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Tag: delocalizzazioni

L’AMORE DI DAVOS PER BITCOIN: se truffare i pensionati è l’ultima speranza del capitalismo

Ricostruire la fiducia”: questo è il titolo – e l’obiettivo – dell’edizione 2024 del World Economic Forum di Davos che è iniziata ieri, ma potrebbe essere più complicato del previsto; sul tavolo, in particolare, 3 temi piuttosto complicatini.
Il primo è l’intelligenza artificiale: un’indagine annuale sui rischi pubblicata mercoledì dal WEF, infatti, indica la disinformazione guidata dall’intelligenza artificiale come il pericolo più grande nei prossimi due anni; si parte malino, diciamo. Il tema della disinformazione legata all’intelligenza artificiale, infatti, puzza di arma di distrazione di massa da mille miglia di distanza; d’altronde, non dovrebbe sorprenderci: affrontare le vere criticità dell’intelligenza artificiale – invece che questa fuffa da editoriale de La Repubblichina e da inchiesta de l’Internazionale – infatti potrebbe non essere esattamente nell’interesse delle oligarchie che il forum vuole rappresentare. Come ogni grande rivoluzione tecnologica, infatti, l’intelligenza artificiale può rappresentare davvero un’opportunità gigantesca, ma solo a patto che venga governata e gli vengano messi una lunga serie di paletti che vanno contro l’interesse economico immediato di chi detiene il mezzo di produzione; in caso contrario, non si può tradurre in nient’altro che un’altra gigantesca opportunità per chi ha più quattrini di concentrare ulteriormente nelle sue mani sia il potere economico che quello politico, a discapito degli interessi del 99%, e più è potente e dirompente la rivoluzione tecnologica e più il rischio è grande. Qui si tratta solo di capire se tutte le speculazioni sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale sono hype per gonfiare la bolla speculativa dei titoli delle aziende del settore o se sono reali e, una volta tanto, la bolla speculativa potrebbe essere il male minore.
Il secondo tema sul tavolo è quello del gigantesco debito che negli ultimi anni hanno accumulato i paesi in via di sviluppo: “Oggi” ricorda Deutsche Welle, infatti “3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono di più in interessi sul debito che in educazione e sanità”. Ho come l’impressione che a Davos abbiano la soluzione magica: privatizzare tutto; d’altronde, c’è chi s’è portato avanti. Venerdì scorso, infatti, è stata ufficializzata un’acquisizione che rischia di cambiare per sempre il mondo dell’asset manager capitalism, il capitalismo contemporaneo dove i giganti della gestione patrimoniale si comprano tutto il pianeta con i nostri quattrini: per la modica cifra di 12,5 miliardi, infatti, BlackRock si è comprata Global Infrastructure Partner; “L’accordo” titola enfaticamente il Financial Times “creerebbe la seconda più grande azienda infrastrutturale del mondo e scuoterebbe gli investimenti del mercato privato”. “Con oltre 100 miliardi di dollari di patrimonio gestito” infatti, Global Infrastructure Partner “è il più grande gestore infrastrutturale indipendente in termini di asset gestiti a livello globale”. Avete presente quando parliamo di privatizzazione degli asset strategici dei paesi a favore di fondi privati? Ecco: Global Infrastructure Partner è il falco numero 1 al mondo; s’è comprato l’aeroporto di Gatwick, quello di Edimburgo, il porto di Melbourne e pure la nostra Italo e ora si è posizionata in pole position per la grande cuccagna della transizione ecologica, dove l’occasione d’oro della crisi climatica mischiata al mito del primato dei privati ha creato quel mostro distopico che Daniela Gabor definisce l’era del de-risking: gli Stati ci mettono i soldi dei contribuenti e i privati incassano, senza rischio.

