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Tag: democrazia

Il golpe di Macron: come la Francia dà il la alla fine delle democrazie liberali in Occidente

Decine e decine di manifestanti feriti e centinaia tratti in arresto, riforme epocali invise alla stragrande maggioranza della popolazione approvate d’imperio senza passare dal Parlamento, proprietari di media dissidenti imprigionati con accuse farlocche e, infine, il rifiuto di accettare (accampando scuse risibili) il risultato delle urne: se fosse accaduto in un Paese inviso all’Occidente vedremmo già gli F35 in volo; e invece non è altro che il bilancio, tra l’altro parziale, di 7 anni di presidenza del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, il Renzi d’oltralpe che ce l’ha fatta (o meglio, che si illudeva d’avercela fatta). A partire dalla repressione cilena del movimento dei Gilet Gialli prima, nel 2018, e di quello – sostenuto dalla stragrande maggioranza della popolazione – contro la riforma delle pensioni l’anno scorso poi, passando per l’arresto rocambolesco del fondatore di Telegram Pavel Durov, Macron, quando si parla di superamento dei vecchi paletti dei regimi liberal-democratici, non s’è fatto mai fatto mancare niente, senza che la stampa guerrafondaia occidentale – che invoca continuamente bombe e razzi in nome della libertà e della democrazia – ci trovasse mai niente da ridire. Ma ora, forse, potrebbe davvero aver superato ogni limite: a ormai oltre 50 giorni dalla vittoria alle elezioni del Nuovo Fronte Popolare guidato dalla France Insoumise di Jean Luc Melenchon, Macron infatti, con sprezzo sfacciato di ogni etichetta istituzionale, si ostina a non riconoscere il responso delle urne e nega la possibilità di formare un nuovo governo mentre continua a emanare decreti su decreti che vanno clamorosamente oltre la gestione ordinaria.

Il sempre pimpantissimo Manuelino

Che l’era dell’ipocrisia delle liberal-democrazie stesse volgendo rapidamente al termine lo sosteniamo ormai da tempo, ma non pensavamo così rapidamente e in maniera così spudorata; ma prima di ricostruire nel dettaglio l’incredibile svolta eversiva ed autoritaria della Francia di Macron, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci anche a oggi a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi (almeno quelli dei social che Macron non ha nessuna intenzione di chiudere) e, se ancora non lo avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e ad attivare tutte le notifiche: a voi costa solo qualche secondo di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a costruire quel vero e proprio media per il 99% del quale abbiamo sempre più bisogno, mano a mano che nel nostro Occidente in declino i Macron diventano sempre più frequenti.
Choc Le Pen, Macron scioglie il parlamento (Il Manifesto, 10 giugno 2024): quando la sera stessa delle passate elezioni europee il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, di fronte alla debacle della sua formazione politica e al trionfo della destra lepenista, ha annunciato in conferenza stampa lo scioglimento immediato dell’organo legislativo francese, siamo rimasti tutti un po’ spiazzati; a che gioco stava giocando? Secondo gli analfoliberali più fondamentalisti si trattava, ovviamente, di una straordinaria prova di coraggio e di leadership: “Quella di Macron è una scelta radicale” scriveva l’immancabile Foglio, “una scommessa sulla Francia e sul suo popolo”; a 50 giorni di distanza, di tutta questa fiducia e questo rispetto di Macron per il popolo francese, però, non è che ci siano tante tracce, anzi. D’altronde, le premesse non erano delle migliori: stando a quanto sottolineava il costituzionalista italiano Mauro Volpi sul Manifesto di ieri, infatti, la Costituzione francese prevede che prima di decidere sullo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, il presidente si dovrebbe consultare con il primo ministro e i presidenti delle camere; Macron invece, a quanto pare, non avrebbe consultato una beata minchia di nessuno. D’altronde – anche qui – non è certo una novità: in 7 anni di presidenza, ogniqualvolta Macron s’è ritrovato di fronte a qualche decisione difficile, invece della strada del dialogo e del rispetto dei ruoli istituzionali ha sempre optato per la via più autoritaria a disposizione, anche quando a contrastare le sue proposte era la stragrande maggioranza della popolazione francese come è successo – ad esempio – in occasione della riforma delle pensioni l’anno scorso, contro la quale s’è mobilitato per settimane l’intero Paese. Secondo alcuni sondaggi, i contrari alla legge sfioravano il 75% dei francesi; ciononostante, il sempre pimpantissimo Manuelino prima li ha fatti prendere a sprangate da una macchina repressiva da America latina anni ‘70 e poi la riforma se l’è approvata da solo, senza passare dal Parlamento, ricorrendo al famigerato terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione, una delle tante leggi in giro per le ridenti democrazie liberali che permette all’esecutivo di bypassare il potere legislativo (con buona pace del buon vecchio Montesquieu) e che, con il secondo mandato di Macron, è diventato praticamente il metodo normale di governo. “Con ventitré ricorsi in diciotto mesi, il governo Borne” e cioè il primo governo della seconda presidenza Macron “banalizza l’articolo 49.3” era costretto a denunciare nel novembre scorso anche Le Monde, nonostante il suo sostegno incondizionato alla politica pro ricchi di Manuelino.
Ma torniamo alla nostra cronologia. Siamo al 7 luglio: le elezioni in Francia si sono svolte in maniera regolare, smentendo i timori iniziali; e dai risultati del primo turno – che si era tenuto la settimana precedente – il rischio di una vittoria del Rassemblement National della Le Pen è stato sventato. Ancora una volta la vecchia strategia del barrage républicain (e cioè l’accordo tra tutte le forze che si autodefiniscono democratiche per sbarrare la strada alla cosiddetta estrema destra) ha funzionato, ma forse non esattamente come aveva sperato Macron: a conquistare la maggioranza relativa dei seggi in parlamento, infatti, non è la sua coalizione centrista e ultra-liberista (che si chiama Ensemble), ma l’NFP, il Nuovo Fronte Popolare, la coalizione dei partiti della sinistra francese. E all’interno di questa, il gradino più alto del podio tocca al partito considerato più radicale, la France Insoumise di Jean Luc Mélenchon. A regola – a questo punto – il da farsi sarebbe dovuto essere piuttosto semplice: la France Insoumise propone un nome al Nuovo Fronte Popolare, che lo propone a Macron, che lo nomina primo ministro – se solo le buone vecchie maniere delle democrazie liberali fossero ancora in vigore. Il primo diversivo si chiama Olimpiadi: in vista dell’evento sportivo che dal 26 luglio doveva prendere il via a Parigi, Macron propone una vera e propria tregua olimpica con la scusa di mettere le istituzioni nelle condizioni di fronteggiarlo al meglio; d’altronde, ne va del prestigio della Francia nel mondo. Nel frattempo, nei confronti della France Insoumise monta una macchina del fango di dimensioni epiche che mette insieme la macchina propagandistica delle oligarchie che sostengono Macron e la destra reazionaria; come nella tristemente nota campagna che l’attuale premier britannico Keir Starmer ha ordito a suo tempo contro Jeremy Corbyn (col sostegno dei servizi inglesi e statunitensi e tutto il circo mediatico che fa da ripetitore alle loro veline), al centro c’è la solita vecchia accusa di antisemitismo, che è ormai diventata la carta preferita che ogni politico anti-popolare dell’Occidente collettivo tira sempre fuori alla bisogna.
D’altronde, effettivamente, la France Insoumise e Mélenchon hanno nei giovani di etnia araba delle banlieu uno dei loro zoccoli duri; e quindi contro lo sterminio dei bambini palestinesi hanno sempre adottato una linea coerente che, nel linguaggio della propaganda legata alla lobby sionista, diventa appunto magicamente antisemitismo. Ed ecco così che quando – finalmente – le Olimpiadi l’11 agosto volgono al termine, siamo punto e a capo; il Nuovo Fronte Popolare e la France Insoumise, per non dare adito alle scuse di Macron, hanno optato per un nome di compromesso decisamente lontano dalle frange considerate più estreme e impresentabili dai conservatori: si chiama Lucie Castets, si è formata nelle migliori scuole di Londra e Parigi, ha un passato alla Direzione generale del Tesoro e all’Agenzia francese per l’intelligence finanziaria e anche un passato tra le fila del moderatissimo partito socialista, proprio negli anni durante i quali – tra le fila dello stesso partito -militava, con incarichi ben più rilevanti, il nostro Manuelino stesso. Che però non si accontenta e rilancia: il punto – sostiene – è che per il bene della Francia, viste in particolare, appunto, le accuse di antisemitismo, nel governo non ci possono essere ministri della France Insoumise. Ed ecco così che la faccenda torna incredibilmente a impantanarsi fino a quando Mélenchon non tira fuori una delle sue soluzioni dal cappello; è il 24 agosto: a Valence è in corso un grande evento della France Insoumise per festeggiare il rientro dalle vacanze, quando ai microfoni di Tf1 Jean Luc spiazza tutti e dichiara “Non saremo mai parte del problema, saremo sempre e solo parte della soluzione”. “Chiedo ai dirigenti macronisti: mettereste un veto su un governo Castets, che applicherà il programma nel Nuovo fronte Popolare, ma senza ministri della France Insoumise? Se la risposta è no, ovviamente significa che il rifiuto di vedere ministri della France Insoumise nel governo è solo un pretesto per continuare a negare il risultato delle elezioni”. E indovinate un po’? La risposta di Macron è no; e quindi torna il quesito: a che gioco sta giocando?
Così, a naso, mi pare evidente che qui in ballo non ci sia il suo futuro politico; quello infatti è ormai definitivamente compromesso: in tutto l’Occidente – dove i leader politici che, in termini di consenso, non se la passano proprio benissimo non mancano – non esiste capo di Stato più inviso al suo stesso popolo di lui e difficilmente con questo comportamento può pensare di aumentare la sua popolarità. Piuttosto (esattamente come il nostro Matteo Renzi, che Manuelino ricorda sempre più da vicino), per garantirsi un futuro brillante dopo la fine della presidenza ha bisogno di tutelare con ogni mezzo necessario gli interessi delle oligarchie delle quali è sempre stato un fedele servitore: come sottolinea candidamente Le Monde “Il veto di Macron al Nuovo Fronte Popolare va ovviamente ben al di là della mera presenza di ministri della France Insoumise. Per Macron e i suoi è molto semplicemente inconcepibile nominare un governo che potrebbe rimettere in discussione le sue riforme principali, a partire da quella delle pensioni, e che possa aumentare le tasse, la spesa pubblica, o il salario minimo”. Nel frattempo – come proprio dal palco di Valence ha ricordato la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise Mathilde Panot – dall’accettazione delle dimissioni del governo Attal ad oggi ci sono stati 1160 decreti e altri atti ufficiali pubblicati in Gazzetta Ufficiale: “Com’è possibile definirla gestione degli affari correnti?”.
Insomma; le democrazie liberali 2.0, in soldoni, funzionano così: un presidente eletto da una minoranza propone delle riforme antipopolari, reprime con la violenza le proteste e, alla fine, le fa passare bypassando l’organo legislativo; a quel punto la sua popolarità crolla ancora di più, ma quando si va a votare viola la prassi costituzionale per evitare che si crei un governo rispettoso del voto che potrebbe stravolgere le sue stesse riforme impopolari e, nel frattempo, continua a governare da solo a suon di decreti (compresi magari quelli per garantire la fornitura di armi per una guerra contro qualche sanguinario dittatore in nome della difesa della democrazia). E in tutto il mondo questo paradosso lo vedono benissimo, eh? Non è che passa inosservato; gli unici che non lo vedono sono quelli a libro paga della nostra macchina propagandistica. Sarebbe arrivata l’ora di mandarli tutti a casina; per farlo, abbiamo bisogno di costruire da zero un vero e proprio media che, invece che infiocchettare con mille fregnacce la deriva autoritaria e antipopolare delle nostre democrazie liberali, dia voce ai bisogni concreti del 99% e ponga le condizioni per una vera Riscossa Multipopolare. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

Carlo Galli – Perché dobbiamo avere paura delle destre

Carlo Galli, uno di più importanti filosofi della politica contemporanei, nonché ex deputato, interverrà a Fest8lina venerdì 5 alle ore 11 al panel Perché il neoliberismo ha vulnerato la democrazia, in cui ci parlerà della condizione post-democratica delle società occidentali e di come dobbiamo interpretare l’ascesa delle destre.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’Europa e le elezioni farsa: come l’inutilità delle europee scatena il panico tra i liberali

Finalmente ci siamo: a partire da domani potremmo di nuovo tornare a votare democraticamente per un’istituzione che di democratico non ha assolutamente niente. Per decenni abbiamo sempre denunciato l’ipocrisia delle nostre istituzioni democratiche nazionali che, dopo la breve parentesi dell’epoca d’oro delle democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, con una sequela di controriforme hanno sottratto alla politica da sotto i piedi il terreno della lotta per la crescita della democrazia sostanziale, lasciandole agibilità solo all’interno del perimetro angusto della democrazia formale fino a quando le istituzioni europee – e la messa in scena dell’integrazione europea – non ci hanno accontentato: se disprezzate così tanto la democrazia formale, ecco fatto! Vi leviamo pure quella. L’unico organo direttamente elettivo delle istituzioni europee, infatti, conta come il due di picche quando briscola è cuori e tutto il resto è fatto scientificamente a immagine e somiglianza delle oligarchie finanziarie; nonostante la gigantesca macchina propagandistica messa a disposizione della leggenda metropolitana dell’Europa unita e democratica, questa realtà è talmente evidente che, ormai, a scomodarsi per andare a votare alle europee è sostanzialmente una minoranza degli aventi diritto (o almeno, questa è l’impressione che abbiamo noi che facciamo parte della macchina del fango della propaganda putiniana).

Claudio Tito

Ma ai giornalisti veri come Claudio Tito de La Repubblichina non la si fa e, ancora oggi, coraggiosamente denunciava: Voto Ue, guerra ibrida sui social. Mosca alimenta l’astensionismo; “Il bombardamento digitale di fake news” continua Tito “è destinato a intensificarsi nelle prossime ore. Obiettivo: screditare la Ue e allontanare gli elettori”. Tito fa una rivelazione sconvolgente: “Solo nel mese di maggio” rivela “sulle piattaforme di Zuckerberg sono stati individuati almeno” – udite, udite – “275 profili pro-Russia” che hanno prodotto la cifra astronomica di 61 – e, ripeto, 61 – messaggi che hanno raggiunto addirittura la bellezza di 1,5 milioni di account in Italia, circa un decimo di quelli raggiunti da una foto qualsiasi dei Ferragnez ai tempi d’oro (anche se, effettivamente, per un giornale che ormai non leggono più nemmeno quelli che ci scrivono possono sembrare numeri importanti). L’obiettivo di questa campagna – che raccoglie meno risultati della promozione della sagra della polenta di Pizzighettone – sarebbe nientepopodimeno che “far fallire il fronte europeista” che senza questa campagna, invece, riscuoterebbe il sostegno incondizionato ed entusiasta di tutti gli abitanti dei quartieri popolari di tutto il vecchio continente; ma addirittura – anche se questa è una missione ancora più ardua – questa campagna servirebbe “a gettare discredito sui media tradizionali” nonostante gli scoop sulle pale russe e sugli USA che crescono al doppio della velocità della Cina. Uno slogan incredibilmente efficace inventato giusto per l’occasione dalla sofisticata propaganda putiniana, sottolinea Tito, sarebbe l’hashtag “iononvoto”, che prima che il plurimorto dittatore del Cremlino decidesse di conquistare Lisbona non si era mai visto; come d’altronde, continua Tito, vale anche per lo slogan mefitico, come lo definisce lui, “NOEU“.
Particolarmente sospetto è che questi temi emergano proprio in questi giorni, a ridosso della scadenza elettorale e non – che so – per la festa della donna o per la giornata mondiale per la tubercolosi; contro questa propaganda straniera però, fortunatamente, “Tutti e 27 i partner” del vecchio continente si sono fatti un esame di coscienza e hanno deciso che dovevano giocare il tutto per tutto per difendere l’informazione oggettiva del Foglio contro la propaganda putiniana e, così, hanno messo in piedi “uffici che monitorano questo tipo di influenza e intervengono per bloccarla” – e cioè, in soldoni, che censurano chiunque non sia così rimbambito da pensarla come Claudio Tito. D’altronde, a mali estremi, estremi rimedi: e qui, sottolinea Tito, è evidente che questo è solo un pezzo “della guerra ibrida perpetrata” contro di noi “dai nemici esterni: Russia e Cina”; Tito, però, sottolinea anche come gli esperti del parlamento europeo gli abbiano garantito che “siamo pronti a reagire, e non abbiamo paura”. Buon per te; io, sinceramente, un pochino di paura all’idea che ancora oggi si possa scrivere impunemente una tale mole di puttanate senza venire travolti dalla vergogna sociale e senza diventare vittime del pubblico ludibrio generalizzato, ogni tanto la provo. Ma prima di addentrarci su cosa c’è, o non c’è, in ballo con queste elezioni europee, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, come dice Tito, noi che facciamo propaganda putiniana siamo lautamente finanziati, ma senza il vostro supporto poi l’algoritmo comunque ci snobba e Putin si intristisce. E se non vuoi far piangere Putin, continua a guardare questo video.
Poco più di un anno fa, le istituzioni europee sono state travolte dal cosiddetto QatarGate e la stampa scandalistica, come normale e inevitabile, ci s’è fiondata a pesce morto; come ricorderete, infatti, il caso ha riguardato i massimi vertici istituzionali dell’Unione: la vicepresidente del parlamento europeo Eva Kaili e il compagno Antonio Panzeri che, così, ha coronato simbolicamente la fine di un percorso involutivo che – oltre che politico – è anche proprio antropologico e che l’ha portato dalla segreteria della Camera del lavoro di Milano (che è la più importante d’Italia) fino al libro paga delle oligarchie delle petromonarchie del Golfo. Ma a ben vedere, l’unica cosa che si può davvero imputare ai due faccendieri è di non essere stati sufficientemente bravi e accorti nel loro lavoro e di essersi fatti beccare con le mani nella marmellata; arraffare l’arraffabile infatti, da tanti punti di vista, è sostanzialmente la cosa più produttiva che un parlamentare europeo può fare negli anni in cui è parcheggiato tra Bruxelles e Strasburgo ed infatti è l’attività che li tiene tutti più occupati in assoluto. Come sottolineava Enrico Grazzini ancora nel dicembre del 2022 su Micromega, infatti, “Lo scandalo Qatar va inserito in un contesto di corruzione ambientale favorito dalla concentrazione estrema dei poteri europei in pochi organi burocratici, ristretti e centralizzati, che operano in maniera opaca e in stretta simbiosi con il big business e in assenza di qualsiasi forma di controllo e di partecipazione democratica dal basso”; “A parte i casi di manifesta corruzione dei singoli” continuava Grazzini “il problema centrale è che tra il big business, gli oligopoli multinazionali, le grandi banche d’affari da una parte e le istituzioni della Ue e la Banca Centrale Europea dall’altra esistono legami talmente simbiotici da rendere difficilissima, se non impossibile, la distinzione tra bene pubblico e interesse privato”. E sia chiaro: non c’entrano niente le disfunzionalità occasionali di istituzioni ancora giovani e che si devono fare le ossa per resistere in un mondo di squali. Piuttosto, è esattamente il contrario: più le istituzioni europee si consolidano e più l’unica funzione dei parlamentari che eleggiamo diventa quella di accaparrarsi prebende di ogni genere in cambio di favori alle corporation; è proprio la natura strutturale dell’Unione europea, che è nata proprio come massima espressione del trionfo totale della controrivoluzione neoliberista – e, cioè, quel progetto distopico di trasformazione complessiva del sistema-mondo capitalistico che prevedeva che nessun paese al mondo doveva avere più strumenti per esercitare una qualche forma di sovranità e, quindi, di potere regolatorio nei confronti delle scorribande del capitalismo finanziario speculativo, se non, al limite, gli Stati Uniti d’America. L’Unione Europea è quindi, sin dalle origini, un progetto di carattere sostanzialmente neocoloniale e lo è in un modo talmente plateale che ormai, tranne nelle redazioni de La Repubblichina e del Corriere della Serva (e tra i 4 amici al bar che guidano progetti a cavallo tra politica e cabaret, come – neuroni e + Europa), alla favola dell’Europa democratica sostanzialmente non ci crede più nessuno e quando vanno a votare metà degli aventi diritto è festa grossa.
Com’è arcinoto, il meccanismo in assoluto più delirante è quello che prevede che le politiche fiscali rimangano in capo ai governi dei paesi aderenti, ma quelle monetarie siano appannaggio di un club privato di oligarchi noto come Banca Centrale Europea che, come ricorda Alessandro Somma su La Fionda, priva gli Stati “degli strumenti indispensabili a promuovere la piena occupazione” e quindi, stringi stringi, la democrazia ; è quindi del tutto normale che, come in tutte le postdemocrazie neocoloniali, il mestiere delle classi dirigenti si limiti essenzialmente a una sola cosa: rimuovere gli ostacoli al pieno dispiegamento della ferocia del capitale in cambio di qualche mancetta. Per oliare adeguatamente questo meccanismo, a Bruxelles operano la bellezza di 12400 lobbisti che la commissione cataloga, con spiccato senso dell’ironia, come attori della democrazia rappresentativa: “Il fenomeno delle porte girevoli tra le società private e le istituzioni europee” sottolinea Grazzini “è dilagante: in molti casi i capi delle lobby vengono messi a fare parte degli organi tecnici della Ue e, viceversa, i partecipanti agli organi della Ue vanno poi a presiedere lobby e società che hanno supervisionato”. Celebre è, ad esempio, il caso del compagno Josè Barroso, l’ex leader della celebre Federazione degli Studenti Marxisti-Leninisti portoghese che, dopo essere stato per 10 anni a capo della Commissione Europea, è diventato presidente di Goldman Sachs (scatenando l’invidia del nostro San MarioPio da Goldman Sachs); l’olandese Neelie Kros che, invece, le magnifiche sorti e progressive del capitalismo selvaggio le ha sempre sostenute (e, quindi, almeno è coerente), dopo aver passato 10 anni da Commissario alla concorrenza ora siede in una serie sterminata di CdA di megacorporation che, evidentemente, ha servito al meglio.
Contro la bolla dorata che i faccendieri si costruiscono su misura, le istituzioni europee non prevedono nessun contro-potere democratico: il Parlamento europeo, infatti, non ha il potere di legiferare; come sintetizza Grazzini “è poco più di un forum di discussione”, un talk show. Il Parlamento, che è l’unico organo direttamente elettivo dell’Unione, come è noto, in pratica non fa altro che ratificare le decisione prese dal Consiglio europeo e promosse dalla Commissione; il fatto che l’istituzione europea con meno poteri sia la sede della sovranità popolare per eccellenza, il luogo della rappresenta democratica per antonomasia come il Parlamento, la dice lunga su come nell’Unione europea la democrazia conti come il tofu alla sagra del cinghiale. Già li sento orde di analfoliberali e qualche sinistrato depresso gridare al pippone rossobruno! Il Marucci sovranista e antieuropeista! Grazie mille per la prima; effettivamente a Ottolina siamo pericolosi sovranisti come la nostra Costituzione: o Togliatti o Nenni. Che ci piaccia o no, la sovranità popolare – e le sue forme istituzionali democratiche capaci di favorire il progresso dei diritti sociali, democratici ed economici nel secondo dopoguerra – si è sviluppata all’interno degli Stati nazionali; l’Unione europea poteva essere un progetto sovranazionale caratterizzato dalla cooperazione tra Stati democratici che cooperano al fine di generalizzare a livello europeo gli standard di welfare più elevati, la cooperazione economica e industriale, la sicurezza. Sì, ma col coso lì, come si chiama, il coso… ah già. Col cazzo. Purtroppo – guarda un po’ a volte il caso – l’Unione europea si è configurata presto come un’istituzione sovranazionale basata sulla competizione economica tra Stati nazionali; il contrario di un’Europa unita e solidale. Gli Stati nazione non solo non sono spariti, ma le folli norme di bilancio europee basate sull’austerità hanno distrutto il welfare e l’intervento pubblico in economia, per cui ai governi non è rimasto che farsi la guerra economica ampliando le diseguaglianze tra stati membri. Ma non solo: se in un Consiglio comunale, regionale, perfino in un Parlamento, non puoi più parlare di welfare perché non hai soldi, ma devi tagliare; non puoi parlare di gestione pubblica dell’economia perché spetta al mercato; non puoi parlare di politiche industriali perché spetta al mercato; non puoi regolare i prezzi delle case perché spetta al mercato. Alla politica non resta che amministrare i danni del mercato e invocare politiche identitarie, per cui c’è sempre qualche emergenza sicurezza perché che cazzo ne fai di tutti questi morti di fame espulsi dalla società? Mettiamoli in galera!
L’Unione europea è l’involucro istituzionale che distrugge la democrazia europea: lascia, per ora, intatte le elezioni, ma le svuota, favorisce la guerra economica e culturale ed è, in definitiva, il singolo ostacolo più grande in assoluto ad un progetto democratico e sovrano di Europa unita; che senso ha, allora, andare alle urne? Pochino, in tutta sincerità, e gli appelli moralisteggianti a non dare la democrazia per scontata e vivere il voto come un dovere civile, ormai, suonano decisamente patetici. Io non do la democrazia per scontata; do per scontato che qui, di democratico, c’è rimasta solo la libertà di fare ancora questi discorsi a cippadicazzo (e lo dice uno che, alla fine, a votare ci andrà) perché, nonostante il panico espresso dai vari menestrelli delle oligarchie alla Claudio Tito, alla fine se nessuno va a votare non gliene frega un cazzo a nessuno. Per distruggere un sistema di potere, ne devi costruire un altro che lo rade al suolo; non è che te lo regalano perché gli vengono i sensi di colpa. Andare a votare allora in questo contesto è, molto banalmente, come partecipare a un sondaggio; e se a me domani mi chiama l’IPSOS, che in guerra per difendere i loro interessi di sicuro io non ci vado glielo dico volentieri, come gli dico volentieri che se la sinistra ZTL spera di avere il mio voto con la minaccia della destra autoritaria – che, in realtà, ai loro occhi ha il solo difetto di essere diventata la cocca prediletta di zio Biden – forse casca malino. La conseguenza immediata di questo ragionamento (se lo condividete) è che, a questo giro, la trappola del voto utile – che a volte è ragionevole e ha un suo valore – conta meno di zero; questo è un voto inutile per definizione e, quindi, datelo un po’ a chi vi pare, senza troppi tatticismi. Ma soprattutto, dopo aver speso un quarto d’ora per votare, se vi sta un po’ a cuore il vostro destino, le vostre energie, più che a disquisire e a dividervi su queste vaccate provate a spenderlo per costruire insieme una vera alternativa a partire da un vero media che, invece che alle vaccate dei Tito e degli euroinomani, dia voce al 99% e che, per nascere, ha bisogno di tutto il tuo sostegno. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Emma Bonino

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Scott Ritter fermato e senza passaporto: l’inizio della fine della democrazia negli USA

Dopo un tentato putsch da parte dell’ala rivoluzionaria di Ottolina Tv, torna il Marru e ristabilisce l’ordine democristiano. Nel frattempo, però, negli USA gli estremisti hanno la meglio: peccato siano di estrema destra e che abbiano illegalmente impedito a Scott Ritter di raggiungere il forum economico di San Pietroburgo e gli abbiano sequestrato il passaporto. La menzogna delle democrazie liberali sta volgendo al termine: riusciremo a organizzare la riscossa? Buona visione

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La condanna di Trump: trionfo dello stato di diritto o fine della democrazia liberale? – ft. Roberto Vivaldelli

La condanna di Trump cambia il futuro elettorale degli USA? Oggi è arrivata la condanna dell’ex Presidente e attuale candidato alla presidenza per i repubblicani nelle prossime elezioni. Anche negli USA la magistratura rivendica un ruolo politico e intanto ci dirigiamo verso una serie di dubbi: cosa succederà a Trump? Dovrà fare la campagna elettorale da casa? Mentre è praticamente sicuro che potrà continuare la sua campagna elettorale, si presume che qualsiasi pena verrà rinviata al dopo voto e eventuale mandato in caso di vittoria. Intanto si cerca di capire quanto e come una sentenza legata alla vita sessuale di Trump possa condizionare il voto religioso, in passato determinante. Su tutto questo aleggia anche la politica estera, il duro dibattito interno alla società USA e soprattutto la scelta del futuro vicepresidente di una nuova eventuale presidenza Trump. Ne parliamo con Roberto Vivaldelli. Buona visione!

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Il Corriere confessa che la guerra mondiale è già iniziata e chiede la sospensione della democrazia

Mission Ukraine: così si chiama il piano che il deep state a stelle e strisce sta preparando e che i vassalli saranno chiamati a sottoscrivere a luglio a Washington, quando si riuniranno i 32 reggenti dei protettorati dell’alleanza feudale atlantica; l’obiettivo, come sottolineava sabato scorso lo storico corrispondente dagli USA del Corriere della serva Giuseppe Sarcina, sarebbe quello di preparare “una specie di polizza anti Trump, una manovra in tre mosse per garantire che il sostegno militare all’Ucraina non verrebbe meno neanche qualora l’ex presidente dovesse tornare alla Casa Bianca”. L’obiettivo, continua Sarcina, sarebbe ovviamente quello di “appoggiare la resistenza fino a quando sarà necessario” che, dopo due anni che questo equivaleva a dire fino a che l’Ucraina non ha riconquistato tutto il territorio perso dal 2014 e fatto crollare il regime del dittatore plurimorto del Cremlino, oggi – molto più modestamente – significa “fino a quando Vladimir Putin capirà che non potrà vincere la guerra che ha scatenato il 24 febbraio del 2022”; e, ovviamente, a dirci con precisione cosa significa vincere o perdere ci penserà Sarcina (appena chi gli paga lo stipendio l’avrà deciso).

Giuseppe Sarcina

Al netto della solita sequela di puttanate suprematiste e di doppi standard, l’editoriale di Sarcina, comunque, del tutto involontariamente solleva alcune questioni decisamente interessanti: prima di tutto si lascia sfuggire che i soldi sbloccati dal congresso USA con l’approvazione definitiva, due settimane fa, del pacchetto da 60 miliardi “dovrebbero bastare a puntellare l’esercito ucraino fino al termine del 2024” il che conferma, come abbiamo sottolineato più volte, che in gran parte non servono all’Ucraina, ma agli USA e al comparto militare-industriale USA, visto che se servissero davvero all’Ucraina, in base a quanto speso in media fino ad oggi, basterebbero ad arrivare (come minimo) a fine 2025. Il problema che si pone Sarcina è che, a quel punto, se Trump dovesse vincere, i soldi per la resistenza ucraina potrebbero finire; e visto che, da qui ad allora, il massimo che si può ottenere – appunto – è che Putin non possa dichiarare la vittoria totale, una volta finiti i soldi, nel giro di poco tempo la Russia riaffermerebbe con facilità la sua supremazia militare incontrastata e si avvierebbe a una vittoria certa. Ora – come chi ci segue sa – io a questa favoletta di Trump che si dà da fare per accelerare il declino e permette a Putin di trionfare mettendo così fine, come dice Boris Johnson, all’egemonia dell’Occidente, non ci credo nemmeno se la vedo: mi sembra tutta fuffa per gli appassionati di cultural war secondo i quali le potenze non hanno esigenze vitali oggettive che prescindono dalle inclinazioni ideologiche di ognuno, ma la politica è tutto un conflitto tra opinioni diverse, una sorta di gigantesco bar dove ognuno dice un po’ cosa cazzo gli pare e chi prende più voti ha il potere di stravolgere completamente l’agenda; però, magari, mi sbaglio io e quindi limitiamoci a prendere come dato che, secondo l’internazionale globalista e neoconservatrice, questa minaccia è concreta.
Data questa minaccia, l’obiettivo allora non può che essere impedire che – tramite il supposto voto democratico – i cittadini USA possano decidere liberamente se continuare o meno la guerra; cioè, bisogna trovare i tecnicismi che, anche se a volere la fine della guerra è la stragrande maggioranza degli elettori, la guerra continui inalterata. E lo strumento più adeguato per farlo sarebbe proprio la NATO, che sta alla sovranità, in termini di sicurezza degli alleati, un po’ come l’Unione europea sta alla sovranità dei suoi membri in termini di politica economica e monetaria: la annulla totalmente, sostituendo ai parlamenti e ai governi (più o meno democraticamente eletti) un’istituzione sovranazionale postdemocratica dove a decidere è, appunto, uno Stato profondo che mantiene la sua agenda inalterata a prescindere dalla volontà popolare e che, come sottolinea Sarcina, “si sta adoperando per assumere un ruolo più centrale nel conflitto, introducendo meccanismi strutturali in grado di operare anche nel medio e lungo termine, scavallando, quindi, le scadenze elettorali e l’eventuale cambio di amministrazione a Washington”. In sostanza, anche in caso di vittoria – specifica Sarcina – “Donald Trump, una volta entrato nello studio ovale, si troverebbe di fronte a un fatto compiuto, con risorse destinate a essere spese in un arco di tempo pluriennale”.
Per limitare al massimo il potere di un’eventuale amministrazione Trump di interferire con il regolare proseguimento della guerra poi, ricorda Sarcina, “L’idea è di trasferire direttamente sotto il controllo del quartier generale della NATO a Bruxelles il coordinamento degli oltre 50 paesi che finora hanno partecipato al cosiddetto gruppo di contatto, evitando così di dipendere completamente da un eventuale ministro trumpiano”, che è un altro dettaglio che non sono proprio sicurissimissimo che Sarcina ci volesse svelare e, cioè, che senza questa modifica il gruppo di contatto – e, quindi, la guerra per procura contro la Russia in Ucraina – è completamente diretta dal segretario alla Difesa USA; non tanto, molto, in maniera decisiva: completamente. Queste sono le parole scelte da Sarcina. Ora, ovviamente, anche questo non è che a noi ci sconvolga: che la NATO non sia nient’altro che un braccio armato della politica estera USA è esattamente quello che sosteniamo da sempre, ma è comunque interessante vedere confessato apertamente che è anche l’idea che hanno i pennivendoli della propaganda atlantista che, di fronte a domande esplicite su questo tema, negherebbero anche sotto tortura e, anzi, hanno sempre condannato chi sosteneva questa tesi di complottismo e di essere quinte colonne della propaganda putinista. Ma Sarcina, bontà sua, va anche oltre e svela completamente l’impianto postdemocratico dei propagandisti come lui: Sarcina, infatti, saluta con entusiasmo una terza scelta della massima importanza strategica e, cioè, quella di “attribuire più deleghe operative, e quindi più poteri, al generale americano Cristopher Cavoli, a capo del Comando supremo delle potenze alleate in Europa. Da una parte quindi” sottolinea Sarcina “viene un po’ diluito il ruolo politico del Pentagono” trasferendo, appunto, il coordinamento del gruppo di contatto dei 50 paesi coinvolti nella guerra per procura contro la Russia in Ucraina al comando NATO di Bruxelles, mentre “dall’altra si rafforza la leadership militare di un generale indicato dall’amministrazione Biden e che è anche il comandante di tutte le forze armate statunitensi di stanza in Europa”.
Insomma: è la conferma del doppio processo che da mesi cerchiamo di descrivere. Da un lato c’è la trasformazione definitiva della NATO in un vero e proprio braccio armato al servizio dell’imperialismo, completamente staccato dalle scelte sovrane e vagamente democratiche dei paesi aderenti: “Per essere chiari” sottolinea Sarcina che, evidentemente, invecchiando ha perso tutti i freni inibitori, “Cavoli guiderà le operazioni militari sul terreno, e deciderà se e come mobilitare le forze di reazione rapida” e, cioè, “circa 300 mila soldati pronti al combattimento”; dall’altro c’è l’estensione di questa macchina bellica unitaria al completo servizio dell’imperialismo ben oltre i limiti del vecchio continente, andando – appunto – a coinvolgere tutti i 50 e oltre paesi che hanno già aderito, ad oggi, al gruppo di contatto nella costruzione di una vera e propria NATO globale pronta a combattere – all’unisono e sotto una catena di comando completamente scollegata ai processi democratici – la guerra esistenziale dell’Imperialismo contro il resto del mondo. L’obiettivo fondamentale di questa macchina distopica unitaria della fase terminale dell’imperialismo sarebbe appunto, fondamentalmente, quello di non permettere al sanguinario dittatore plurimorto del Cremlino di dichiarare vittoria, ma ci pare piuttosto evidente sia soltanto un banco di prova per qualcosa di molto, molto più generale: un po’ perché l’obiettivo di impedire alle potenze emergenti del nuovo ordine multipolare di ottenere una vittoria strategica significativa si estende, ovviamente, anche a tutti gli altri fronti di questa terza guerra mondiale ibrida – dal Medio Oriente al Pacifico, passando anche per l’Africa e probabilmente, molto presto, anche l’America latina; e poi perché si va ben oltre la mera difesa. Ovviamente, questo non significa passare subito esplicitamente all’attacco, ma più semplicemente, comme d’habitude, procedere col solito meccanismo di dominio imperiale fondato sull’accerchiamento e la provocazione; dall’est Europa al Pacifico il giochino, infatti, è sempre lo stesso: impedire il raggiungimento della piena sovranità dei paesi che si ribellano al vassallaggio (dalla Russia alla Cina, passando per l’Iran e compagnia cantante) minacciandone contemporaneamente sia la sicurezza strategica, sia lo sviluppo e l’indipendenza economica e commerciale.
La partita dell’Ucraina e della sua adesione alla NATO – che è una piccola anticipazione di quello che sta avvenendo, in particolare negli ultimi mesi, nel Pacifico, con la fornitura di nuovi sistemi d’arma made in USA a Taiwan e con il rafforzamento dell’asse tra USA, Giappone e Filippine – è appunto il banco di prova ideale; ed ecco così che Sarcina ricorda, appunto, come “Stando alle dichiarazioni pubbliche di Stoltenberg, nel vertice di Washington di luglio i 32 soci fisseranno un percorso definito per l’ingresso dell’Ucraina nel club atlantico”. Tanto per cominciare, continua Sarcina, “Si procederà da subito accelerando l’integrazione, o, come dicono i militari, l’interoperabilità, tra le forze armate di Kiev e quelle della NATO” e quindi, sentenzia senza tanti fronzoli, “togliendo dal tavolo delle trattative l’ipotesi di un’Ucraina neutrale”. Ooh, lo vedi? Dai e dai, anche la propaganda suprematista concorda con noi propagandisti putinisti e complottisti vari della primissima ora: altro che opposti imperialismi di ‘sta cippa, altro che lotta coloniale per il controllo delle risorse, e altro che difesa del diritto sacrosanto degli ucraini a difendere la loro patria; Sarcina ammette candidamente che la famosa invasione russa dell’Ucraina altro non è che una reazione scontata e necessaria a una provocazione architettata meticolosamente dall’imperialismo con l’obiettivo, appunto, di impantanare Mosca in una lunga guerra d’attrito che imponga all’Europa – intesa come semplice costola dell’imperialismo unitario – di abbandonare ogni velleità di integrazione eurasiatica e la costringa a superare gli ostacoli che, fino ad oggi, ne hanno impedito un riarmo adeguato alla nuova fase di guerra totale contro il resto del mondo. Secondo Sarcina “I governi della NATO prevedono che la guerra durerà ancora a lungo”; in realtà, però, non è che lo prevedono: molto semplicemente, hanno lavorato in modo accurato proprio affinché la guerra durasse a lungo e, cioè, il tempo necessario per estenderla a tutti gli altri fronti, a partire – appunto – dal principale, che è quello del Pacifico, e chiudere la partita del conflitto globale dell’imperialismo contro il resto il mondo. Questo, di per se, non significa ovviamente necessariamente attendere una guerra cinetica per procura nel Pacifico contro la Cina come quella che si sta combattendo al confine orientale dell’Europa: gli USA, infatti, continuano a coltivare l’illusione che con la guerra commerciale (e una deterrenza adeguata a proteggerla, che è quella che stanno cercando di costruire oggi non tanto armando Taiwan, quanto – appunto – inglobando Giappone, Corea, Australia, Nuova Zelanda e Filippine nella nuova NATO globale e spingendole a un riarmo massiccio come quello che richiedono ai paesi europei) alla fine potrebbero invertire il processo, in corso da decenni, che ha visto appunto la Cina recuperare, anno dopo anno, il gap tecnologico ed economico che ancora la separa dal centro imperialistico più avanzato (in alcuni casi addirittura superandolo, e manco di poco); ma, appunto, come sembrano dimostrare gli esiti della guerra tecnologica ad oggi – che, per quanto abbiano comportato problemi enormi alla Cina, tutto sommato sembrano averne accelerato invece che rallentato e, tanto meno, interrotto la corsa verso l’indipendenza tecnologica – con ogni probabilità si tratta, appunto, solo di un’illusione, il che significherebbe che, per ottenere risultati concreti, c’è bisogno di una continua escalation, sulla falsariga di quanto effettuato dalla NATO nell’Est Europa, fino a che non si arriva necessariamente a una reazione cinese, sulla falsariga di quanto scatenato con Mosca.
Insomma: vista con quest’ottica, non si tratta più nemmeno semplicemente di affermare che il problema della terza guerra mondiale non è se scoppierà, ma quando e come, ma – piuttosto – di prendere atto che è già scoppiata, sempre ricordando che la terza guerra mondiale, nel 2024, è ovviamente una guerra ibrida; e non significa necessariamente scontro cinetico su tutti i fronti e, tantomeno, esclation nucleare, anche se escluderla per fiducia nel buon senso delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, a questo punto, è ovviamente un atto di fede religiosa che non ha niente a che vedere con l’analisi razionale delle dinamiche concrete. E visto che siamo in guerra, ovviamente, anche la sospensione dei normali diritti democratici delle democrazie liberali è già pienamente in atto anche se anche qui, come per la guerra, ovviamente non si tratta di ricercare la replica esatta degli strumenti e delle dinamiche registrate nel corso delle precedenti due guerre mondiali; si tratta, piuttosto, di capire concretamente gli strumenti concreti che vengono messi in campo per risolvere le contraddizioni concrete che questa fase scatena. Ed ecco così che non c’è bisogno di sospendere le elezioni democratiche nelle democrazie liberali. Basta renderle ancora più inutili: in Europa, rafforzando e accelerando il processo di unione politica che sostituisce, appunto, alle democrazie nazionali la postdemocrazia sovranazionale; negli USA, mettendo i paletti che impediranno a un eventuale presidente – che non fa completamente sua l’agenda politica già decisa dallo Stato profondo – di decidere liberamente se uscire dai binari. “Certo” specifica Sarcina “in teoria Trump se eletto potrebbe provare a smantellare tutta questa impalcatura, ma nella realtà sarebbe estremamente complicato. In un colpo solo il neo presidente dovrebbe reclamare fondi americani già impegnati, sconfessare i vertici dell’alleanza atlantica ed entrare in collisione con le alte gerarchie militari, nonché con l’industria bellica degli Stati Uniti” che, confessa candidamente Sarcina, è “di gran lunga la prima beneficiaria degli investimenti della NATO in missili, cannoni e carri armati”. La cosa interessante del ragionamento di Sarcina – che diamo per scontato rappresenti perlomeno un pezzo importante delle classi dirigenti imperiali alle quali il Corriere della serva fa da megafono – è che se questa totale sospensione della sovranità democratica noi la diamo da sempre per scontata per le periferie dell’impero, qui si estende anche al centro imperialistico stesso: questo ci costringe a rimettere un po’ in discussione alcune delle nostre categorie.
Secondo questo schema, infatti, identificare in Washington e in Wall Street il centro dell’impero, con gli altri vassalli attorno, sarebbe in qualche modo un eccesso di ottimismo perché, per quanto questo schema implichi un ordine internazionale antidemocratico (con un padrone che decide e gli altri che servono ubbidienti), comunque attribuisce un ruolo centrale al governo di un paese e quel governo, per quanto non si possa definire certo propriamente democratico – anzi – è comunque influenzato dalla sua opinione pubblica e deve trovare, comunque, una qualche forma di compromesso con le istanze del suo elettorato. Nel modello che emerge dalle parole di Sarcina, invece, non c’è manco questo: anche il governo di Washington, in soldoni, non sarebbe altro che uno strumento di un centro di potere ancora superiore che è talmente antidemocratico e dispotico che non c’ha manco non dico una sede fisica, ma manco un nome; fino a che il governo di Washington rappresenta fedelmente l’agenda politica di questo centro occulto, si può anche far finta che a guidarlo sia il presidente degli USA. Quando il governo di Washington, ammesso e non concesso che questo sia possibile, non incarna più questa agenda, anche lui può essere marginalizzato: ed ecco, così, che a comandare spunta un fantomatico centro NATO di Bruxelles che, molto banalmente, non significa un cazzo.
L’arrivo della terza guerra mondiale, in soldoni, non solo spinge un organo della propaganda come il Corriere della serva a chiedere più o meno esplicitamente la sospensione dei diritti democratici, ma anche a svelare che quella democrazia – stringi stringi – è sempre stata una gigantesca presa per il culo, un lusso accessorio del tutto velleitario del quale fare serenamente a meno non appena la situazione lo richiede. Contro la dittatura delle oligarchie (più o meno occulte) dell’imperialismo neoliberista è arrivata l’ora della riscossa multipopolare, ma per darle gambe e testa abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Doomsday Clock – La fine della politica in Occidente: come il capitale e la guerra hanno devastato la democrazia – Guerrilla Radio

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Andrea Zhok – L’Occidente sta collassando dall’interno e per questo vuole la guerra

Le ex democrazie occidentali non son minacciate dall’esterno, ma dall’interno: dal potere oligarchico sempre più illiberale, dalla distruzione dello stato sociale, e della crisi demografica. Questa crisi interna si riversa all’esterno aumentando il caos internazionale e tentando le nostre elitè dal risolvere queste contraddizioni attraverso la guerra, come successo nella prima guerra mondiale. La cultura e l’economia neoliberista sono il sintomo di questo lento ma pericolosissimo declino.

La strategia europea per permettere agli USA di scatenare la Terza Guerra Mondiale nel Pacifico

“Esiste un solo piano A, ed è la vittoria dell’Ucraina”: intervistato da La Stampa, Charles chihuahua Michel, come si confà alla sua specie, prova a dissimulare la sua vulnerabilità e la sua debolezza digrignando i denti e riassume in modo sintetico il nuovo equilibrio politico che, alla vigilia delle elezioni europee, sta maturando in un’Unione Europea che, con virtuosa tenacia, sta riuscendo a spostare il suo baricentro ancora più a destra. “Più autonomia dagli USA: urgente la difesa comune” che – di per sé – suona anche bene, ma in realtà può essere interpretata in due modi radicalmente diversi. Quello più ottimista: dopo 2 anni di schiaffi, l’egemonia USA è indebolita e l’Europa approfitta delle circostanze per procedere in direzione della sua tanto agognata indipendenza strategica – senza pestare troppo i piedi a Washington – con la scusa della difesa dalla minaccia immaginaria di Putin, pazzo dittatore che, dall’isolamento, farnetica di avanzare fino a Lisbona; e poi c’è quello più pessimista: la strategia USA ha funzionato benissimo, la rottura tra Europa e Russia non è più conciliabile e il muro contro muro non è più reversibile. Ne consegue che gli interessi geopolitici di USA ed Unione Europea si sono totalmente riallineati e, quindi, è finalmente possibile delegare in toto il lento logoramento dell’Orso Russo all’alleato europeo per poter tornare a concentrarsi sul vero avversario sistemico e, cioè, la Cina. Questa delega totale del fronte occidentale russo all’Europa sarebbe anche facilitata dal fatto che, dopo due anni di declino economico e di deindustrializzazione forzata – con la complicità del ritorno dell’austerità e dell’ordoliberismo nel vecchio continente che impediscono di sostenere la guerra economica ingaggiata dagli USA a forza di incentivi multimiliardari finanziati col debito pubblico per attrarre capitali europei – l’unica carta che rimane da giocare all’Unione Europea per non fallire definitivamente è quella di convertirsi a una specie di nuova economia di guerra, puntando tutto sul riarmo e sullo sviluppo della sua industria bellica. Ovviamente, come sempre accade nella vita reale, queste due interpretazioni radicalmente diverse non vanno pensate come mutuamente escludentesi, ma – da bravi materialisti – come compresenti e in eterno rapporto dialettico tra loro; insomma: sono entrambe vere, e l’esito finale del conflitto tra queste due tendenze non è determinato e prevedibile, ma cambierà a seconda di come si evolve concretamente la situazione reale al di là dei titoli dei giornali e della propaganda che continua a martellare. “Una sconfitta dell’Ucraina” secondo il pensiero magico di Michel “non può essere un’opzione”, e indovinate un po’ come ha intenzione di ribaltare il corso degli eventi? “Coinvolgendo il Sud globale” afferma, e cioè “spiegando che ciò che la Russia sta facendo è estremamente pericoloso per la stabilità del mondo”. E che ce vo’
Intanto martedì scorso, per la terza volta, gli Stati Uniti da soli contro il resto del mondo hanno posto il veto all’ennesima risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU che invocava il cessate il fuoco per il genocidio di Gaza; riuscirà il bravo Michel a convincere il Sud globale che lo Stato canaglia dell’ordine globale è la Russia – e non gli USA – in modo da permettergli di fornire agli USA la via d’uscita giusta per scatenare la terza guerra mondiale nel Pacifico?

Charles Michel con un bomba

Il problema della guerra totale che gli USA vogliono ingaggiare contro il resto del mondo – che vorrebbe liberarsi da 500 anni di dominio dell’uomo bianco e chiudere l’era del superimperialismo a stelle e strisce – è che questa guerra si sviluppa contemporaneamente su tre fronti distinti e gli USA, nonostante spendano in armi poco meno che tutto il resto del mondo messo assieme, la forza di vincere contemporaneamente su tre fronti non ce l’hanno, manco lontanamente; l’obiettivo che hanno perseguito negli ultimi anni, quindi, è stato delegare due di questi fronti agli alleati vassalli per concentrarsi interamente su quello fondamentale e, cioè, lo scontro nel Pacifico con l’unica vera grande altra superpotenza globale che loro stessi definiscono per primi, ufficialmente, il loro unico avversario sistemico: la Cina.
Prima ancora che iniziasse la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il fronte che gli USA avevano cercato di sbolognare agli storici alleati regionali, in realtà, era stato proprio il Medio Oriente che, in soldoni, significa l’Iran, l’unica potenza regionale di una qualche consistenza a non essere totalmente assoggettata agli interessi statunitensi. Dopo decenni di guerre di invasione dirette, che anche se non avevano avuto esattamente gli esiti sperati avevano, comunque, permesso di ridurre a un ammasso di macerie alcuni degli stati nazionali dell’area – dall’Iraq alla Siria, passando per la Libia -, con Trump gli Stati Uniti accelerano infatti in modo vistoso il ritiro del grosso delle loro truppe dalla regione; il piano è, appunto, quello di delegare il contenimento prima e lo scontro diretto poi contro l’Iran ai proxy regionali – ovviamente in primo luogo Israele, che è l’unica potenza nucleare della regione e che è un vero e proprio avamposto del superimperialismo USA nella regione, ma anche ad emiratini e sauditi, alleati storici degli USA e che, nel frattempo, sono stati armati fino ai denti: con oltre il 5,5% del PIL destinato alla difesa, infatti, da qualche anno gli Emirati Arabi Uniti sono tra i paesi che proporzionalmente spendono di più in armi al mondo e l’Arabia Saudita, stabilmente sopra il 7%, è il campione assoluto – e si tratta, ovviamente, per oltre l’80% di armi made in USA. Questi paesi, insieme al Bahrein e un altro paese che ama molto togliere il pane di bocca alla popolazione per metterlo nelle casse dell’apparato bellico industriale USA e, cioè, il Marocco, avrebbero dovuto cementare la loro alleanza attraverso gli accordi di Abramo, voluti da Trump nell’estate del 2020; nel frattempo, proprio come in Ucraina, Trump faceva di tutto per varcare le linee rosse dell’Iran e spingerlo a qualche azione che avrebbe giustificato una reazione militare vecchio stile da parte dell’alleanza: nel maggio del 2018 ritirava unilateralmente e senza nessuna giustificazione plausibile gli Stati Uniti dal JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, raggiungendo così due obiettivi: grosse difficoltà per l’economia iraniana, a causa del ritorno al vecchio regime delle sanzioni, e un po’ di panico nella regione per il ritorno della minaccia nucleare di Teheran. Ma era solo l’antipasto: il 3 gennaio del 2020, infatti, con un vero e proprio atto criminale gli USA lanciano un attacco aereo contro l’aeroporto di Baghdad per assassinare il maggiore generale iraniano Qasem Soleimani, l’architetto dell’asse della resistenza, che si era recato in Iraq per un incontro distensivo con i rappresentanti sauditi; l’Iran, però, evita accuratamente di cadere nella trappola e invece di impantanarsi in una nuova escalation, continua a lavorare con pazienza al rafforzamento dell’asse della resistenza che, ancora oggi, sta dando del filo da torcere a Israele e agli USA in tutta la regione. Nel frattempo, visto che il sostegno americano nella guerra in Yemen non sta sortendo chissà quali effetti, i sauditi cominciano a pensare a un piano B anche perché, nel frattempo, è scoppiata la guerra in Ucraina e hanno avuto una prova provata di cosa succede ad affidarsi mani e piedi a Washington: sotto le pressioni anche dell’opinione pubblica – per quel poco che gliene può fregare a un regime feudale premoderno dell’opinione pubblica – continuano a tenersi a debita distanza dagli accordi di Abramo e, nel frattempo, continuano a fare piccoli passi verso una riappacificazione con l’Iran; a spingere verso questa soluzione ci si mette di buzzo buono pure la Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale e il primo acquirente di petrolio saudita. Gli USA continuano a cercare di seminare un po’ di panico e, nel novembre del 2022, lanciano un allarme su un possibile attacco iraniano in suolo saudita – così, alla cazzodecane, giusto per fa un po’ caciara –, ma anche qui ci prendono 10: pochi mesi dopo, il 10 marzo del 2023, assistiti dalla paziente mediazione cinese iraniani e sauditi si tornano a stringere la mano a Pechino e riavviano le relazioni diplomatiche formali; gli USA, però, non hanno ancora perso le speranze e continuano a sperare nella firma saudita degli accordi di Abramo fino al 7 ottobre, quando l’operazione Diluvio di al Aqsa scombussola nuovamente tutti i piani e – complice l’azione dell’asse della resistenza e, in particolare, di Ansar Allah – obbliga gli USA a rimpelagarsi anima e core nella polveriera mediorientale: un sostegno incondizionato a un massacro genocida di carattere platealmente neocoloniale che, tra l’altro, non fa che rinsaldare il Sud globale e isolare sempre più Washington, ormai sempre più percepita – anche dai paesi più conservatori – come un pericoloso Stato canaglia completamente estraneo a ogni minima idea di diritto internazionale.
Insomma: il primo tentativo di delegare a qualcun altro uno dei tre fronti, direi che non è andato proprio benissimo anche perché, inevitabilmente, non ha fatto che aumentare l’influenza nella regione di Russia e Cina – e senza che nessuna delle due ci dovesse impiegare chissà quali risorse; d’altronde, è esattamente quello che succede quando i tuoi piani egemonici sono in palese contrasto con gli interessi dei popoli: mentre te impieghi risorse ingenti – e senza manco lontanamente raggiungere i tuoi obiettivi – agli altri gli basta tenersi in disparte e non rilanciare per essere visti come dei veri e propri salvatori della patria e ampliare così la loro influenza a costo zero. Andare contro il corso naturale della storia ha un costo altissimo che solo un impero al massimo della sua forma è in grado di sostenere, e al massimo della sua forma l’impero USA – così, a occhio – non lo è più da qualche tempo.
La lotta contro il declino dell’insostenibile egemonia USA in Medio Oriente, a un certo punto, sembrava addirittura stesse indebolendo la presa degli USA su quelli che, più che alleati (in particolare negli ultimi 2 anni), si sono rivelati veri e propri vassalli e, cioè, i paesi europei che, almeno di facciata – a partire proprio dalle votazioni all’Assemblea Generale e anche al Consiglio di Sicurezza dell’ONU – sembravano cominciare a prendere le distanze; probabilmente non avevano alternative: a differenza degli USA, dove – nonostante si sia sviluppato un movimento di solidarietà alla Palestina senza precedenti – la lobby sionista tiene letteralmente in pugno entrambi i probabili candidati alle prossime presidenziali, in Europa, alla vigilia del voto per il parlamento di Strasburgo, pestare un merdone sulla questione palestinese potrebbe essere determinante. La pantomima, però, sembra essere durata poco: al Summit di Monaco la Davos della difesa, come è stata ribattezzata – a parte qualche slogan inconcludente, da parte dell’Europa sul genocidio si è deciso di stendere un velo pietoso; tutta l’attenzione, invece, si è rivolta verso il fronte ucraino e sulla volontà dei vassalli europei di non spezzare il cuore ai padroni di Washington, come hanno fatto quegli irriconoscenti dei sauditi. Come sosteniamo sin dall’ormai lontano febbraio del 2022, infatti, la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina può essere letta proprio come il tentativo USA di appaltare ai vassalli europei una lunga guerra di logoramento che tenga occupata Mosca e le impedisca, qualora fosse necessario, di garantire all’amico cinese il suo sostegno in caso di escalation nel Pacifico; ci stanno riuscendo?
Sinceramente, se ce lo aveste chiesto anche solo poche settimane fa avremmo risposto, in soldoni, di no; le ultime dichiarazioni – sulla falsariga di quelle rilasciate al Corriere da Charles Michel – però, ci stanno facendo sorgere più di qualche dubbio: l’idea che ci eravamo fatti, infatti, era che di fronte alla sostanziale debacle della NATO in Ucraina, il piano USA di spezzare definitivamente il processo di integrazione economica tra Unione Europea e Mosca fosse probabilmente destinato – almeno nel medio – lungo periodo, dopo una prima fase di innegabile successo – a essere reinvertito. In questi due anni, infatti, l’economia europea ha pagato un prezzo gigantesco e gli USA, che sono anche alle prese con una faida interna di dimensioni mai viste, non hanno fatto assolutamente niente di niente per condividere l’onere, anzi! Non solo si sono fatti d’oro con l’export di gas naturale liquefatto e hanno garantito un vantaggio competitivo enorme alle loro aziende proprio a partire dalla diversa bolletta energetica, ma hanno anche rincarato la dose oltre ogni limite con un’ondata di politiche protezionistiche senza precedenti e con una quantità di quattrini pubblici spropositata per attirare sul suolo americano tutti gli investimenti che le aziende, invece, non hanno nessunissima intenzione di fare nel vecchio continente; un fuoco incrociato al quale non siamo in nessun modo in grado di reagire: mentre gli USA, infatti, fanno i neoliberisti col culo degli altri (ma si sono tenuti ben stretta una Banca Centrale che funziona da prestatore di ultima istanza e che è in grado di monetizzare il gigantesco debito USA ogni volta che serve), l’impianto ordoliberista dell’Unione Europea ci impedisce di provare a tornare a crescere facendo debito. I capitali – noi – li dobbiamo cercare su quelli che la propaganda chiama mercati ma che, in realtà, non sono altro che i grandi monopoli finanziari privati che sono tutti made in USA, e i risultati si vedono: da due anni a questa parte la crescita USA, alla prova dei fatti, si è sempre dimostrata migliore delle aspettative; quella europea e, in particolare, quella tedesca, peggiore, di parecchio.

Angela Merkel con Vladimir Putin

L’Europa, nel frattempo, ha cercato di tenere botta differenziando l’approvvigionamento energetico, ma con il Medio Oriente in fiamme e sull’orlo di una guerra regionale non è che sia esattamente una passeggiata; ora, in questo contesto, Putin in Ucraina ci sta asfaltando e piano piano la questione Ucraina era stata vistosamente allontanata dai riflettori, relegata in qualche trafiletto nelle pagine interne: sembrava la tempesta perfetta per imporre all’Europa di sconigliare senza dare troppo nell’occhio e tornare alle posizioni espresse di nuovo, nell’autunno scorso, da Angela Merkel sulla necessità di un nuovo assetto della sicurezza continentale concordato con la Russia, che facesse da apripista alla fine delle sanzioni e al ritorno a rapporti economici sensati. D’altronde, da qualche tempo a questa parte, sembrava si stesse preparando il terreno: il bilancio disastroso delle sanzioni – che era chiaro sin dal principio, ma veniva dissimulato dalla propaganda con millemila puttanate – era stato sostanzialmente sdoganato; nelle ultime settimane e, in particolare, negli ultimissimi giorni, questa traiettoria però sembra di nuovo allontanarsi – e non mi riferisco certo solo alla strumentalizzazione senza pudore fatta della vicenda Navalny, che probabilmente era del tutto inevitabile. Il punto principale, piuttosto, è tutta questa retorica sulla corsa al riarmo europeo che ha tenuto banco, in particolare, proprio al Summit di Monaco e che – fattore ancora più preoccupante – è stata cavalcata in particolare proprio dalla Germania: la Germania, infatti, è in assoluto il paese che è ha subìto le conseguenze economiche più pesanti e quello che avrebbe più interesse a ricercare un nuova distensione con Putin, come suggerito da Angelona Merkel; il fatto che sia quello che, più di tutti, spinge sull’acceleratore dell’escalation, a nostro modesto avviso segnala che, oltre alla propaganda alla Navalny, c’è probabilmente qualcosa di molto più profondo. Del rischio che la Germania veda in una sorta di nuova economia di guerra, tutta focalizzata sull’industria bellica, l’unica via di uscita dal suo inesorabile declino industriale abbiamo parlato già ieri in questo video; qui volevamo aggiungere giusto un altro spunto di riflessione perché, come afferma proprio Charles Michel al Corriere, noi europei “stiamo lavorando duramente per convincere gli Stati Uniti a fare ciò che è necessario. Ma le esitazioni del Congresso – e il fatto che l’ex presidente Trump partecipi alla campagna elettorale – ci devono far capire che in futuro dovremo contare molto di più sulla nostra capacità”. Ora, questo sforzo per poter fare a meno degli USA, ovviamente, parte dalla situazione Ucraina dove, sottolinea Michel, “esiste solo un piano A: il sostegno all’Ucraina”, ma questa potrebbe essere solo la scusa, diciamo; sinceramente, nonostante non ritenga né Michel né nessuno dei suoi colleghi esattamente una cima, mi voglio augurare che non siano così rintronati da pensare di ribaltare le sorti della guerra con armi che riusciranno a produrre tra 5 anni e, come ha detto Michel stesso senza senso del pudore, “coinvolgendo anche il Sud globale”; piuttosto, quella che temo si stia facendo strada in Europa è proprio quello che ventilava mercoledì scorso anche Il Manifesto parlando della Germania e cioè, appunto, l’idea che per salvare la nostra industria non ci rimanga che concentrare tutti gli sforzi nell’industria bellica e che, per finanziarla, non ci rimanga che intraprendere la strada che porta a una sorta di nuova economia di guerra. D’altronde, è anche l’architettura istituzionale delirante che ci siamo dati a imporcelo: senza Banca Centrale prestatrice di ultima istanza in grado di monetizzare il debito e in balìa dei monopoli finanziari privati USA, ci possiamo indebitare soltanto per finanziare quello che piace anche a loro e quindi, in ultima istanza, quello che rientra nell’agenda del superimperialismo a stelle e strisce; e, di sicuro, non gli piace se facciamo debito per sviluppare una nostra industria tecnologica o una nostra transizione green che metta a repentaglio il primato che stanno cercando di ricostruirsi a suon di incentivi miliardari. Invece se li buttiamo tutti in industria delle armi – che usiamo esclusivamente per tenere occupata e logorare la Russia – quello gli va bene, eccome, e quindi se po’ fa: è l’unico tipo di microrilancio economico che il nostro padrone ci concede.
Anzi, no, non è l’unico: ce n’è pure un’altra, che peggio mi sento; lo ricorda lo stesso Michel, sempre nella stessa intervista: per una nuova corsa agli armamenti, afferma, ovviamente serve “supporto finanziario” e per trovarlo, sottolinea, “stiamo lavorando per cercare di usare gli asset russi congelati”. Ora, intendiamoci, io non ho niente contro gli espropri, quelli proletari però: ogni asset preso da un oligarca e nazionalizzato manu militari per me è sempre una conquista – io, ad esempio, lo farei domattina con tutti gli stabilimenti Stellantis e l’avrei fatto, a suo tempo, con l’ex ILVA. Qui, però, la faccenda è un’altra: si tratta di rapinare un bene privato per consegnarlo a un altro privato, esattamente com’è successo con la raffineria della Lukoil a Priolo ed esattamente come sta facendo la Germania con la raffineria del Brandeburgo e con tutta la rete gestionale della Rosneft distribuita tra Germania, Polonia e Austria per un valore complessivo, riporta Hadelsblatt, di circa 7 miliardi di dollari; come commenta sarcasticamente John Helmer sul suo blog, “Finché possono rubare o distruggere le risorse russe a ovest dell’Ucraina, la guerra non finirà” e “Il partito tedesco che meglio garantirà di continuare questo furto per l’arricchimento dei dirigenti e degli azionisti tedeschi vincerà le prossime elezioni”.
Insomma: un’economia di guerra e di rapina, alla faccia del giardino ordinato; impossibilitati a recuperare il terreno economico e produttivo perduto, in questi mesi si stanno mettendo le basi per un’Europa completamente diversa da quella che abbiamo già conosciuta e – sembra difficile crederlo – incredibilmente peggiore. Per evitare che tutto salti per aria, allora, ovviamente c’è bisogno di un supporto propagandistico ed ideologico di tutto rispetto e questo supporto, questa giustificazione, non può che essere uno stato di guerra permanente a medio – bassa intensità sostenuto da tutta la propaganda sul grande pericolo immaginario che arriva da Est; cioè, per tenere in piedi l’Europa dell’industria bellica e dell’economia di guerra che ci stanno prospettando, la guerra alla Russia non è un’ipotesi, non è un’eventualità: è proprio una necessità vitale. Dall’alto del nostro suprematismo del tutto ingiustificato, prendevamo per il culo i popoli arabi e le condizioni di vita indecenti che si fanno imporre dai loro regimi autoritari, al punto da dichiarare unica democrazia dell’area un stato fondato sul genocidio e l’apartheid, e poi ci siamo fatti ingroppare senza vasellina come loro non hanno permesso. Sarebbe arrivata l’ora di ritrovare un po’ di dignità e rovesciare completamente il tavolo prima che sia troppo tardi; per farlo, abbiamo bisogno di lasciarci alle spalle la guerra di propaganda a suon di armi di distrazione di massa tra sinistra ZTL e destra negazionista e reazionaria e mettere in piedi un vero e proprio media popolare, ma autorevole, che dia una prospettiva alle aspirazioni concrete del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Charles Michel

Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

OTTOSOFIA LIVE – Perché estrarre a sorte i nostri politici invece di eleggerli è un’ottima idea

Forse le elezioni hanno esaurito la loro funzione di garantire una democrazia rappresentativa. E se i politici venissero estratti a sorte? Parleremo di democrazia aleatoria con Samuele Nannoni di “Prossima Democrazia – Laboratori Deliberativi” che nasce per dare ai cittadini dignità attraverso la partecipazione, favorire equità di accesso alla partecipazione attraverso il sorteggio statistico e mettere in moto la coscienza collettiva attraverso la deliberazione.