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Tag: emancipazione

I risvolti geopolitici delle OLIMPIADI – Ft. Marco Perisse

Oggi Gabriele intervista Marco Perisse per parlare del suo ultimo libro Sport dell’altro mondo. Dietro le quinte dei campioni, edito da Robin Edizioni di Torino. Quale implicazioni geopolitiche hanno le Olimpiadi? E lo sport in generale? Quali minoranze hanno adoperato lo sport come fattore di emancipazione? E in che modo Russia e Bielorussia stanno rispondendo all’esclusione delle Olimpiadi? Sullo sfondo il riferimento ai giochi sportivi dei BRICS, passati da poco più di sessanta a oltre novanta in un meno di un anno. Buona visione  

#Olimpiadi #BRICS #multipolarismo

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Il femminile in età moderna – ft. Alessandra Ciattini

Oggi torna Antrop8lina, la nostra rubrica per parlare di antropologia con Alessandra Ciattini e il nostro Gabriele. Prosegue il discorso sul rapporto tra i generi nelle varie società ed epoche storiche, con al centro questa volta l’emancipazione femminile avvenuta nell’età moderna-contemporanea (post rivoluzione francese). Emerge, chiaramente, anche la differenza nei comportamenti di genere tra donne delle classi medio-alte e delle classi basse e il ruolo del capitalismo, in particolare nella sue recente variante neoliberista, come disgregatore dei rapporti sociali tradizionali.

Buona visione! #Genere #femminismo #emancipazione #patriarcato

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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FONDAMENTALISMO DEMOCRATICO: come la propaganda ha capovolto il concetto di Democrazia

“Sostenere Israele e Ucraina è vitale per l’America. Dobbiamo tornare ad essere l’arsenale della democrazia”: così ha detto zio Joe Biden nel suo discorso alla nazione il 20 ottobre scorso. Un discorso che mette in evidenza l’idea di democrazia che ha l’élite statunitense: un brand made in USA – con tanto di copyright regolarmente registrato – e da brandire come un’arma a proprio piacimento, mentre tutti i paesi o le entità che non posseggono il suddetto marchio di provenienza sono considerati “Stati canaglia”, incarnazioni del Male da estirpare. Questo è il succo di quel ‘fondamentalismo democratico’ – per citare Luciano Canfora – che ritiene il sistema politico-economico e il modo di vivere occidentale come l’unico ammissibile.

