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Tag: depressione

SINNER l’ANTI-ITALIANO: se un EVASORE TOTALE viene spacciato per Eroe della Patria

“Lavoro, famiglia e la rimonta da Slam”; Jannik Sinner, “l’arcitaliano che vorremmo essere”: nei giornali dei fintosovranisti, lunedì – la prima volta di un italiano agli Open di Australia – veniva salutata, comprensibilmente, con incontenibile entusiasmo. Ora, a noi il tennis piace, piace vedere il tricolore in cima al podio e piace pure Sinner, ma cosa intendono esattamente quando parlano dell’arcitaliano che vorremmo essere? Intendiamoci: sul che vorremmo essere magari ci può anche stare, ma siamo proprio sicuri che si parli esattamente di un arcitaliano? Jannick Sinner infatti, come d’altronde anche l’allenatore e 4 componenti su 5 del team che ci ha regalato di nuovo, dopo decenni, la Coppa Davis, in realtà sono italiani un po’ a modo loro: hanno tutti la residenza a Montecarlo, dove pagano le tasse (o meglio, dove non le pagano); il principato di Monaco, infatti, è un gigantesco paradiso fiscale e per l’Italia è un problema enorme. Ogni anno ci finiscono una quantità spropositata di quattrini che a noi che non ambiamo a essere arcitaliani, ma ci accontentiamo di essere italiani semplici, servirebbero come il pane per finanziare i servizi essenziali che hanno permesso anche ai nostri campioni di diventare quello che sono (dalla scuola alla sanità, a tutto quello che fa del nostro paese – ancora per poco – un paese moderno e sviluppato), ma anche per rilanciare la nostra moribonda economia. Siamo proprio sicuri che il modello del perfetto patriota sia qualcuno che prende dalla nostra comunità tutto quello che gli serve e poi, quando gli va bene, ci fa ciao ciao con la manina e non restituisce niente? Con patrioti così – e con chi li eleva a role model di cui vantarsi e da ostentare – non è che rischiamo di darci una martellata nei coglioni?

