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LA TRAGEDIA DEL CORNO D’AFRICA (parte 1) Sudan: storia di un genocidio che non fa notizia

Lontano dagli occhi e dal cuore dei tiktoker e degli opinionisti dei talk show, in Sudan si sta consumando l’ennesima catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche: secondo quanto riportato dall’Economist, il Sudan oggi sarebbe in assoluto il paese col maggior numero di rifugiati interni al mondo; erano già 3,7 milioni prima di aprile – ai quali si aggiungevano anche 1,1 milioni di rifugiati stranieri che, ironia della sorte, avevano cercato in Sudan riparo da altri conflitti regionali – e poi è arrivato il cataclisma. Nell’aprile scorso, l’esercito regolare e i paramilitari guidati dal generale Hemeti – che avevano governato assieme da quando l’ex presidente Omar Al Bashir era stato costretto all’esilio impedendo la transizione democratica – hanno deciso che il modo migliore per decidere chi dei due avesse il diritto a governare l’intero paese era passare alle armi; da allora, nell’arco di pochi mesi, ai vecchi rifugiati se ne sono aggiunti altri 6,3 milioni. In tutto fanno 11 milioni di esseri umani – 5 volte Gaza – in buona parte a rischio genocidio. Come ai tempi dei tagliagole janjaweed nel Darfur – che, d’altronde, molto spesso sono esattamente gli stessi uomini che ora ingrassano le fila dei paramilitari di Hemeti – quello che vediamo dispiegarsi con ferocia davanti ai nostri occhi, infatti, non è altro che l’ennesimo capitolo della guerra epocale che da decenni infiamma il Corno dell’Africa. E non si tratta della solita guerra per procura tra grandi potenze che, infatti, sostanzialmente se ne strasbattono i coglioni (e con loro tutti i media che gli fanno da ufficio stampa – motivo per cui se ne parla così poco); tantomeno – però – si tratta semplicemente di guerre tribali legate a dinamiche che caratterizzano società che non hanno ancora abbracciato le magnifiche sorti e progressive della modernità. Al contrario – per quanto a noi abitanti del giardino ordinato del mondo sviluppato possa sembrare controintuitivo – si tratta di guerre scatenate proprio dalla logica interna del capitalismo e, in particolare, da quella fase barbara e violenta che si chiama accumulazione primaria.
La tragica, ennesima guerra in Sudan meriterebbe di per sé un lungo pippone, ma – proprio perché non parla solo della guerra in Sudan, ma di qualcosa di estremamente profondo che ha caratterizzato in modi sempre diversi le società che sono entrate nella cosiddetta modernità – a questo giro abbiamo deciso di dedicargliene addirittura due: nel primo, che è questo, proveremo a fare una cronistoria della guerra in corso e delle prospettive future; nel secondo, che pubblicheremo domani, cercheremo di inquadrarla in un discorso più generale.

Mohamed Hamdan Dagalo


Sabato 15 aprile, stato di Khartoum: le forze armate regolari del Sudan dichiarano che, nella notte, le due basi di Tiba e Soba sono state prese d’assalto; è il risultato del fallimento di una lunga trattativa tra le forze armate stesse e l’RSF, le forze paramilitari di supporto rapido guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo – meglio noto come Hemeti – che, poche ore dopo, dichiarerà di aver preso il controllo anche dell’aeroporto di Khartoum, della base aerea di Merowe e pure del palazzo presidenziale. Il motivo del contendere sembrerebbe essere molto semplice: per dare il via libera al nuovo governo transitorio, che avrebbe dovuto traghettare il paese a nuove elezioni, le forze armate regolari pretendevano di integrare nei loro ranghi i paramilitari, e Hamati non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. Istituita nel 2013, l’RSF è nata dalla riunione delle varie milizie che avevano messo a ferro e fuoco il Darfur nei primi anni 2000 commettendo una lunga serie di crimini, e lo avevano fatto in nome del governo centrale e dell’allora presidente al-Bashir. Diventata, nel tempo, una delle istituzioni più potenti del paese – in particolare grazie al controllo delle miniere d’oro del Darfur quando, nel 2019, le proteste di piazza hanno costretto al-Bashir alle dimissioni -, la giunta militare che è subentrata li ha coinvolti direttamente nel governo del paese assicurando ad Hemeti la carica di vicepresidente. Forze armate regolari e RSF condividevano la stessa priorità: impedire alla rivoluzione democratica di ottenere qualcosa di più sostanzioso che la sola rimozione di al-Bashir con ogni mezzo necessario; già nel giugno del 2019, per sedare le proteste, la giunta