democratico, ma questo era esattamente nei piani perché la democrazia implicherebbe che, con il voto, gli elettori possano cambiare la politica economica e in Europa non deve funzionare così; la sovranità che è consentita al popolo è soltanto la possibilità di cambiare il governo nazionale, ma senza cambiare politica economica perché questa è impostata sul pilota automatico determinato dalle regole e dai Trattati europei. In pieno stile neoliberista, il mitologico mercato – e quindi, in realtà, delle ristrettissime oligarchie che traggono beneficio dallo status quo – deve avere l’ultima parola e deve essere tenuto ben al riparo dalle interferenze e dalle distorsioni prodotte dalle istanze democratiche. Per quale ragione, chiediamoci, le élite economiche, che guidano le istituzioni europee con l’avvallo statunitense, dovrebbero volere sopra di sé il controllo di uno Stato federale democraticamente eletto? “I sognatori sonnambuli non hanno capito che l’ordinamento istituito dai Trattati non si colloca nella direttrice del loro sogno, non è una tappa nel percorso che porta ad un nuovo Stato sovrano, gli Stati Uniti d’Europa. Si è realizzato un altro sogno, ben diverso, che si colloca nella direzione opposta. È il sogno di coloro che si proponevano di liberare l’economia dall’ingombrante presenza pubblica; si proponevano di liberare il mercato dagli effetti distorsivi generati dall’intervento dello Stato nel conflitto distributivo e a garanzia dei diritti sociali attraverso politiche di welfare; si proponevano di sottrarre agli Stati le sovranità nazionali sulle politiche economiche e non certo per riproporle in una dimensione statuale più grande a livello accentrato” scrive Pavarani.
L’obbiettivo, raggiunto e consolidato nell’attuale assetto dell’Unione, era ed è il depotenziamento degli Stati nazionali e lo svuotamento dei poteri di intervento pubblico; non certo l’obbiettivo di costruire un nuovo Stato più grande che riproponesse su scala più ampia, a livello europeo, il modello degli Stati nazionali e, quindi, diciamolo una volta per tutte: l’attuale Unione europea non è un assetto istituzionale incompiuto da completare in senso federale attraverso alcune riforme. È già completa ed è perfettamente coerente al disegno iniziale: “Lo Stato federale non può essere un modello per il futuro per la semplice ragione che questo, come gli Stati nazionali, è concepito in base all’idea di sovranità statuale” conclude Pavarani “mentre l’idea che sta alla base del progetto di integrazione europea nasce, al contrario, proprio dall’istanza del superamento degli Stati nazione e della loro sovranità”. E questo non sono quei disfattisti anti-occidentali di Ottolina, Guzzi e Pavarani a dirlo, ma la stessa Unione europea: il 9 maggio 2022 si è conclusa la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dal presidente francese Macron; la mission della Conferenza è stata delineata in una dichiarazione comune e divisa in 9 temi su cui incentrarsi per il futuro:[1] cambiamento climatico e ambiente;
[2] salute;
[3] un’economia più forte, giustizia sociale e posti di lavoro;
[4] l’Ue nel mondo;
[5] valori e diritti, stato di diritto, sicurezza;
[6] trasformazione digitale;
[7] democrazia europea;
[8] migrazioni;
[9] istruzione, cultura, giovani e sport.
Come si evince, quando l’Unione europea si interroga sul suo futuro non prende nemmeno in considerazione l’opportunità di mettere all’ordine del giorno e di avviare una discussione in merito ai passi necessari, il tragitto verso un assetto statuale di tipo federale (e, infatti, non se ne fa cenno nel documento finale); la costituzione di uno Stato federale non è in alcun modo contemplata.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro che il mito degli Stati Uniti d’Europa ci viene venduto fin da bambini per continuare ad ingoiare tutte le schifezze e tragedie che il vero progetto dell’Unione europea, quello oligarchico, neoliberista e figlio dell’occupazione americana, ci costringe a subire; quello che contribuisce allo smantellamento della socialdemocrazia e alla lotta di classe dall’alto verso il basso. Gli Stati Uniti d’Europa come il nuovo oppio dei popoli europei, l’oppio a causa del quale da 30 anni abbiamo smesso di guardare con lucidità politica a quello che succede intorno a noi. E se anche tu non sei un europeista convinto e, quindi, non ti illudi che le oligarchie economiche filo americane che traggono vantaggio da questa Unione europea decideranno di suicidarsi da sole e pensi che solo la lotta e il conflitto politico faranno nascere un nuovo progetto politico ed economico dei popoli europei, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che combatta la loro propaganda finto europeista. Aderisci alla campagna di campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Il “piùEuropa” e il male della banalità | La Fionda

La Meloni ha distrutto la possibilità di superare l’euro – ft. Stefano Sylos Labini