Daniela Gabor

Ma il più importante di tutti è il terzo punto: il rallentamento della crescita economica globale; la Banca Mondiale, infatti, ha recentemente dichiarato che con il 2024 si chiuderà il quinquennio con la crescita più bassa degli ultimi 30 anni. Le concause sono tante – a partire dalla crisi pandemica – ma ce n’è una che domina incontrastata: siamo nel bel mezzo di quella che Vijay Prashad definisce la Terza Grande Depressione del capitalismo Globale, e qui la dialettica tra le oligarchie sul che fare si fa già più interessante. L’incredibile concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi attori alla quale abbiamo assistito negli ultimi 30 anni, infatti, poggia su due gambe: da un lato c’è l’economia reale; con la globalizzazione neoliberista i capitali hanno avuto la possibilità di andare in giro per il mondo alla ricerca delle delocalizzazioni che gli garantissero i margini di profitto migliori e, siccome le merci che produci poi le devi pure vendere, la precondizione era che le rotte commerciali fossero sicure, e a tenerle sicure ci pensavano gli USA, l’unica superpotenza globale rimasta dopo il crollo del mondo sovietico. Ora, come dimostra la crisi del Mar Rosso – dove l’azione dell’esercito di uno dei paesi più poveri del mondo è bastata a scatenare il panico sul traffico commerciale – gli USA, in declino relativo, quella sicurezza non sono in grado di garantirla più; la pax americana, infatti, non era gratis: presupponeva un ordine internazionale dove gli USA dominano e gli altri possono accompagnare solo. E di accompagnare solo ormai il resto del mondo si sarebbe anche un po’ strarotto i coglioni.
L’altra gamba del dominio globale delle oligarchie, invece, è più in salute che mai: è lo schema Ponzi della speculazione finanziaria, un mondo di bolle. Ora, le due cose a lungo hanno viaggiato a braccetto: grazie alle delocalizzazioni e alla sicurezza del commercio globale, le oligarchie incassavano il loro taglieggio sull’economia reale e sulla produzione, e una bella fetta la reinvestivano nelle bolle speculative; una pacchia fino a che economia reale e bolle speculative non hanno cominciato a entrare un po’ in conflitto tra loro. Per continuare a sostenere le bolle speculative, infatti, c’era bisogno che il capitalismo finanziario USA consolidasse il suo dominio su tutto il resto del globo; gli investimenti nell’economia reale invece – contro le aspettative delle oligarchie stesse, che sono più brave a fare quattrini che non a capire cosa succede davvero al di fuori delle loro conventicole – spingevano esattamente in direzione opposta. Passo dopo passo, in mezzo a mille contraddizioni, ponevano le basi materiali di quel nuovo ordine multipolare che ora chiede a gran voce di essere riconosciuto, mettendo a repentaglio proprio quel dominio incontrastato USA necessario per garantire che le bolle continuino a gonfiarsi a dismisura e non esplodano.
Ecco allora che all’interno del grande capitale maturano strategie e posizioni molto diverse, anche opposte: da un lato, appunto, l’interesse a mantenere in vita la globalizzazione delle catene del valore e delle rotte commerciali, scendendo a compromessi con i paesi sovrani del Sud globale che rivendicano il posto che gli spetta nel nuovo mondo multipolare, dall’altro l’interesse del capitale completamente finanziarizzato, che della produzione e delle rotte commerciali se ne sbatte allegramente il cazzo; ovviamente queste due tendenze non vanno viste tipo tifo calcistico – Musk e Buffett da una parte e Larry Fink e Jamie Dimon dall’altra, per dire. Sono due tendenze presenti entrambe, in qualche misura, in ogni grande concentrazione di capitale, che mescola sempre interessi legati all’economia reale e al commercio e interessi legati alla speculazione finanziaria; questa commistione nel capitalismo contemporaneo è sempre esistita, a partire dalla fine dell’800 e cioè dall’era – appunto – dell’affermazione dei grandi monopoli e del capitalismo finanziario anticipato già da Marx e poi descritto magistralmente da Hilferding. Allora però, alla resa dei conti, il rapporto gerarchico tra le due sfere era preciso; la finanza, tutto sommato, era uno strumento della produzione e questo implicava una cosa precisa e fondamentale: anche le oligarchie, per arricchirsi, avevano bisogno della crescita economica, che poi è il motivo per il quale quando arrivava la Grande Depressione – come a fine ‘800 e negli anni 30 del secolo scorso – la via di uscita dalla crisi si cerca proprio nel rilancio dell’economia reale attraverso gli investimenti produttivi e l’innovazione industriale e tecnologica, anche a costo di riconoscere al mondo del lavoro qualche diritto in più.