Jannik Sinner

Il patriottismo italiano ai tempi del governo dei fintosovranisti al servizio di Washington e delle oligarchie finanziarie sembra un po’ strambo: i personaggi dello sport si fottono beatamente i soldi che dovrebbero servire per garantire i servizi essenziali a chi ha più bisogno e per far ripartire l’economia anche per tutti gli altri e, ciononostante, diventano eroi della patria; come si dice in questi casi, la mia idea di patria evidentemente è differente. Il caso di Montecarlo è un caso scuola di come funziona il grande furto di ricchezza delle oligarchie e dei super – ricchi a danno dei loro – a quanto pare – tanto odiati compatrioti e riguarda, in particolare, proprio l’Italia; in appena due chilometri quadrati, infatti, a Montecarlo si concentrano circa 38 mila abitanti, 19 mila per chilometro quadrato: la più grande concentrazione di popolazione al mondo e senza che ci siano i megagrattacieli di Dubai o di Abu Dhabi. Tutti fitti fitti come formichine; insomma, un vero posto di merda. Eppure, come riporta Idealista, è proprio qui che ci sono i monolocali più cari del mondo: 51 mila euro al metro quadrato, contro gli oltre 43 mila del centro di Hong Kong; un gap che aumenta se, invece che i soli monolocali del centro, ci si allarga anche alle altre aree e alle altre tipologie di abitazione. A Montecarlo, infatti, il prezzo al metro quadro medio continua ad essere di oltre 44 mila euro, mentre a Hong Kong scende a poco più di 16 mila: 44 mila euro al metro quadro, 4 milioni e mezzo per un umile appartamento di 100 metri quadrati. Perché?
Semplice: nel principato di Monaco le tasse sul reddito e sulle plusvalenze non sono semplicemente scandalosamente basse; proprio non ci sono del tutto, come non ci sono tasse sul patrimonio, sull’eredità e manco l’IMU, e per acquisire il diritto di non pagare le tasse a Montecarlo ti devi comprare per forza quattro mura. Ecco così che decine di migliaia di ultra – ricchi di tutto il pianeta fanno a gara per spartirsi i mattoni che si accumulano uno sopra l’altro in questi orrendi 2 chilometri quadrati di territorio; i 39 mila abitanti di Montecarlo, infatti, si dividono in poco meno di 140 nazionalità di provenienza diverse : solo nel 2022 – riporta l’ufficio di statistica monegasco – sono state effettuate transazioni immobiliari per 3,54 miliardi, oltre 90 mila euro pro capite. In Italia, giusto per avere un parametro di confronto, il valore delle transazioni immobiliari in un anno equivale a meno di 2000 euro pro capite. Tutti soldi che non solo vengono sottratti al fisco, ma anche all’economia reale.
E’ un esempio paradigmatico di bolla speculativa che si sostiene grazie alla fuga dei capitali e all’elusione fiscale internazionale: te sei azionista di un’azienda che opera in un paese X, ma hai la residenza fiscale a Montecarlo; quando arrivano i dividendi, invece di reinvestirli li porti nel principato di Monaco e ci compri uno di questi appartamenti: un quadrilocale standard da 123 metri quadrati per 5,4 milioni, oppure un modesto bilocale da 70 metri quadrati per appena 4,9 milioni o, se ti è andata particolarmente di lusso quell’anno, magari anche un bel duplex da oltre 400 metri quadrati per la modica cifra di 22,9 milioni. Ovviamente quei soldi non creano nessuna forma di ricchezza reale e, a parte quell’1% scarso che va a chi la casa l’ha costruita davvero, non aiutano nessuna forza produttiva a svilupparsi, e però te sei tranquillo che il tuo patrimonio è al sicuro, completamente detassato e che si rivaluterà continuamente grazie ai tuoi amici che sono al governo nel tuo paese di provenienza, che ti garantiscono che la fila di super – ricchi che fanno a pugni per comprarsi le quattro mura necessarie per farli diventare parte di questo sogno distopico ci sarà sempre e che nessuno farà mai niente per mettere fine a questa rapina . E, anzi, eleggeranno a eroe della patria dell’anno chi ci partecipa, che, va ricordato, sarà pure il primo italiano a vincere gli Open d’Australia, ma in questo giochino a chi frega più soldi all’Italia e agli italiani arriva esimo. Dopo i meno di 9 mila abitanti autoctoni e i poco meno di 10 mila cittadini francesi, a guidare la classifica dei residenti monegaschi per paese di provenienza – e di gran lunga – infatti, c’è proprio l’Italia: oltre 8000, seguiti a gran distanza dai meno di 3000 cittadini britannici e dai poco più di mille svizzeri e belgi. Gli statunitensi, invece, sono proprio pochini: meno di 400; strano eh? Beh, mica tanto: insieme ai francesi, infatti, gli statunitensi sono gli unici che non hanno diritto all’esenzione totale dalle tasse sui redditi e sulle plusvalenze; chiamali scemi… I governi USA hanno steso tappeti rossi in casa ai loro super – ricchi creandosi anche paradisi fiscali interni; ma i capitali non li fanno fuggire a caso. Loro sono quelli che i capitali li fregano agli altri, non certo quelli che se li fanno fregare.

Valentino Rossi’s “Ciao poverih”