Emiliano Alessandroni

Quello di democrazia, insieme a quello di libertà, è probabilmente il concetto in assoluto più abusato nel discorso politico occidentale. Basta aggiungerne un pizzico un po’ a caso e tutto diventa magicamente più bello : governo democratico, partito democratico, forze democratiche, metodi democratici, sentimenti democratici, spirito democratico e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio a causa di questo abuso retorico che occorre compiere un’opera titanica di messa in questione, di problematizzazione e di decostruzione del concetto stesso, che è proprio quello che fa Emiliano Alessandroni nel suo Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, un’opera ambiziosa che non si ponte tanto l’obiettivo, appunto, “di raccontare la democrazia, quanto quello di problematizzarla” e cioè “di liberare la sua narrazione e il suo concetto dalle semplificazioni tutt’oggi in voga”.
Se c’è un dogma che l’apparato giornalistico-mediatico propaganda quotidianamente è quello di identificare la democrazia occidentale con il Bene, in contrapposizione alle dittature – cioè a tutti i sistemi politici diversi da essa – che vengono identificati in blocco con il Male. A questo pensiero astratto, cioè fisso e astorico, Alessandroni contrappone un pensiero dialettico nel quale i termini non sono essenze, sostanze opposte, ma processi storici che si compenetrano. L’idea di Alessandroni è tanto semplice quanto dirompente: ci sono stati e ci possono essere processi di emancipazione, ossia conquiste realmente democratiche, in ciò che definiamo dittature, come d’altronde ci sono stati e ci possono essere processi di de-emancipazione, ossia regressioni dispotiche, in ciò che definiamo democrazie. Per mandare in tilt il manicheismo storico-filosofico del pensiero liberaloide contemporaneo, basta e avanza: per i pensatori liberali, infatti, il concetto di democrazia tutto sommato può essere ridotto a un assetto giuridico-politico specifico, e cioè il sistema caratterizzato dalla “competizione elettorale”. Se c’è siamo in una democrazia, sennò no. Aut aut. Semplice e chiaro.
Per Alessandroni, però, le cose sarebbero leggermente più articolate. Primo: il processo della competizione elettorale – sottolinea – sarebbe marcatamente influenzato dal potere economico -finanziario, che ha in mano anche quello mediatico. Chi ha più soldi ha, oggettivamente, più chance di far passare le sue idee e far eleggere i suoi politici di fiducia. Secondo: il diritto di voto nelle democrazie può essere ristretto a una minoranza o, comunque, escludere grandi masse di popolazione. Nella democrazia greca, ad esempio, è risaputo che votassero solo i maschi adulti, figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. Terzo: uno Stato giuridicamente democratico può attuare una politica dispotica di sterminio e colonizzazione verso altri popoli o altre nazioni; Israele è, ad esempio, giuridicamente una democrazia, ma agisce come despota verso la popolazione palestinese. Tutto questo non significa di per se, ovviamente, non riconoscere alla “competizione elettorale” un ruolo potenzialmente emancipatorio; piuttosto si tratta, molto semplicemente, di sottolinearne limiti – se non addirittura contraddizioni – che la propaganda cela con le sue semplificazioni manicheiste. “Se merito della tradizione liberale è stato insistere sull’idea di “democrazia giuridico-politica”, necessaria per la decentralizzazione del potere” sottolinea infatti Alessandroni, il dovere “della tradizione che fa riferimento al materialismo storico è focalizzare l’attenzione sui concetti di democrazia sociale e di democrazia internazionale, che soli permettono a quella giuridico-politica di ambire a una certa dose di universalismo, ed evitare che si trasformi in un paravento per nuove forme di dominio e di accentramento del potere nelle mani di una minoranza, anche se con modalità meno rozze e più sofisticate”. “Soltanto l’unità combinatoria di questi tre concetti e la loro declinazione universale” sottolinea infatti Alessandroni, “può incarnare la sostanza democratica. Come che sia, pare evidente quanto, lungi dall’esser giunti alla fine della storia, come teorizzava Francis Fukuyama, il cammino verso la democrazia rimanga piuttosto, allo stadio attuale, ancora inesorabilmente lungo”.
Proprio per questo motivo non bisogna cadere nella propaganda dell’ideologia democraticista, che è funzionale alla giustificazione dell’assetto di dominio vigente nello stesso modo in cui, nell’Ottocento, il ricorso al termine libertà era utilizzato dai padroni di schiavi per giustificare e moralizzare l’istituto della schiavitù. “Con democrazia” scrive infatti Alessandroni “si tende a indicare, nell’attuale presente storico, il sistema di dominio dell’Occidente. E quelle autentiche spinte democratiche, che (..) sorgono al di fuori del perimetro occidentale, vengono rappresentate, dalla nostra pubblicistica, sotto forma di minacce nei confronti della democrazia”. Da questo punto di vista, conclude Alessandroni, proprio “Come nell’antica Atene” anche oggi “il termine democrazia assolve la funzione ideologica di occultare e giustificare un determinato sistema di dominio”. E’ proprio il ricorso spregiudicato a questa ideologia, ad esempio, a permettere di occultare il fatto che quello che è considerato comunemente il paese guida del mondo democratico – gli Stati Uniti d’America – sia, a tutti gli effetti, l’esempio più fulgido di dispotismo nei rapporti internazionali. Una verità palese e arcinota soprattutto a tutti quei paesi che hanno sperimentato la condizione coloniale e l’aggressione armata. Dalla loro prospettiva di colonizzati e aggrediti, la democrazia non giunge certo da Occidente tramite le bombe e neanche dal suo avamposto mediorientale, ossia Israele. “Lo Stato di Israele” si chiede infatti retoricamente Alessandroni “costituisce davvero il migliore prototipo di democrazia e di libertà del Medio Oriente, come spesso si è sostenuto e si continua a sostenere? E ritornando nuovamente sul piano teorico, può essere ritenuto democratico un paese che manifesta un’evidente inclinazione coloniale? Ovvero, democrazia e colonialismo possono essere compatibili?”In termini di democrazia sostanziale, ovvero di una democrazia che non sia riducibile astrattamente alla sola “competizione elettorale”, la risposta è molto semplice: no, democrazia e colonialismo non sono compatibili.