Oggi Gabriele Germani e Vadim Bottoni parlano di moneta fiscale e super bonus con uno dei maggiori esperti del tema in Italia: Stefano Sylos Labini. Nel corso dell’intervista si approfondirà il concetto di moneta fiscale, la sua applicabilità all’interno del progetto europeo (nel rispetto dei trattati) e la scelta politica nella sua cancellazione da parte di Draghi e del governo di centrodestra. Occhio critico sul mondo politico nel suo insieme, giudicato instabile e troppo condizionato ideologicamente dai dogmi del neoliberismo. In realtà, non è l’Europa a chiederci un bel nulla, ma è l’adesione quasi religiosa ai dogmi del debito e del neoliberismo a schiacciare l’economia italiana, a costringerci a precarietà e decrescita (infelice e non voluta).
Buona visione!

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Italia fuori dall’euro? – Perché la monete unica è la moneta del nostro declino

L’Italia è entrata nell’euro più per motivi religiosi che non per reale convenienza. Un europeismo ingenuo e acritico ci ha condotto tra le braccia della crisi e della decadenza della nostra economia. Gabriele Guzzi, professore di economia, ci ha parlato dei difetti strutturali di questa moneta e delle possibili soluzioni per rilanciarci.

Risveglio geopolitico europeo

Siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione?

Il risveglio geopolitico dell’Europa: così l’aveva definito Josep Borrell subito dopo il deflagrare del conflitto Russo-Ucraino. Lo aspettavamo da tempo: sembrava arrivata l’ora per le sempre più deboli e irrilevanti nazioni europee di invertire finalmente questo declino e tornare ad essere protagoniste sul palcoscenico globale. Negli ultimi decenni infatti, rinunciando completamente a ogni forma di pensiero strategico, cullandosi in un torpore museale da fine della storia e puntando tutto su un’ inedita politica di “potenza dell’impotenza”, gli Stati europei hanno sistematicamente avvantaggiato i loro rivali strategici.

Purtroppo, però, a quasi due anni dallo scoppio della guerra, abbiamo avuto la conferma che le attuali classi dirigenti nazionali e comunitarie non sono in grado di attuare questo risveglio. A partire proprio dai più ferventi europeisti, che si vagheggiano sognanti di Stati Uniti d’Europa, ma alla prova dei fatti non fanno altro che rendere ogni giorno sempre più irreversibile la nostra sottomissione agli Stati Uniti d’America e alle loro oligarchi finanziarie. Ed ecco così che oltre all’irrilevanza sul palcoscenico internazionale, si accompagna inevitabilmente anche il declino delle condizioni di vita interne, a partire dell’impoverimento costante dalle classi medie-basse e dalla distruzione degli strumenti di Welfare conquistati nel 900.

Esiste un modo per invertire questa deriva?

Ai suoi albori, la costruzione europea era stata pensata come un processo di pacificazione tra Stati storicamente in guerra che avrebbe generato una dinamica virtuosa e una vocazione universale alla pace. Impegnandosi sulla via dell’unificazione e di una pace duratura, la pax europea sarebbe stata la premessa per la pax universalisGli stati europei, invasi e occupati durante la seconda guerra mondiale, appaltarono la propria sicurezza strategica agli Stati Uniti, abbandonarono apparentemente ogni retorica imperialista e svilupparono una mentalità prevalentemente economicista. Tuttavia, il nobile afflato alla pax-universalis, assolutamente fisiologico dopo due guerre mondiali, poggiava su alcuni difetti strutturali e molte ingenue illusioni.
In primis, sebbene l’europa effettivamente abbia evitato conflitti fratricidi per qualche decennio, nel resto del mondo gli Stati hanno continuato a farsi la guerra, e a ragionare in termini di potenza e sfere di influenza. Inoltre, lo straniero che occupa gentilmente il nostro suolo con centinaia di basi militari e testate nucleari ha continuato e continua a ragionare in termini imperialistici, e non ha affatto abbandonato il linguaggio delle armi.
La storia insomma è andata avanti e oggi, dopo un periodo di relativa calma dopo la guerra fredda, ci ritroviamo in una situazione di collasso delle economie nazionali, di smantellamento dello stato sociale a causa di attacchi ai debiti nazionali da parte delle speculazioni finanziare, e in un mondo sempre più conflittuale, dove numerosi Stati si stanno riorganizzando per mettere in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare. Le istituzioni che rappresentano il diritto internazionale, vero capolavoro dello spirito politico filosofico europeo, stanno perdendo di efficacia, delegittimate dall’uso strumentale che ne è stato fatto in questi anni. Infine, negli ultimi trent’anni i pacifici stati europei hanno condotto o appoggiato guerre per la democrazia e bombardamenti umanitari nei Balcani, in Africa, in Medioriente e adesso anche in Europa orientale.