Documento sulla bolla dei tulipani

Ora quel rapporto gerarchico sembra essere completamente saltato per aria; accumulazione di ricchezza finanziaria e crescita economica sembrano essere completamente disaccoppiate, spesso addirittura in contrapposizione: meno cresce l’economia reale, più le oligarchie si arricchiscono. Le bolle speculative non sono più semplicemente un’amplificazione, per quanto ingiustificata nelle sue dimensioni, di qualcosa che avviene realmente nell’economia reale, non sono più i tulipani olandesi che nel ‘700 avevano raggiunto quotazioni folli. Vivono di vita propria: sono giganteschi schemi Ponzi. Ma c’è un problemino: gli schemi Ponzi, prima o poi, esplodono e dietro lasciano solo cenere, a parte per quelli che – nel frattempo – sono usciti dallo schema in anticipo con il malloppo. La dialettica, tutta interna alle oligarchie globali, tra team finanziarizzazione e team globalizzazione commerciale quindi può essere vista anche in questi termini: uno scontro tra chi vuole lucrare sull’economia globale ancora a lungo (e quindi auspica che l’economia globale non collassi) e chi invece, diciamo, ha una prospettiva temporale un pochino più limitata e punta molto più semplicemente ad arraffare tutto l’arraffabile mentre tutto gli crolla attorno proprio grazie a lui. Chi avrà la meglio? A giudicare da questa notizia, la partita potrebbe essere decisa a tavolino in partenza: “La SEC approva i primi ETF spot su bitcoin per dare una spinta ai sostenitori delle criptovalute”; sembra una supercazzola, purtroppo invece ha perfettamente senso ed è un disastro. Dopo circa 10 anni di resistenza, infatti, la Securities and Exchange Commission americana – l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori – ha autorizzato l’emissione di Exchange Traded Fund, di fondi scambiati in borsa, legati al valore del bitcoin.
Gli Exchange Traded Fund sono fondi di investimento il cui andamento ricalca l’andamento del valore di un altro bene – in questo caso, appunto, i bitcoin: sostanzialmente, comprando le azioni di uno di questi fondi il valore del tuo investimento avrà lo stesso identico andamento del bene o dell’indice di riferimento; insomma, è esattamente come se ti comprassi bitcoin ma senza tutte le menate legate a comprarsi bitcoin, poi custodirli da qualche parte, e poi eventualmente rivenderli – una serie di complicazioni che non solo hanno tenuto alla larga molti investitori un po’ agé e scettici ma, soprattutto, hanno tenuto alla larga gli investitori istituzionali, come ad esempio il tuo fondo per la pensione integrativa o il tuo fondo sanitario.
Ma perché è così devastante questa notizia? Per i più moderati, appunto, semplicemente perché i bitcoin sono uno schema Ponzi: è quello che, ad esempio, sostengono da sempre Nouriel Roubini ma, soprattutto, William Quinn, storico dell’economia all’università di Belfast e uno dei principali esperti al mondo di storia delle bolle finanziarie, che ricorda come “Tutte le bolle passate che ho studiato, coinvolgevano comunque un qualche asset con una qualche utilità e al quale era associato un flusso di denaro”; “Storicamente” continua Quinn “un asset finanziario senza queste caratteristiche e fondato esclusivamente sul marketing sarebbe stato considerato una frode” e in particolare, appunto, una frode alla Ponzi che funziona così: io ti convinco a darmi i tuoi quattrini promettendoti profitti da capogiro – ma in realtà questi investimenti che generano questi profitti da capogiro non esistono – e quando mi chiedi di restituirti capitale e interessi io li vado a prendere dai soldi che, nel frattempo, mi hanno dato altri investitori, fino a che a chiedermi di restituire capitale e interessi maturati non siete in troppi e i capitali dei nuovi investitori non bastano più, e tutto salta per aria. Che – secondo il famoso scienziato informatico brasiliano Jorge Stolfi – è esattamente come funziona il bitcoin, dove:
1 – gli investitori acquistano aspettandosi profitti;
2 – questa aspettativa è sostenuta dai profitti di coloro che nel frattempo hanno già rivenduto incassando buoni profitti;
3 – per sostenere questi profitti, non esiste nessuna fonte esterna: i soldi provengono tutti solo da nuovi investitori;
4 – gli operatori si portano via gran parte dei soldi.
“Tutto questo è senz’altro vero” scrive Robert McCauley della Oxford University sul Financial Times “ma nel definire bitcoin uno schema Ponzi, i critici sono probabilmente troppo gentili”; secondo McCauley, infatti, in uno schema Ponzi il grosso del capitale viene investito in asset che un valore ce l’hanno. Ovviamente, quando il meccanismo scoppia gli investitori devono rinunciare ai profitti che erano stati garantiti, e anche una fetta del capitale, nel frattempo, solitamente è stato fregato da chi lo gestiva. Ma un po’ di quegli asset comunque esistono sempre e, quindi, possono essere venduti e un po’ di quattrini si possono recuperare: nel caso del più grande schema Ponzi di sempre ad esempio – quello di Bernie Madoff – dei 20 miliardi investiti ne sono stati comunque recuperati 14; nel caso di bitcoin, invece, di asset che hanno un qualche valore oltre al bitcoin stesso non ce n’è e quindi, nel caso un bel giorno qualcuno per qualsiasi motivo perdesse la fiducia nel bitcoin e il suo valore crollasse, non ci sarebbe niente da vendere per recuperare un po’ di quattrini.