Edward Said

Ma come mai – occorre domandarci – quando si parla di democrazia non si tiene conto di questi fattori così importanti? Come mai si considera determinante, per riconoscere un soggetto come democratico, soltanto il suo sistema elettorale interno e non anche le relazioni che esso instaura con gli altri soggetti? La risposta è piuttosto semplice: si chiama egemonia culturale che, per dirla con Edward Said, si nutre di 5 grandi narrazioni: la prima è quella che si concentra sulla distinzione ontologica tra Occidente e resto del mondo, il giardino ordinato contro la giungla selvaggia che lo circonda e lo minaccia, per dirla con il ministro degli esteri dell’unione europea Josep Borrell. La seconda è volta a codificare e naturalizzare la differenza tra noi e loro: noi siamo umani mentre loro no. La terza si fonda sulla retorica della missione civilizzatrice: noi occidentali bombardiamo sempre per il Bene e la democrazia e i bombardati, alla fine, ce ne saranno grati. La quarta mira alla diffusione massiccia dell’ideologia imperiale: una vera azione pedagogica intrapresa da tutti i lavoratori culturali, dai giornalisti ai registi cinematografici e ai vignettisti, rivolta tanto ai colonizzatori quanto ai colonizzati. La quinta è quella più specificatamente letteraria, capace di creare storie e immagini molto potenti in grado di esaltare la cultura imperiale: è la contrapposizione onnipresente in ogni tipo di prodotto culturale tra personaggi positivi – espressione della mentalità e dei valori imperiali – e personaggi negativi, espressione della cultura dei popoli sottomessi. Queste narrazioni unite diventano una Grande Narrazione che non ci fa immedesimare nella sorte dei colonizzati ma in quella dei colonizzatori, perseguitati dal “fardello” della loro “missione civilizzatrice”.
Fortunatamente, però, possiamo sempre cambiare prospettiva e rigettare la distinzione manichea e razzista tra noi e loro, onnipresente nei talk show televisivi venti anni fa come oggi; “cosa intende dire con “noi” il commentatore delle notizie serali” scriveva infatti Said già nel 2004 “quando chiede educatamente al segretario di Stato se le “nostre” sanzioni contro Saddam Hussein erano giustificate, mentre milioni di civili innocenti, non di membri dello “spaventoso regime”, vengono uccisi, mutilati, affamati e bombardati perché noi possiamo dare prova del nostro potere? O quando il giornalista televisivo chiede all’attuale segretario di Stato se, nella nostra furia di perseguire l’Iraq per le armi di distruzione di massa (che in ogni caso nessuno è mai stato in grado di trovare), “noi” applicheremo a tutti lo stesso principio e chiederemo a Israele di rendere conto delle armi in suo possesso senza ottenere risposta? […] Bisognerebbe trovare il coraggio” conclude Said “di dire nel modo dovuto: io non faccio parte di questo “noi”, e quello che “voi” fate, non lo fate in mio nome”.

Joe Biden

Se anche tu non vuoi più far parte di quel “noi” e vuoi combattere per un’informazione che sostenga la lotta degli oppressi e non dia corda alla propaganda degli oppressori, l’appuntamento è per domani mercoledì 8 novembre alle 21:00 in diretta su Ottolina TV con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina TV in collaborazione con Gazzetta filosofica. Ospite d’onore Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“. E se, nel frattempo, anche tu credi che per una democrazia reale in grado di combattere l’imperialismo anche sul piano culturale prima di tutto ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%, aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è zio Joe Biden

CONTRO IL FEMMINISMO LIBERALE: Cosa è e perché abbiamo bisogno di un Femminismo per il 99%

Argentina, Marzo 2015.

Contro il dilagare di femminicidi e la violenze sulle donne nasce il movimento Non Una Di Meno, ispirato dai versi della poetessa messicana Susana Chávez, vittima essa stessa di femminicidio: “Né una donna in meno, né una morta in più”.

Da lì in avanti l’onda femminista travolgerà rapidamente l’intera America latina, per poi lambire il Vecchio continente, fino addirittura alla Polonia, dove nel 2016, grazie ad oceaniche proteste di piazza, viene bloccata una proposta di legge per vietare le interruzioni di gravidanza anche in caso di gravi malformazioni del feto. 

Sempre nel 2016 Non Una Di Meno sbarca anche in Italia, dove però non si limita a fare proprie le battaglie del collettivo argentino, ma le integra con nuovi strumenti interpretativi, a partire dal concetto di intersezionalità.