militare infatti aveva schierato proprio l’RSF che, nell’arco di pochi giorni, aveva causato oltre 100 vittime tra i manifestanti e una quantità spropositata di arresti. Una volta sedata la protesta, la coalizione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento – che aveva guidato la rivoluzione democratica – aveva deciso di aprire una trattativa con la giunta militare entrando a far parte di un governo congiunto di transizione: una mossa criticata da molti dei protagonisti delle proteste e che ha spinto, ad esempio, il partito comunista sudanese a uscire dalla coalizione: c’avevano visto lungo. Dopo 2 anni, infatti, con la scusa sempre di dover riportare l’ordine in mezzo a un’altra ondata di proteste, forze armate regolari e RSF – di comune accordo – inscenano un altro golpe militare ed estromettono completamente le forze civili dal governo che, però, c’hanno la testa dura. E dopo l’ennesimo golpe hanno deciso di tornare al tavolo dei negoziati mentre, come ricorda Peoples Dispatch, manifestazioni oceaniche in tutto il paese si moltiplicavano al suono di “Nessun negoziato, nessun compromesso, nessuna partnership”. Come avrebbe dichiarato Fathi Elfadl del partito comunista sudanese – sempre a Peoples Dispatch – “l’Egitto e l’Arabia Saudita sostengono Burhan. Gli emirati sostengono Hemeti. Ma entrambi vogliono un regime militare in Sudan, anche se con strutture gerarchiche diverse”. Insomma, un puro e semplice scontro tra fazioni diverse che, tra l’altro, sono anche unite dalla matrice etnica: sia Burhan che Hemeti, infatti, sono espressione della maggioranza araba e un bello scontro diretto – per entrambi – è un’ottima occasione per portare avanti la pulizia etnica della minoranza nera africana, com’è accaduto due settimane fa.
Siamo ad Ardamata, una delle città satellite di El Geneina, la capitale del Darfur occidentale (uno dei tre stati che costituiscono la regione del Darfur): qui si trova l’ultimo campo profughi che accoglie le persone fuggite dalla città durante le carneficine degli ultimi 20 anni; creato nel 2004, ospitava oltre 40 mila membri della tribù locale di agricoltori neri africani Masalit che, il 13 novembre scorso, sono stati attaccati dalle milizie dell’RSF che, secondo Peoples Dispatch, avrebbe causato “almeno 1.300 vittime”. “Con questo attacco” scrive su Peoples Dispatch Pava Kulkarni, uno dei pochissimi giornalisti a continuare a provare a tenere accesi i riflettori su questa gigantesca tragedia, “tutte le persone sfollate durante la guerra civile in Darfur negli anni 2000, e testimoni dei crimini commessi allora, sono state cacciate dalla capitale dello Stato del Darfur occidentale dalle forze paramilitari di supporto rapido”. Kulkarni ricorda come, fino a prima dell’aprile scorso, intorno ad El Geneina ci fossero la bellezza di 135 campi di sfollati che ospitavano oltre 220 mila persone, campi che – ricorda Kulkarni – “erano stati oggetto di crescenti attacchi già prima della guerra, quando i capi della SAF e della RSF guidavano insieme la giunta militare rispettivamente come presidente e vicepresidente”. Con lo scoppio del conflitto, però, la situazione è definitivamente degenerata e “Tutti i campi di Geneina sono stati distrutti nei sette mesi successivi all’inizio della guerra”; “A Geneina non sono rimasti più sfollati interni della guerra civile” avrebbe dichiarato a Kulkarni Muhammad Almaldin, attivista locale per i diritti umani; “Sono tutti fuggiti oltre il confine, nel vicino Ciad”. Pulizia etnica riuscita, e ora è il momento della sostituzione: “la RSF” avrebbe affermato ancora Almaldin “sta portando qui le tribù arabe che le sostengono per ripopolare Geneina. Vengono importati da diverse parti del Sudan e anche dai vicini Ciad, Niger e Repubblica Centrafricana”. E non è solo questione di Geneina: “Gli sfollati” sottolinea Kulkarni “sono stati costretti a lasciare anche la maggior parte dei campi nel resto del Darfur occidentale. Attualmente” continua “ne rimangono soltanto 7, e sono tutti circondati da milizie affiliate all’RSF” ma – soprattutto – sono l’inferno in terra. “Non ci sono più né cibo né acqua, né strutture igieniche” avrebbe dichiarato Almaldin; “le ONG internazionali che gestivano questi campi operavano da Geneina. Ma i loro uffici e i loro magazzini sono stati attaccati e saccheggiati dalle milizie dell’RSF, e ora sono tutti fuggiti”. Secondo Almadin, solo nel Darfur occidentale sarebbero state uccise oltre 10 mila persone; negli altri due stati del Darfur la situazione, per ora, sembrerebbe leggermente meno drammatica.