Ora, i nostri 8 mila connazionali che con i loro magheggi fiscali hanno dichiarato guerra all’economia del nostro paese, diciamo che in media hanno un modesto appartamento da un centinaio di metri quadrati per uno anche se non ci stanno mai: come avviene nella stragrande maggioranza dei casi,100 metri per questi parassiti sono un misero pied-à-terre. Ecco: fanno 800 mila metri quadrati di bolla speculativa edilizia a 50 mila euro al metro quadrato, e cioè 40 miliardi sottratti all’economia reale del nostro paese, perché fare soldi investendoli nell’economia reale comunque è troppo più faticoso e rischioso che non depositarli in una bolla speculativa in un paradiso fiscale. E 40 miliardi sono tantini, eh? Sono oltre 30 volte i soldi che servono per salvare l’ILVA, ma soprattutto sono circa 4 volte il totale degli investimenti esteri diretti che l’Italia riceve in media in un anno; non so se è chiaro: con la scusa di attrarre più investimenti, nell’arco di 30 anni abbiamo completamente azzerato i diritti dei lavoratori italiani e poi scopriamo che attiriamo in tutto una quantità di investimenti che è un quinto dei quattrini che i nostri super – ricchi hanno fregato all’economia italiana per comprarsi casa in quel cesso di posto che è Montecarlo, e il bello è che questa è solo la punta dell’iceberg. La bolla speculativa immobiliare dei paradisi fiscali, infatti, è una parte infinitesimale del gigantesco schema Ponzi in cui è stata trasformata dalla controrivoluzione neoliberista l’intera economia dell’Occidente collettivo; il grosso della ciccia, infatti, è dall’altra parte dell’oceano, a Wall Street: è il sistema che Daniela Gabor ha ribattezzato il Wall Street consensus, il vero nodo – insieme alla proiezione militare – del superimperialismo dominato da Washington e che gode di una vasta rete di alleanze.
Alessandro Volpi, in particolare, a questo giro si è concentrato su un asse: quello che lega a Washington la Norvegia. La Norvegia infatti, mentre fa la ramanzina al resto del mondo sulla transizione ecologica, fonda la sua potenza economica nazionale su un gigantesco fondo che si occupa di investire gli enormi profitti che arrivano dalle care vecchie fonti fossili e che sono aumentati a dismisura da quando l’Unione Europea ha deciso di uccidere l’economia dei paesi che vi aderiscono per far finta di fare un dispetto a Putin mentre, in realtà, facevano solo un regalo a Zio Biden: una quantità spropositata di quattrini che – come i quattrini degli italiani che finiscono nelle case di Montecarlo – non contribuiscono in nessun modo allo sviluppo economico del vecchio continente, ma solo ed esclusivamente ad alimentare le bolle speculative dei mercati finanziari, in particolare quelli USA, rimandando così il crollo definitivo dello schema Ponzi dell’economia Occidentale mentre, allo stesso tempo, contribuiscono a scavare il baratro in cui precipiteremo quando inevitabilmente, a un certo punto, la everything bubble – la bolla di tutto – scoppierà. Quindi, in soldoni, le cause profonde che hanno scatenato la grande depressione del ‘29 (che è stata la seconda grande depressione del capitalismo globale) sono le stesse identiche che hanno causato la terza grande depressione – come la chiamano Vijay Prashad e i ricercatori della Tricontinental – che è quella che stiamo vivendo noi in diretta da una quindicina di anni abbondanti. Nel ‘29, però, ancora non esisteva il Wall Street consensus e, cioè, questa gigantesca concentrazione monopolistica dei capitali finanziari privati che è quella che tiene insieme, in una strategia unica coordinata, i mega – fondi come BlackRock, Vanguard, State Street e altri fondi enormi – ma in termini assoluti comunque secondari – come, appunto, quello sovrano della Norvegia che campa di sfruttamento delle fonti fossili: in quel caso, allora, a salvare il capitalismo dal suo suicidio ci dovette pensare Roosevelt con il suo New Deal che le oligarchie furono costrette ad accettare perché, altrimenti, sarebbe saltato definitivamente per aria tutto, ma che non digerirono mai fino in fondo. Con il New Deal, infatti, per salvare il sistema, una fetta enorme di potere politico che – in soldoni – è il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa, passò dai grandi gruppi capitalistici privati allo stato; da allora le oligarchie hanno imparato la lezione e, a partire dagli anni ‘70 – gli anni, cioè, dello scoppio della grande controrivoluzione neoliberista inaugurata ufficialmente dall’avvio della lotta contro la democrazia moderna in Occidente da parte della Commissione Trilaterale – hanno pianificato in ogni minimo dettaglio la costruzione del più grande monopolio finanziario privato della storia del capitalismo globale, trasferendo di nuovo il potere politico di decidere dove vanno i soldi per fare cosa in mano alle oligarchie che, bisogna ammetterlo, fino ad oggi hanno fatto un ottimo lavoro: a oltre 15 anni dallo scoppio di quella che chiamano la crisi finanziaria ma che in realtà, appunto, è la terza grande depressione della storia del capitalismo globale, il monopolio finanziario privato è riuscito a garantire profitti e dividendi stellari alle oligarchie senza che fosse necessario rimettere in moto l’economia reale e, quindi, senza che il potere dovesse essere di nuovo trasferito – almeno in parte – agli stati come ai tempi del New Deal al punto che oggi, anche quando si parla di finanziamenti pubblici – come nel caso della transizione ecologica o dei giganteschi incentivi pubblici messi in campo dall’amministrazione Biden nel tentativo di Make america great again come Trump e più di Trump – i quattrini vanno tutti, senza esclusione, a finire nei bilanci dei gruppi privati. Come dire… chapeau.

Sergio Marchionne

Scemi noi, il 99%, che – come per le case degli evasori di Montecarlo – continuiamo a occuparci a dividerci sulle fregnacce mentre questi ci fregano da sotto il naso tutta la ricchezza che produciamo con il nostro sudore. Sarà perché sono un po’ vagabondo, ma io sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni di lavorare per pagare i duplex da 22 milioni a Montecarlo a qualcuno che non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua. Ottolina Tv l’abbiamo fondata per questo: per convincervi che è arrivata l’ora di riprenderci i nostri soldi. Che dici? Ci dai una mano? Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jannik Sinner

No dai, scherzo, che poi sembra che ce l’abbiamo con lui. Invece a me Sinner mi gasa anche, ci mancherebbe! Rifamo:

E chi non aderisce è Valentino Rossi

Ah no? Manco lui. Va beh.

E chi non aderisce, allora, è Sergio Marchionne
(eh si, anche lui c’aveva la residenza a Montecarlo: grande patriota pure lui?)

UN MONDO MALATO – Come BigPharma e le Oligarchie ci fanno sbroccare di testa, e ci danno pure la colpa

Insieme alla catastrofe ecologica, oggi stiamo assistendo ad una vera e propria catastrofe psicologica dei popoli occidentali. I dati sono inquietanti: sia l’Istat che il recentissimo studio Headway – Mental Health Index realizzato da The European House, ci dicono che il 20% degli italiani soffre di almeno un disturbo psichico, e questo senza contare i tantissimi casi di disagio sommerso che non appaiono nei numeri; ansia, depressione, stress, solitudine, paura i disturbi più diffusi. E il problema non è solo italiano, ma riguarda tutti i paesi occidentali più sviluppati.

Mark Fisher

Le contromisure prese dagli Stati e dalla Commissione Europea, come i corsi di prevenzione per bambini e adolescenti e i fondi destinati all’aumento di ambulatori specializzati, si stanno dimostrando un fallimento e sviano l’attenzione dalle cause profonde e strutturali di questa crisi. Come sostenevano i grandi sociologi e filosofi Mark Fisher e Oliver James – oggi in compagnia di sempre più numerosi psicologi e psichiatri – la così ampia diffusione di certe malattie mentali non può essere spiegata come un fatto puramente privato e medico, ma come un fatto politico, legato a un sistema culturale e produttivo – quello neoliberale – che stritola l’individuo e lo riduce ad una vita sempre più esigente, solitaria e disperata. Nel saggio Why Mental Health Is A Political Issue Fisher scrive che invece di affrontare il problema politico della questione, si assiste a un processo di continua privatizzazione dello stress in cui le cause strutturali e politiche di questo disagio vengono rimosse e taciute; nel frattempo, i profitti delle case farmaceutiche nell’industria degli psicofarmaci non fanno che aumentare, e sono passati dai 16 miliardi del 2018 ai 21 miliardi del 2022. Lo psichiatra Paolo Migone, direttore della rivista Psichiatria e scienza umane, scrive: “Le grandi multinazionali farmaceutiche penetrano ogni aspetto della medicina, condizionandone la cultura alla luce dei propri interessi che, come è naturale, non mirano proprio alla salute delle persone ma all’aumento dei loro guadagni. Per le case farmaceutiche, al limite, più malati ci sono meglio è, perché questo permette maggiori profitti. Nei Paesi in cui non vi è un servizio sanitario nazionale ma in cui la medicina è privatizzata la situazione è ancora peggiore”. Fisher e James individuano le cause della crescente diffusione dell’ansia, dello stress e della depressione negli elementi alienanti e patogeni della nostra cultura e del nostro sistema produttivo, e si augurano che contro la privatizzazione dello stress si assisterà, in futuro, a un processo di ri -politicizzazione delle malattie mentali, che permetta alla lotta politica di riappropriarsi di questa fondamentale dimensione sociale.
“Esistono i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie, non esiste nulla che possa definirsi società” ha detto una volta Margaret Thatcher dando voce ad una delle convinzioni profonde della cultura neoliberale. Il 13 gennaio del 2017 l’intellettuale inglese Mark Fisher, che aveva dedicato gran parte suo lavoro a confutare questa affermazione della Thatcher, morì suicida a causa di una profonda depressione che lo aveva accompagnato tutta la vita; Fisher accusava la Thatcher di essere uno dei massimi rappresentanti del cosiddetto Realismo capitalista, ossia di quell’atmosfera culturale oggi dominante per la quale il capitalismo neoliberale, nonostante tutti i suoi difetti, sarebbe comunque la miglior forma di società possibile, e che il tentativo di pensare un modello politico alternativo sarebbe ingenuo, ideologico, e in fondo incapace di fare i conti con la natura umana.
Ma che cosa hanno a che fare la depressione, l’ansia, l’angoscia e i sempre più diffusi burnout con il realismo capitalista e l’idea che non esista nessuna comunità, ma solo un agglomerato di individui? Il punto è che, contrariamente a quanto sosteneva la Thatcher, la società esiste eccome e molti dei nostri problemi individuali hanno – non di rado – cause politiche ed economiche collettive. Secondo Fisher e James individualizzare i problemi, come fa la cultura neoliberista, serve ad aumentare i profitti delle industrie private e rendere più difficili soluzioni di natura sociale ed economica che prevederebbero quasi sicuramente una maggiore spesa pubblica, un aumento del ruolo dello Stato e, quindi, una redistribuzione della ricchezza delle élite capitaliste. Quello delle malattie mentali è, quindi, un esempio paradigmatico: il capitalismo neoliberale insiste sempre di più nel trattare forme come l’ansia e la depressione come se fossero fatti naturali alla stregua di un evento geologico o meteorologico e, quindi, da curare per via puramente individuale – e spesso farmacologica; se le malattie mentali sono solo il risultato di un’anomalia chimica nel cervello o di qualche trauma infantile e non hanno nulla a che vedere con fattori esterni come la precarietà finanziaria, l’emarginazione sociale o gli eccessivi stimoli nervosi prodotti dai mezzi tecnologici, allora nessuno si porrà la domanda se non sia la nostra stessa società a essere malata. Le spiegazioni puramente mediche e psicologiche, scrivono invece Fisher e James, possono sì spiegare le radici delle problematiche dei singoli casi, ma sono del tutto incapaci di spiegare le cause della loro quantità e diffusione in un determinato contesto.

Perché – dovremmo chiederci – un così grande numero di disturbi psichici dello stesso tipo si presentano tutti nel contesto della società tecnocapitalista contemporanea? In Realismo capitalista, Fisher scrive: “L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico – biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico – biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un’individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci)”. “Che qualsiasi malattia mentale” conclude Fisher “possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica”.
Particolarmente devastanti per la nostra sfera psichica sono oggi le nuove strutture di prestazione, basate su valori di auto-sfruttamento, di spietata competizione e sulla necessità – per stare al passo degli altri – di elaborare incessanti informazioni e input mediatici; inoltre, il mito della meritocrazia, che ha la chiara funzione di legittimare lo status quo e di nascondere i reali rapporti di classe, coltiva l’illusione secondo la quale chiunque abbia voglia di lavorare sodo e abbia la giusta dose di coraggio e intelligenza può avere accesso ai gradi più alti della società. Questa favola, ormai smentita in lungo e in largo, porta chi si trova incastrato a un livello sociale basso a non lottare politicamente contro un sistema ingiusto, ma a incolpare soltanto se stesso per non essere riuscito a ottenere un livello di vita soddisfacente; su questo punto, nel saggio L’espulsione dell’Altro, Il filosofo coreano Byung-Chul Han scrive: “Nel nostro tempo si genera una nuova forma di alienazione. Non si tratta più dell’alienazione dal mondo o dal lavoro, bensì di un’autoalienazione distruttiva, di un’alienazione da se stessi. Questa autoalienazione si verifica proprio nella forma dell’ottimizzazione di se stessi e dell’autorealizzazione”. Difficile, quindi, non mettere in relazione questa forma di autosfruttamento e di autoalienazione con la dilagante epidemia di ansia, burnout e di disturbi depressivi. Ri – politicizzare le malattie mentali significa quindi non cedere all’ingenua convinzione che uno psicologo o un farmaco possano, con poteri sovrumani, farsi carico delle contraddizioni di un sistema che stritola le persone e ne aggrava le debolezze, e significa che queste contraddizioni possono essere risolte non aumentando i profitti di qualche settore privato, ma solo attraverso la lotta e l’organizzazione politica. Le catastrofi climatiche, economiche e psichiche che affliggono le persone al tempo del capitalismo neoliberale sono indice del fatto che questo sistema, anziché essere l’unico che funziona, è un sistema profondamente disfunzionale.

Margareth Thatcher

Come è possibile, allora, che alla luce di queste condizioni di vita insostenibili il realismo capitalista abbia ancora successo? Il punto – scrive Fisher in Not Failing Better, But Fighting to Win – è che “non è mai stato concepito per convincere la gente che il capitalismo è un ottimo sistema”, ma molto più realisticamente e subdolamente “per convincerla che è l’unico sistema praticabile, e che la costruzione di un’alternativa è impossibile”; pensate solo a tutte le volte che vi siete imbattuti direttamente in una delle tante forme che il disfattismo ha assunto nel dibattito contemporaneo: anche i commenti sulle bacheche di Ottolina spesso trasudano disfattismo da ogni parola. Solitamente ci viene spacciato come lucido e cinico realismo; in realtà, ci dice sostanzialmente Fisher, non è altro che il risultato di un gigantesco lavaggio del cervello architettato nei minimi dettagli: è questa l’ultima e più insidiosa delle armi a disposizione di chi si ostina a difendere un sistema disfunzionale e feroce che mette a rischio non solo la sopravvivenza della nostra specie su questo pianeta, ma anche – nell’immediato – la salute della nostra mente e, qualsiasi cosa significhi, della nostra anima.
Su tutti questi temi non perdetevi l’intervista che pubblicheremo stasera, lunedì 18 dicembre, al professor Vincenzo Costa, uno dei massimi esperti del rapporto tra neoliberismo e disturbi psichici. Contro il disfattismo del realismo capitalista, e contro la solitudine e l’isolamento ai quali vorrebbe condannarci, abbiamo bisogno di costruire un media che dia voce al 99% e che ci aiuti a trasformare il nostro disagio individuale in una forza propulsiva collettiva in grado di rovesciare lo stato attuale delle cose. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce, è Margaret Thatcher