Spiace dirlo, ma spacciarci come i buoni e sofisticati europei che hanno capito che la pace è meglio della guerra, diventa sempre più difficile. Agli occhi del resto del mondo, in reltà non siamo altro che le ipocrite stampelle militari di un impero armato fino ai denti e con mire egemoniche. L’idea un’Europa priva di potenza e quindi potere decisionale si è quindi rivelata sbagliata e dannosa, e da questo fallimento deriva oggi l’esigenza di ripensare il fine dell’unificazione europea ai tempi del ritorno della “geopolitica”, capire che nuova forma possa assumere, e sulla base di quali principi. Questioni complesse ma di vitale importanza, che purtroppo avendo interiorizzato la mentalità dei servi che sperano solo nel prossimo pasto caldo, continuiamo a far finta che non ci riguardino. Una bella eccezione in questo senso è l’articolo La transizione geopolitica europea di Florian Louis, professore di storia alla Scuola di Alt studi di Scienze sociali di Parigi, pubblicato su Le grand Continent. Secondo Louis, sovranità strategica e cosmopolitismo in realtà possono coincidere, e pur tornando a pensare in maniera geopolitica gli europei non dovrebbero rinunciare al loro ethos pacifista e cosmopolita. Il rischio infatti è che l’aggravarsi delle fratture geopolitiche che contrappongono le grandi potenze ci conducano a un ripiego egoistico su noi stessi, impedendoci di operare di concerto su vitali interessi comuni come le migrazioni o il contrasto al cambiamento climatico.

“Per molti anni” si legge nell’articolo “l’errore degli Europei è stato pensare che il paradigma cosmopolita di cui essi stessi si reputavano l’incarnazione su scala regionale, avesse reso obsoleto il paradigma geopolitico. Se oggi hanno capito che non era così e che dovevano dotarsi dei mezzi per agire geopoliticamente in un mondo la cui evoluzione non si conformava alla loro visione irenica, ciò non deve spingerli a rinunciare all’esperienza cosmopolita acquisita, che è più che mai necessaria non solo all’Europa ma al mondo. In questo modo la transizione geopolitica Eruopea non sarà una rinuncia a ciò che siamo, ma un lucido superamento delle nostre debolezze al servizio della diffusione della nostra forza”.

Per quanto condivisibile, però, la proposta di Louis rischia di rivelarsi irrealizzabile, a meno che non vengano prima definite due questioni essenziali. Primo: che cosa si intende con Europa? quali nazioni comprende? E poi: siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione?
Ma il vero elefante nella stanza, in realtà, è ancora un altro: i rapporti con gli Usa. Teoricamente la lotta per l’indipendenza dagli Stati Uniti dovrebbe appassionare e metter d’accordo sia sovranisti che europeisti. I nord americani rappresentano infatti il principale ostacolo tanto per la riconquista della sovranità democratica delle singole nazioni europee, quanto per un’ipotetica Federazione, i tanto agognati Stati Uniti d’Europa, che potrebbero determinare la fine del dominio USA sul nostro continente.

A questo proposito, prendiamo atto con sconcerto che i più ferventi europeisti che parlano di questa utopica Federazione europea a 27 o più membri, sono solitamente anche i più convinti filoamericani. Alcuni sono evidentemente in malafede, altri invece cercano in tutti modi di autoconvincersi che questo è il migliore dei mondi possibili e che gli interessi dei nordamericani coincidano magicamente con i nostri.

Emblematiche in questo senso sono sempre le analisi della nostra amatissima Nathalie Tocci, la stratega preferita dalla propaganda filo-imperiale, che in un articolo pubblicato su La Stampa dal titolo Perché ci serve il gendarme Usa, arriva a scrivere: “Noi europei abbiamo vissuto nell’illusione di una pace perpetua. Ora siamo costretti a svegliarci di scatto e ci ritroviamo impreparati. La verità è che senza gli Stati Uniti, oggi l’Europa non sarebbe in grado di difendersi. […] Oggi che ci siamo svegliati non possiamo non ritenerci fortunati di far parte di un’Alleanza disposta a proteggerci.”

Il disegno dei padri fondatori europei era quello di un Europa democratica e sovrana capace di competere alla pari con le superpotenze del futuro e di trasmettere ideali di pace e cooperazione. Ma questa seconda giusta aspirazione non potrà mai essere raggiunta se non verrà prima riconquistata l’indipendenza e non verrò ridato un significato sostanziale alla parola democrazia. I giornali in questi giorni sono alle prese con il libro del generale Vannacci e gli Spot dell’Esselunga. Se anche tu vuoi fare la tua parte nel risvegliare dall’anestesia l’opinione pubblica italiana, supportaci nella costruzione di un media libero e indipendente:

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E chi non aderisce, è Nathalie Tocci