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Tag: diritti sociali

Che cosa è l’ideologia Woke?

In questi mesi sentiamo sempre più spesso parlare di ideologia o cultura Woke. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione, e c’è chi invece la considera una forma di progresso morale e spirituale dell’umanità. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della sinistra occidentale?In questo video ripercorreremo le sue origini, vedremo i suoi indirizzi politici di fondo e cercheremo di capire se oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice ve ne sono anche altre, più sensate, che ne mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con il potere neoliberale.
Woke, e cioè – letteralmente – “sveglio”, almeno abbastanza per individuare e denunciare le ingiustizie sociali, a partire da quelle razziali: il termine Woke, infatti, entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: meriterebbero un video ciascuno, e ci ripromettiamo di farlo; qua invece ci limiteremo a provare a capire se sia rintracciabile un indirizzo di fondo comune e, soprattutto, le ragioni dell’uso in parte strumentale che di questa ideologia viene fatto oggi.
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni ’70 nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana; un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. Ed è infatti soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento; dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.

Vincenzo Costa

Ma al di là del generale Vannacci e compagnia bella, in questi anni anche tanti intellettuali di ben altro spessore hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche Woke più superficiali e antiscientifiche e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti: nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova cultura; maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto: come scrive la giornalista Florinda Ambrogio “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde; nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere; dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99 per cento, quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute – senza appello – verminaio di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”: diventa quindi chiaro perché, dalla prospettiva degli ultimi, la nuova sinistra alla moda politicamente corretta appaia spesso come una tribù di sedicenti illuminati con il culo parato che, demonizzandone lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie idee e valori di nicchia; ma, come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. È evidente come nelle rivendicazioni della classe operaia in Inghilterra, ad esempio, le classi popolari non chiedevano di essere rieducate da un’aristocrazia morale e intellettuale perlopiù estranea alle loro condizioni di vita, ma giustizia sociale e diritto alle proprie forme di legame; “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” scrive il filosofo sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, questi nuovi intellettuali di sinistra non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” continua Costa in Le categorie della politica “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il filosofo Andrea Zhok, nel suo libro La profana inquisizione e il regno dell’Anomia, commenta così questo curioso caso di ingegneria linguistica: “Contro ogni evidenza è stata gabellata l’idea che gli usi tradizionalmente al maschile di certe parole creino l’aspettativa che a rivestirle sia un maschio, operando perciò come ostacolo all’emancipazione femminile. L’evidenza linguistica primaria che il significato sia determinato dall’uso è stata rimossa. Si è preferito pensare che i rapporti sociali effettivi (da cui dipendono gli usi linguistici), possano essere mutati riformando le desinenze. […] che nessuno chiamando una “guardia giurata” si aspetti un’apparizione muliebre con rossetto e tacchi a spillo è ritenuto accidentale. Che nessuno si stupisca se la “maschera” a teatro sia un giovanotto nerboruto è ritenuto trascurabile. Che fino all’altro ieri quando si parlava di “valutazione degli studenti” tutti avessero in mente l’insieme del corpo studentesco, a prescindere da questioni di genere, è invece certamente segno della rimozione di un inconscio segno di superiorità maschile”. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di discriminazione ed emancipazione appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Partiamo intanto dal presupposto che è ampiamente dimostrato come, nelle società capitaliste, il principale motore di diseguaglianza e discriminazione sociale sia il “capitale pregresso”, ossia la disponibilità economica familiare e individuale; questa disparità di capitale si ripercuote su tutti i livelli: sulla formazione, sul riconoscimento pubblico, sull’accesso a posizioni di potere politico ecc. ecc. Anche tutte le differenze di genere, etnia, colore, ecc. diventano praticamente impalpabili e irrilevanti per chi possiede significative disponibilità economiche e, più in generale, più in alto si sale nella scala sociale; questo dato conclamato viene però sistematicamente rimosso dal tavolo facendo finta che non esistano variabili economiche e creando una guerra tra poveri su questioni di genere, etnia, orientamento sessuale o altro. Insomma: mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza – e già la cosa comincia un po’ a puzzare; per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Zhok. Si spiega così come sia stato possibile che un movimento culturale minoritario legato alla mancata rivoluzione del ’68 sia potuto diventare una componente egemonica della società contemporanea, e la ragione sta nella sua compatibilità con le funzionalità al regime neoliberale: per prima cosa, la funzionalità dello wokismo sta nel fatto che, nella gerarchia dei temi da trattare, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale, la perdita di sovranità democratica vengono surclassate, nella presentazione e nell’agenda pubblica, dallo scandalo di cronaca su questo o quell’abuso patriarcale e discriminatorio e può pertanto ben funzionare da distrazione di massa; in secondo luogo, l’impianto Woke promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale ecc. viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati più fanatici della nuova sinistra Woke “l’altro è l’inferno.”

Carl Rhodes

Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili: dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”; l’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici. E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti.
Per concludere vorrei infine citare Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici dell’ideologia Woke ante-litteram; nel 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato, avendo capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico, così scriveva sul Corriere della Sera: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
I diritti civili e la lotta contro ogni forma di discriminazione sono una parte fondamentale del processo di emancipazione dei subalterni: serve come il pane un vero e proprio media che ci aiuti a sottrarle dalle strumentalizzazioni operate dalle oligarchie, per riportarle ad essere strumenti di lotta a favore del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il Generale Vannacci