Bernie Madoff

Ora, ovviamente, fare tanto i moralisti su queste cose lascia un po’ il tempo che trova: si gioca ai cavalli, si comprano i gratta e vinci, si potrà pur scommettere in qualche frazione di bitcoin, no? Io poi, personalmente, ne posso parlare solo bene: una volta, per fare un’inchiesta per Report, sulle criptovalute ci ho investito 500 euro per vedere in prima persona l’effetto che fa; devo dire, tutto sommato, discreto: quando li ho rivenduti l’anno dopo il valore era più che raddoppiato, e se avessi avuto giusto un anno e mezzo di pazienza in più avrei guadagnate 6 volte tanto. Se è uno schema Ponzi, o anche peggio, bisogna ammettere che ad oggi ha funzionato benino ed è diventato un giochino da poco meno di mille miliardi di capitalizzazione – più di Tesla e quasi il doppio di TMSC, il più grande produttore di chip al mondo – ma senza macchine e senza chip. Ma pensare che dei fondi istituzionali usino i soldi delle pensioni per comprare ETF bitcoin è oltre la peggiore delle distopie; eppure, come ripete continuamente il nostro caro Alessandro Volpi, il massacro del welfare e l’impoverimento generalizzato di chi campa del suo lavoro costringerà i fondi istituzionali a provare a tenere in piedi il potere d’acquisto delle pensioni puntando sugli investimenti che, apparentemente, garantiscono i dividendi più succulenti, nascondendo i rischi.
Fino a che non salterà per aria tutto. E a noi di fare per accelerare il declino ogni tanto viene pure da essere felici del fatto che possano fare tutto questo con la complicità di media e politici da passeggio vari; poi, però, ci torna un piccolo rigurgito di dignità e pensiamo che, di fronte a tutto questo, come minimo serve un vero e proprio media che non si faccia abbindolare dagli schemi Ponzi delle oligarchie votate al declino e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Larry Fink

IL SUICIDIO DELLA GERMANIA – Come 20 anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali

C’era una volta la Germania: patria della filosofia classica e del socialismo scientifico, la leggenda narra che nonostante le dimensioni tutto sommato ridotte, il peso demografico limitato e la relativa scarsezza di risorse naturali, fosse un paese così cazzuto che, per impedirgli di conquistare il resto del mondo, tutti gli altri si sono ritrovati costretti a mettere da parte le differenze e a coalizzarsi, due volte, e senza mai risolvere davvero il problema. Il trucco magico? Si chiama stato sviluppista: consiste nel fatto che lo stato interviene a gamba tesa per tenere a freno le tendenze naturali di quello che gli analfoliberali chiamano libero mercato – ma che non ha niente a che fare con il mercato – e l’unica forma di libertà che conosce è la libertà del più forte di appropriarsi del grosso della torta con ogni mezzo necessario. Questo fantomatico libero mercato ha l’innata capacità di rendere la società sempre più iniqua e disumana ma, allo stesso tempo, anche totalmente disfunzionale; ecco perché, narra la leggenda, non aveva mai conquistato il cuore dei tedeschi che, in quanto a ferocia, non avevano certo da invidiare nessuno ma almeno – pare – non si facevano infinocchiare dalle superstizioni strampalate che andavano così diffuse nel mondo anglosassone.
Lo stato sviluppista si fonda su un’idea piuttosto semplice, e cioè che lo stato è lo strumento più adatto per creare le precondizioni affinché l’economia sia davvero produttiva; si occupa di costruire tutte le infrastrutture necessarie, sia materiali che anche immateriali, a partire dall’istruzione di massa e la diffusione di tutte le competenze necessarie. Lo stato sviluppista, inoltre, si occupa di fornire alla popolazione quei servizi di base necessari per la riproduzione – a partire dalla salute -, ma anche tutti quei servizi di cura che altrimenti ricadrebbero sulla popolazione femminile che, quindi, non sarebbe nelle condizioni di contribuire in modo produttivo all’economia; pianificando e socializzando tutte queste attività, lo stato sviluppista ne riduce al massimo i costi complessivi e permette di concentrare il grosso della ricchezza prodotta negli investimenti produttivi e, quindi, nella crescita e nello sviluppo. E così, nel medio/lungo periodo, i paesi che si fondano su uno stato sviluppista diventano – necessariamente – economicamente molto più performanti di quelli dove prevale la superstizione arcaica del libero mercato e dove quei servizi sono forniti da delle oligarchie parassitarie che ci fanno la cresta sopra appropriandosi così, in modo predatorio, di un pezzo consistente della ricchezza prodotta dalla società; e l’efficacia tra questi due diversi sistemi è così macroscopica che anche se radi al suolo lo stato sviluppista per due volte, ecco che quello, nell’arco di qualche decennio, rialza la testa ed è di nuovo pronto ad asfaltarti. Fino a quando, un bel giorno, uno strano morbo non è riuscito a ottenere definitivamente quello che due guerre mondiali erano soltanto riuscite a rimandare temporaneamente: quel morbo si chiamava neoliberismo; un morbo devastante in grado di fare tabula rasa di ogni capacità di creare benessere e ricchezza per le popolazioni e che si diffondeva a macchia d’olio per tramite di un orribile insettino infestante chiamato finanziarizzazione. E questa, allora, è la storia di come vent’anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali.

Seymour Hersch

La disfatta totale dell’Occidente collettivo in Ucraina è anche la storia di uno dei più incredibili misteri dell’era moderna; fino ad allora, infatti – che io ricordi – non era mai successo che un governo venisse messo in ginocchio da un attacco militare devastante e, invece di incazzarsi, ringraziasse pure: eppure è esattamente quello che è successo con la vicenda del Nord stream. Come ci ha raccontato il buon vecchio Seymour Hersh, infatti, non solo dietro l’attentato c’è la mano di Washington, com’è abbastanza ovvio, ma i tedeschi lo hanno pure sempre saputo: eppure, muti. D’altronde le avvisaglie c’erano già: quasi ormai 10 anni fa scoppiava il caso delle intercettazioni USA nei confronti di Angelona Merkel; nel 2015, poi, wikileaks entrò in possesso di alcuni documenti che dimostravano come le intercettazioni USA andassero ben oltre quell’episodio, sia nello spazio che nel tempo. Le intercettazioni, infatti, risalivano a ben prima, ricoprendo tutta l’era del governo Schroeder e ancora oltre – a partire dall’amministrazione Kohl – e, in tutto, avrebbero riguardato qualcosa come oltre 125 utenze telefoniche di alti funzionari; ma la cosa ancora più inquietante è il sospetto piuttosto fondato che a collaborare con lo spionaggio USA ci si fosse messa direttamente anche la BND – l’intelligence tedesca – che quindi si confermerebbe essere poco più che uno strumento in mano agli USA per limitare l’autonomia e l’indipendenza delle cariche elettive tedesche. Il deep state tedesco, in soldoni, funzionerebbe a tutti gli effetti come una forza di occupazione che riferisce più a Washington che non a Berlino: sorvegliare una fetta consistente di classe dirigente è il prerequisito necessario per tenerla concretamente in pungo grazie all’arma del ricatto, perché tra le classi dirigenti dell’occidente globale in declino, rispettare pedissequamente la legge è più l’eccezione che la regola e – con la dovuta pazienza – chiunque, prima o poi, diventa vulnerabile.
Olaf Scholz, ad esempio, è invischiato in un losco affare di presunta corruzione che risale a quando era sindaco di Amburgo: è lo scandalo dei cum-ex, lo schema fraudolento che avrebbe permesso a una rete di banche e banchieri – legati a vario titolo a Scholz – di evadere qualcosa come 280 milioni di euro di tasse; “Lo scandalo cum-ex sottolinea il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism “è come una spada di Damocle che incombe sul cancelliere Scholz”. Il caso era tornato alla ribalta, infatti, nel gennaio scorso – e cioè nel periodo durante il quale Scholz si era dimostrato piuttosto titubante riguardo all’invio dei Leopard tedeschi in Ucraina; dopo poco Scholz cede, e anche la vicenda dei cum-ex sparisce dai radar fino ad agosto, quando – te guarda a volte il caso – Scholz di nuovo esprime qualche perplessità sull’idea di mandare nuovi armamenti. Ecco allora che sui giornali torna lo scandalo cum-ex e, nel giro di un paio di settimane, riecco Scholz che cambia idea. Questa volta, forse, una volta per tutte. Sosterremo l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” aveva infine dichiarato il 28 agosto.