Più che di vera e propria pulizia etnica, si tratterebbe di vittime civili rimaste coinvolte in scontri a fuoco tra forze regolari ed RSF a centinaia, ma potrebbe essere solo l’antipasto: gli occhi, adesso, sono puntati su El Fasher, la capitale del Darfur settentrionale ancora sotto il controllo delle forze armate regolari e da dove i cittadini – e in particolare la minoranza africana – se l’è data a gambe per evitare di finire nel mezzo agli scontri tra le due fazioni. Risultato: i campi profughi alla periferia della città oggi ospitano oltre 500 mila profughi. “Se l’RSF prendesse il pieno controllo anche di El Fasher” denuncia un rapporto pubblicato dal Sudan Transparency and Policy Tracker “si verificherebbe una grave catastrofe umanitaria, anche nelle aree che per ora sono considerate sicure” e non solo per gli sfollati di El Fasher “che viene utilizzata come hub per fornire medicine, cibo e carburante anche alle popolazioni di tutti gli altri stati del Darfur” continua il rapporto, e “tutto questo potrebbe essere interrotto se l’RSF prendesse la città”, cosa che potrebbe essere più vicina del previsto: “il nostro obiettivo è il controllo dell’intero Darfur” avrebbe dichiarato il fratello e vice di Hemeti. Come riporta giustamente Nigrizia, è “la prima volta dall’inizio del conflitto”.
L’avanzata dell’RSF nel Darfur avrebbe addirittura spinto alla creazione di una stranissima alleanza; lo riporta sempre Nigrizia: “I due principali gruppi armati del Darfur entrano in guerra” titola. Durante una conferenza stampa a Port Sudan che si è tenuta lo scorso 16 novembre, il Movimento di liberazione del Sudan e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza – riporta Nigrizia – “hanno annunciato congiuntamente il loro coinvolgimento attivo a fianco dell’esercito contro l’RSF”; un necessario patto col diavolo: due gruppi, infatti, sono stati tra i principali protagonisti della resistenza nel 2003 contro i piani di pulizia etnica in Darfur (sostenuti proprio dal governo centrale) che oggi, però, è diventato il male minore. A portare avanti la pulizia etnica infatti – concretamente – non era stato l’esercito regolare sudanese ma, appunto, le milizie arabe filo – governative dei janjaweed guidate, allora, proprio da Hemeti, e che oggi come capo dell’RSF starebbe – appunto – riproponendo lo stesso identico copione: “In risposta alla minaccia delle RSF all’unità del Sudan e ai loro ripetuti assalti contro città, villaggi e civili indifesi, con conseguenti vittime e sfollamenti” si legge nella dichiarazione congiunta “rinunciamo ad ogni neutralità”.
Non sono i primi a turarsi il naso e a scendere al fianco delle forze regolari: “Gli attivisti democratici radicali che hanno dovuto affrontare una violenta repressione per mano dell’esercito sudanese” riportava – già il settembre scorso – Mohammed Amin su Middle East Eye “stanno combattendo ora al fianco dell’esercito contro l’RSF”.