Il concetto di intersezionalità era stato introdotto per la prima volta nell’ormai lontano 1989 dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere “i diversi modi in cui la razza e il genere interagiscono per determinare le molteplici esperienze delle donne nere sul terreno del lavoro”.

Riadattato, viene esteso a sostanzialmente tutte le contraddizioni che attraversano le nostre società: di razza, di genere, ma anche di classe, di religione e addirittura anagrafiche. L’idea è che scopo dell’analisi non sia più stabilire una gerarchia tra questi piani diversi, ma indagarne le interazioni, mettendo tutto sullo stesso piano e riconoscendone ad ognuna pari dignità.

L’anno dopo, il 2017, negli USA è l’anno del Me Too, movimento che denuncia molestie e abusi sessuali e che prende nome dall’hashtag diventato virale dopo le accuse da parte di alcune attrici di Hollywood contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein.

Sempre nel 2017, secondo la Merriam-Webster, lo Zingarelli statunitense, femminismo è la parola dell’anno. Il termine, infatti, ha visto esplodere l’interesse da parte del pubblico (+70% rispetto al 2016) ed è stato il più cercato nel web in concomitanza con fatti di cronaca e notizie giornalistiche.

La parola “femminismo” è diventata trend topic associato a serie e film, come “The Handmaid’s Tale”, che raffigura un Nordamerica distopico dove l’infertilità è capillare e le donne fertili divengono incubatrici per ricche coppie sterili, o “Wonder Woman”, il primo film su un supereroe diretto da una donna e con una visione del mondo scevra da pregiudizi sui ruoli di genere.

Insomma: un fenomeno politico, sociale e culturale di dimensioni gigantesche, che chi vuole capire cosa gli succede attorno non può esimersi da studiare e indagare a fondo.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori, e questo è il nuovo episodio di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo dei limiti e delle contraddizioni del femminismo liberale, e dell’urgenza, al contrario, di un femminismo per il 99%.

Femminismo per il 99%”, proprio così si intitola il libro manifesto del 2019 firmato da Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser.

L’obiettivo è quello che la Fraser aveva annunciato già 6 anni prima in un celebre articolo pubblicato sul Guardian. “Come il femminismo è diventato l’ancella del capitalismo. E come riappropriarsene”, era il titolo.

Come femminista”, scriveva allora Fraser, “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente”, riflette però Fraser, “ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. In particolare”, sottolinea, la nostra critica del sessismo”, sembra che oggi venga utilizzata per giustificare “nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

Una volta”, specifica Fraser, “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi”, conclude amaramente, “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la “cura” e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare “il successo individuale e la meritocrazia”. Ma com’è potuto accadere? Per capirlo, sostiene Fraser, bisogna ampliare lo sguardo, e affrontare il nodo del “paradigma capitalista, che, sostiene, nel tempo “ha cambiato completamente rotta”.

Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra”, scrive Fraser, “ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista”.

Chi segue Ottolina sa che sul “disorganizzato” non siamo molto d’accordo, che il capitalismo neoliberista è più organizzato e pianificato che mai, solo che il pianificatore invece che gli Stati sono diventati direttamente le oligarchie finanziarie. 

Ma l’intuizione di Fraser rimane potentissima. “La seconda ondata del femminismo”, scrive, “è emersa come critica al capitalismo di prima maniera”, proprio mentre quel paradigma si era ormai trasformato in qualcosa di ancora più feroce e pervasivo.

E paradossalmente, di questo nuovo capitalismo più feroce e pervasivo, invece, il femminismo, è diventato addirittura “ancella”, fedele servitore. La trasfigurazione non poteva essere più radicale. Da componente essenziale della battaglia generale per l’uguaglianza, il femminismo si è così trasformato in battaglia per le “pari opportunità di dominio”. 

Ed ecco così che “in nome del femminismo”, si arriva a chiedere “alle persone comuni di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un drone di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli in una gabbia al confine col Messico”. (Femminismo per il 99%. Un manifesto).

Per contrastare una deriva così radicale, sostiene Fraser, qualche critica puntuale qua e là non può bastare. C’è bisogno di intraprendere una battaglia intellettuale e culturale a tutto tondo, in grado di riconsegnarci strumenti di indagine adeguati per svelare il funzionamento concreto di questo nuovo capitalismo, e come questo funzionamento impatta direttamente anche sulle questioni di genere. 

Un obiettivo ambizioso, che sta alla base dell’ultima fondamentale opera  di Fraser, “Capitalismo Cannibale – come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta”.

Sulla scorta delle riflessioni di Marx e del marxismo, sostiene Fraser, abbiamo imparato a mettere a fuoco il capitalismo come sistema economico basato sulla merce e quindi sulla mercificazione del lavoro salariato fondata su un rapporto di dominio produttivo: il capitalista domina e sfrutta, il lavoratore è costretto a vendere la propria umanità sul mercato “per essere apprezzato al suo giusto valore”.

Marx, ribadisce Fraser, ha avuto il merito di essere sceso al di sotto del livello fenomenico dello scambio mercantile, rilevando che al cuore del capitalismo vi sono le imprese, cioè delle organizzazioni gerarchiche nelle quali chi mette il capitale domina e tutti gli altri sono dominati. Ma i rapporti di produzione, fondati sullo sfruttamento di molti da parte di pochi, sono solo una parte del quadro complessivo.

Perché oltre alla dimensione economica-produttiva ci sono altri rapporti di dominio che quello sfruttamento lo rendono possibile e senza i quali l’intera macchina non potrebbe funzionare. “Il capitalismo”, sottolinea lucidamente Fraser, “non è un’economia, ma un tipo di società caratterizzata da un’area di attività e relazioni economizzate distinta e delimitata da altre zone non-economizzate, da cui la prima dipende senza riconoscerle”.

La sfera della politica internazionale, ad esempio, che è caratterizzata da rapporti di dominio di tipo neocoloniale da parte del Nord Globale nei confronti del resto del mondo; o la sfera della politica, dove gli spazi di decisione e deliberazione democratica vengono sempre più ristretti e marginalizzati a favore del potere decisionale delle élites politico-finanziarie; o ancora, la sfera dell’ambiente, inteso come insieme di natura non-umana e che viene utilizzato come fucina inesauribile di risorse e sottoposto a uno sfruttamento sempre più brutale; e per finire, ovviamente, la sfera della “cura, ovvero tutto quel lavoro non retribuito senza il quale si incepperebbe tutto e che ricade quasi interamente sulle spalle del genere femminile.

Il lavoro salariato”, scrive Fraser infatti, “non potrebbe esistere in assenza del lavoro casalingo, dell’accudimento e dell’istruzione dei figli, della cura affettiva e di una miriade di altre attività che contribuiscono a creare nuove generazioni di lavoratori, a sostenere quelli esistenti e a mantenere legami sociali e visioni condivise” (Capitalismo cannibale).

Dalla sfera della produzione, magistralmente descritta ormai oltre un secolo e mezzo fa da Marx, Fraser così si allarga a quella della ri-produzione: “L’attività socio-riproduttiva”, scrive Fraser, “è assolutamente necessaria per l’esistenza del lavoro salariato, per l’accumulazione di plusvalore e per il funzionamento del capitalismo in quanto tale”.

Sebbene l’economia capitalistica non riconosca alle attività di sostentamento, di cura e di interazione che producono e mantengono i legami sociali alcun valore monetario e le tratti come se fossero gratuite, in realtà ne è totalmente dipendente. L’occultamento del ruolo essenziale di tutte queste attività è in larga parte dovuto al loro essere state forzatamente relegate in una sfera privata, distinta dalla sfera economica e sociale propriamente detta.

La lunga battaglia che ha attraversato il XX secolo è consistita in buona parte invece proprio nel loro riconoscimento e nella rivendicazione che a farsene carico fosse sempre di più lo stato, attraverso la fornitura di quelli che oggi chiamiamo servizi pubblici essenziali: dall’istruzione alla sanità.

In questo modo queste attività uscivano dalla sfera privata, senza però essere trasformate in merce.

La controrivoluzione neoliberista in buona parte consiste proprio nel riportare indietro le lancette della storia che marciavano spedite verso la sempre crescente soddisfazione di questi bisogni primari da parte della collettività e delle sue istituzioni.

Tutto quello che è cura, cessa così di essere riconosciuto nel suo valore sociale di precondizione essenziale alla produzione stessa, e da responsabilità collettiva torna ad essere responsabilità privata.

Ed è proprio nelle modalità in cui avviene questa ri-privatizzazione di queste funzioni sociali essenziali che si gioca tutto lo scontro di facciata tra le due facce della stessa medaglia del dominio capitalistico contemporaneo, quella fintamente progressista, e quella realmente reazionaria: dove quella reazionaria mira semplicemente a ristabilire le vecchie gerarchie in ambito domestico, con la donna che torna all’acquaio, quella fintamente progressista mira a trasformare anche queste funzioni ri-privatizzate in merce, con donne e uomini che molto progressivamente e senza discriminazioni si devono spaccare la schiena entrambi 12 ore al giorno per affidare la cura dei loro cari a qualche azienda privata, possibilmente di proprietà di qualche fondo speculativo.

Il femminismo liberale, in sostanza, è proprio per questo che si batte ed è per questo che trova nel grande capitale all’affannosa ricerca di nuovi spazi dove essere impiegato in modo profittevole e garantito uno sponsor entusiasta. Ed ecco così spiegato, continua Fraser, come una parte del movimento femminista sia diventato “ancella del capitale”: concentrandosi solo su una delle sfere del dominio (quello della discriminazione di genere), ha spalancato la porta ad altre forme ancora più feroci.

E, sostiene Fraser, tutto sommato anche insostenibili.

Da un lato”, scrive infatti Fraser, “la produzione economica capitalista non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta a un’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare proprio i processi e le capacità riproduttive di cui il capitale e noi tutti abbiamo bisogno”.

L’effetto”, sottolinea Fraser, “è quello di mettere periodicamente a rischio le necessarie condizioni sociali dell’economia capitalistica stessa”.

Per farci capire meglio questa contraddizione, Fraser ci fa pure, diciamo così, un disegnino. L’uroboro infatti è un simbolo rappresentante un serpente o un drago che si morde la coda.

Distruggendo le proprie condizioni di possibilità”, sostiene Fraser, “la dinamica di accumulazione del capitale imita l’uroboro e si mangia la sua stessa coda”.

Capita la minaccia, però, ora occorre trovare anche il rimedio. E il rimedio, secondo Fraser, si chiama Socialismo. Però, precisa, un Socialismo del XXI secolo

Per la filosofa, infatti, il socialismo del XXI secolo “Deve de-istituzionalizzare le molteplici tendenze alla crisi: non «solo» quella economica e finanziaria, ma anche quella ecologica, quella socio-riproduttiva e quella politica.

Occorre quindi andare oltre la sola prospettiva economica e smascherare in un colpo solo l’ideologia del capitale, che separa le sfere del sociale, occultando la loro importanza come precondizioni per lo sfruttamento economico, ma anche quella di un certo socialismo, che si concentra solo sulle aree di crisi economiche, trascurando le altre.

La proposta di Fraser è di invertire il rapporto gerarchico tra economia e politica: “Un socialismo per il XXI secolo deve democratizzare il processo di progettazione istituzionale, rendendo il contenuto e la portata dei diversi ambiti sociali una questione politica. In breve”, scrive, “ciò che il capitalismo ha deciso per noi alle nostre spalle dovrebbe essere scelto da noi attraverso un processo decisionale collettivo e democratico”.

L’autrice immagina un sistema decisionale in cui il mercato e la proprietà privata non svolgano più un ruolo di direzione. “Qualsiasi cosa venga deciso”, scrive, “dovrà essere fornito per effetto di un diritto e non solo sulla base della capacità di pagare

Non si tratta di disconoscere o mortificare aprioristicamente il mercato come strumento per la corretta allocazione delle risorse, anzi: “Una volta che il vertice e la base saranno socializzati e de-mercificati”, sottolinea infatti Fraser, “la funzione e il ruolo dei mercati nel mezzo si trasformeranno” e in questa “zona intermedia”, sarà possibile sperimentare liberamente tra diverse alternative. Accanto a forme cooperative o autogestite, anche i mercati potranno trovare un loro spazio, mettendosi a questo punto a disposizione dell’interesse generale, e non in contrapposizione ad esso.

Da questo punto di vista, il femminismo della Fraser, appunto, non è altro che un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che sempre di più vede contrapposte le ristrettissime oligarchie del nord globale a tutto il resto del pianeta.

Un femminismo, appunto, per il 99%

Per chi vuole approfondire, come sempre, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 27 Settembre a partire dalle 21 in diretta su OttolinaTV.

Oltre alla solita crew di Ottosofia, stasera saranno con noi, Anna Cavaliere, ricercatrice di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Salerno, e Luca Baccelli, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Camerino.

Nel frattempo, se anche tu sei convinto che per contrastare lo strapotere mediatico delle oligarchie e dell’1% servirebbe come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99, aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Chiara Ferragni.