Conor Gallagher

Ma se le trame oscure dello spionaggio e della corruzione sicuramente rivestono sempre un ruolo significativo, la scelta deliberata delle élite tedesche – come dice ancora Gallagher su Naked Capitalism – “di imporre il declino economico alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini” è di una portata tale che sarebbe un po’ superficiale pensare non vi siano ragioni strutturali profonde. Per dare un quadro esaustivo e scientificamente solido ci vorrebbe un lavoro che va un po’ oltre un video di Ottolina; proveremo a farlo un po’ a pezzi nei prossimi mesi. Intanto proviamo a mettere insieme un po’ di elementi. Primo tassello: a partire dalla fine degli anni ‘90 la Germania, che era – e ancora oggi continua ad essere – di gran lunga la prima potenza industriale del vecchio continente, ha applicato politiche salariali ultra – restrittive; per quanto, vista dall’Italia, ci possa sembrare un’affermazione un po’ paradossale, i lavoratori tedeschi guadagnano poco. Sicuramente guadagnano poco rispetto alla produttività, che aveva raggiunto ottimi standard proprio grazie all’azione dello stato sviluppista dei decenni precedenti. Le aziende tedesche, però, non si sono limitate a pagare relativamente sempre meno i lavoratori tedeschi, ma hanno ridotto ulteriormente il costo del lavoro delocalizzando in giro, a partire dal resto dell’Europa che è diventato, in buona parte, un continente di subfornitori dell’industria tedesca; grazie alla ristrettezza salariale e alle delocalizzazioni, le aziende tedesche hanno aumentato i margini di profitto: un’ottima occasione per investire ancora di più e reggere così la competizione dei paesi emergenti che, nel frattempo, stavano crescendo come treni. Macché; mentre i salari stagnavano e i profitti aumentavano, gli investimenti, invece, crollavano, come certificava – già nel 2014 – una celebre ricerca della fondazione Friederich Ebert, il think tank del partito socialdemocratico: “A partire dal 2000 la percentuale di investimenti rispetto al PIL in Germania è crollata in fondo alla classifica dell’eurozona, passando dal 21% del 2000, al 17% del 2013”. Nel 1992 era al 24%, 5 punti sopra la media dell’eurozona; gli investimenti in macchinari pesavano per oltre il 10% del PIL nel 1991: nel 2013 erano scesi sotto il 6%. Che fine facevano questi profitti? Semplice: scappavano. Come ha sottolineato recentemente anche il centro studi dell’OCSE, “a partire dai primi anni 2000, la Germania ha sperimentato un forte deflusso di capitali privati” e, in buona parte, scappavano prima di essere tassati – via paradisi fiscali.
Le banche tedesche s’erano proprio specializzate: come denunciava, già nel 2013, un’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists “Deutsche Bank ha aiutato i clienti a mantenere centinaia di entità offshore”; “L’unità di Singapore della più grande banca tedesca” riportava l’articolo “ha contribuito alla nascita di società e trust nei paradisi fiscali”; tutti soldini che mica rimanevano lì a fare la muffa, e indovinate dove andavano a finire? Ma nelle bolle speculative USA, ovviamente; e la Germania si impoveriva: se nel 2010 la sua ricchezza era il 5,7% della ricchezza complessiva globale, nel 2022 la quota era scesa a un misero 3,8% mentre il paese cadeva a pezzi. Perché se da oltre 20 anni gli investimenti privati languono, quelli pubblici proprio sono letteralmente scomparsi, e hanno pure iniziato prima. In questo grafico viene riportato l’andamento del valore complessivo degli investimenti fissi fatti dal pubblico:

la Germania è di gran lunga il paese peggiore tra i principali paesi occidentali – Italia compresa – e, tra il 2004 e il 2013, il valore complessivo delle sue infrastrutture pubbliche non si è limitato a rimanere al palo, ma è addirittura diminuito: non solo non costruivano nuove strade, o nuovi porti, o nuove reti di trasporto urbano; manco riuscivano a mantenere quelle che avevano.
E il furto continua: secondo una recente ricerca della Confederazione dei sindacati europei, dal 2019 ad oggi la quota destinata ai profitti rispetto al PIL complessivo in Germania è cresciuta addirittura del 6%, ma la quota degli investimenti non è cresciuta nemmeno di un centesimo; le élite tedesche stanno rapinando quello che rimane della loro economia reale per portarlo a far fruttare nel grande casino delle speculazioni finanziarie in dollari e lo fanno attraverso i paradisi fiscali, in modo da non lasciare a casa manco la quota destinata alle tasse. E’ del tutto normale quindi che, mentre la stragrande maggioranza della popolazione tedesca tocca con mano il declino, le élite economiche – e quelle politiche che rispondono solo ed esclusivamente a loro, magari abbellendo questa ferocia classista con un po’ di puttanate woke stile Annalena Braebock – molto semplicemente non vedano il problema; lo dimostrano in modo eclatante i sondaggi di Eurobarometro riportati, sempre dal buon Gallagher, su Naked Capitalism: a livello europeo, sottolinea Gallagher, “il 66% della classe operaia ritiene che la propria qualità di vita stia peggiorando, ma solo il 38% degli appartenenti alle classi superiori la pensa allo stesso modo” e riguardo alla guerra in Ucraina e alle sanzioni che sono seguite, continua Gallagher, “il 71% della classe operaia ritiene che li danneggi, ma solo il 40% della classe sociale più alta condivide questa prospettiva”. E a questa differenza di condizioni materiali, ovviamente, consegue una divergenza radicale di visioni politiche: come ricorda sempre Gallagher “solo il 35% della classe operaia ha fiducia nella commissione europea. Tra le classi agiate la fiducia sale al 68%”; idem nei confronti della Banca Centrale Europea: 33% contro 67%. Perché? Presto detto: con la ristrettezza monetaria la BCE uccide l’economia reale europea ma mantiene un euro relativamente forte; chi vive, in toto o in parte, di esportazione di capitali – ad esempio attraverso l’adesione a qualche fondo che investe nei mercati azionari USA – la morte dell’economia reale è un prezzo congruo da sostenere se, in cambio, gli si garantisce che i propri investimenti in dollari continuano a crescere di valore.
Invertire la rotta dell’economia europea sarebbe ancora possibile ma, per farlo, servirebbe il ritorno dello stato sviluppista: investimenti, spesa pubblica e integrazione con i grandi mercati emergenti. Troppa fatica; molto più semplice prendere i pochi soldi che rimangono e fuggire, mentre si fomenta la carneficina dei ragazzini ucraini sul fronte e lo sterminio dei bambini arabi nelle loro case: basta che il tutto sia green e gender friendly.
Prima che ti finiscano di rubare tutto, allora, un piccolo consiglio per gli acquisti natalizi e se, dopo che vi siete rivestiti di tutto punto, vi avanzano due eurini dalla tredicesima, il migliore investimento possibile lo sai già: aiutaci a costruire il primo media che, invece che alle puttanate dell’élite rapinatrice e globalista, dà voce agli zoticoni che fanno parte del 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Braebock