Omar al-Bashir

Ecco così che, magicamente, “Gruppi democratici radicali che hanno spodestato l’ex autocrate Omar al-Bashir” continua Amin “andranno in battaglia insieme a giovani combattenti legati al movimento islamico sudanese che invece lo hanno sempre sostenuto”. “Siamo ancora contro i massimi generali dell’esercito e contro il vecchio regime, ma crediamo che l’esercito debba servire l’intera popolazione sudanese ed è dovere dell’esercito nazionale proteggere il popolo” avrebbero affermato i comitati di resistenza di Khartoum in una recente dichiarazione; nonostante tutte le buone intenzioni del mondo potrebbe non bastare: “Quando scoppiò la guerra molti prevedevano lo stallo” scrive l’Economist, “ma attualmente l’RSF sta vincendo”. Nonostante le forze regolari controllino, ad oggi, il grosso delle terre più fertili e il commercio petrolifero attraverso lo sbocco sul mar Rosso di Port Sudan “l’RSF” ricorda l’Economist “controlla le miniere d’oro, il confine con il Ciad, e sta estendendo il suo controllo sulla pipeline che arriva dal Sudan del sud, dalla quale il governo di Khartoum dipende per le tariffe di transito”.
Come ha fatto l’RSF a guadagnare così tanto terreno? “In gran parte” sottolinea l’Economist “dipende dal diverso sostegno che gli outsider hanno dato alle due parti”: “Gli Emirati Arabi Uniti (EAU)” infatti, continua l’Economist “forniscono alla RSF armi, veicoli corazzati e droni attraverso il Ciad. Secondo un conteggio ci sarebbero stati 168 trasporti aerei dagli Emirati Arabi Uniti tra maggio e settembre, e il tutto nonostante nei confronti del Darfur dall’inizio degli anni 2000 sia in vigore un embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite”. Dall’altra parte, invece “l’Egitto” riporta sempre l’Economist “avrebbe fatto molto meno degli emirati”: lo scenario più probabile, continua l’articolo, sembrerebbe quello di una soluzione in stile libico, col paese diviso in due e il Nilo a fare da frontiera, ma anche una soluzione del genere difficilmente metterebbe fine alle ostilità. Hemeti e i suoi sostenitori emiratini difficilmente si accontenterebbero di un territorio senza sbocco al mare e d’altronde, per quanto l’RSF possa continuare a vincere numerose battaglie, “difficilmente il suo controllo si estenderà a tutto il paese”. Le forze regolari difficilmente potranno essere totalmente spazzate via, così come la miriade di milizie e di gruppi di ribelli che infestano il paese: “Cameron Hudson, un ex funzionario americano” riporta l’Economist “immagina uno scenario in cui decine di milioni di sudanesi fuggono attraverso il continente e il mar Rosso per sfuggire alla caduta del paese in mano ai signori della guerra e alla violenza delle milizie etniche”. D’altronde la comunità internazionale è in ben altre faccende affaccendata ed è piuttosto difficile credere che troverà la motivazione giusta per andarsi a impelagare in questo rompicapo: “il Sudan è morto” ha affermato laconicamente Nathaniel Raymond dell’Università di Yale “e nessuno si è nemmeno preso la briga di scriverne il necrologio”.
Ma – al di là della cronistoria di questo ennesimo, tragico conflitto – qual è la dinamica profonda che, da decenni, impedisce di trovare una soluzione pacifica ai millemila conflitti che attraversano il corno d’Africa? Per sapere la risposta vi toccherà guardarvi la seconda parte di questo video e magari, nel frattempo, pure mettere mano al portafoglio perché – non so voi, ma a me questa storia che ci sono morti ammazzati di serie a e di serie b non è che mi va tanto giù, e che una tragedia del genere passi totalmente sotto silenzio – escludendo, così, a priori che nell’opinione pubblica si smuova qualcosa che impedisca alle nostre classi dirigenti di girarsi dall’altra parte – sinceramente mi fa un po’ schifo. Oddio… visto cosa combinano quando decidono di metterci mano, tutto sommato forse è pure meglio così: però ecco – insomma – credo ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte, in grado di raccontare in modo sensato tutta ‘sta monnezza, e magari anche di raggiungere un pubblico numericamente decente. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari