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Tag: cultura

Andrea Zhok – L’Occidente sta collassando dall’interno e per questo vuole la guerra

Le ex democrazie occidentali non son minacciate dall’esterno, ma dall’interno: dal potere oligarchico sempre più illiberale, dalla distruzione dello stato sociale, e della crisi demografica. Questa crisi interna si riversa all’esterno aumentando il caos internazionale e tentando le nostre elitè dal risolvere queste contraddizioni attraverso la guerra, come successo nella prima guerra mondiale. La cultura e l’economia neoliberista sono il sintomo di questo lento ma pericolosissimo declino.

Italia per sempre schiava? Come la sindrome del suddito si è impossessata del nostro Paese

Nel nuovo mondo multipolare e con il prossimo disimpegno politico e militare americano in molte aree a noi vicine, enormi possibilità e opportunità si aprono per il nostro paese – opportunità che, però, rischiamo di non cogliere a causa di una grave malattia che ormai ci affligge da decenni, la malattia forse più grave che possa colpire una comunità nazionale: è la cultura del vincolo esterno – o anche detta la sindrome del suddito – e, cioè, l’idea che gli italiani sarebbero incapaci per natura di autogovernarsi, che la nostra salvezza dipenderebbe sempre da un salvatore esterno e che, in fondo, il nostro destino non può che essere quello di essere colonie di un qualche superpotenza a cui bisogna leccare il più possibile i piedi nella speranza di ricevere in cambio un affettuoso gesto di approvazione.

Ovviamente non c’è nessuna ragione storica e culturale per pensare che questo debba essere il nostro destino, anzi! Gran parte della nostra storia ci dice l’esatto contrario; ed è però il classico esempio di profezia che si autoavvera: più noi la pensiamo così, più diventiamo davvero sempre più incapaci di mobilitarci e trasformare le cose ed educhiamo intere generazioni a disprezzare lo Stato, a respingere la propria comunità e a non lottare per i propri diritti al lavoro, alla casa, alle cure… È, questo, il risultato più preoccupante di 70 anni di dominio militare e culturale americano e degli anni di egemonia culturale della finta sinistra esterofila e anti – italiana della ZTL, ossia l’aver interiorizzato la mentalità dei servi a tal punto da pensare che la nostra incapacità di governare sia una nostra caratteristica antropologica, nonché l’avere sviluppato una vera e propria fobia nei confronti dell’indipendenza e della libertà. Nel suo ultimo articolo pubblicato su Limes, Il vincolo esterno (non) è un destino, Giuseppe De Ruvo, filosofo e analista geopolitico, ripercorre la storia e le ragioni di questo mito tutto italiano e ci indica anche possibili vie per finalmente liberarsi da questa atmosfera tossica e autodistruttiva, utile solo a chi, tra le oligarchie economiche nostrane e le potenze straniere, si approfitta della nostra ignoranza e inconsapevolezza nazionale.
Con la crisi dell’impero americano e l’emergere di nuove potenze che stanno trasformando il mondo, per il nostro paese – così come per tutti i paesi europei – si aprono spazi geopolitici e geostrategici prima impensabili che nuove classi dirigenti che si lasciassero, finalmente, alle spalle gli ultimi 30 anni di politiche suicide, potrebbero sfruttare. La prossima vittoria di Trump, in particolare, potrebbe segnare la definitiva scelta di campo americana riguardo alle proprie priorità strategiche e, cioè, quella di concentrare tutte le risorse e mezzi possibili nell’Asia – Pacifico in ottica anticinese, disimpegnandosi cosi in Europa e lasciandoci maggiore margine di manovra. In aree come il Medioceano e il Mediterraneo – fondamentali per la nostra sopravvivenza – l’Italia avrebbe, ad esempio, tutte le potenzialità per imporsi come importante soggetto regionale; inoltre, l’espulsione della Francia dalle sue colonie africane ci candida automaticamente a potenziale soggetto geopolitico eurafricano: “Non avendo un passato coloniale paragonabile a quello francese” scrive De Ruvo “potremmo proporci come partner alla pari dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci in inaggirabile hub energetico e logistico.” Infine, la profonda crisi economica e industriale tedesca potrebbe aprire degli spiragli per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità e il pareggio di bilancio in Costituzione; precondizione fondamentale per sfruttare queste opportunità è, però, lasciarci alle spalle la cultura esterofila ed autodistruttiva del vincolo esterno che è, oggi, un’atmosfera culturale che mina alla base i fondamenti e i legami della nostra comunità democratica, delegittimando l’idea stessa di Stato e nazione italiana, anche perché ad essere più colpite da questa atmosfera – che si ripercuote in un’opinione pubblica e in una classe dirigente collaborazionista con chi, di questo stato di cose, se ne approfitta – sono, come sempre, le classi popolari, ossia le classi che hanno di più da perdere dall’indebolimento dello Stato, dalle politiche predatorie delle oligarchie economiche nostrane e delle potenze straniere che si approfittano di questa debolezza – e dal venir meno dei legami comunitari.

Giuseppe De Ruvo

Il problema fondamentale però, riflette De Ruvo, è che dopo la seconda guerra mondiale l’Italia ha sostanzialmente basato la sua costituzione geopolitica sul concetto stesso di vincolo esterno: “Abbiamo sovrapposto i nostri interessi a quelli americani e a quelli europei” scrive De Ruvo “convinti che gli altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Abbiamo creduto all’ideologia della Pax Americana più degli americani stessi, nonostante – dopo la fine della guerra fredda – il nostro estero vicino abbia conosciuto più volte la guerra (Jugoslavia e Libia). Abbiamo considerato l’Unione Europea un fine in sé, mentre tutti gli altri la trattavano per quello che è: un utile mezzo per promuovere specifici interessi nazionali.” In più, in preda ad uno strano delirio masochistico, invece di porci come obiettivo la nostra rinnovata auto – determinazione, nel nostro immaginario abbiamo associato ai soggetti del nostro vincolo esterno tutte le qualità positive che a noi non apparterrebbero e, quindi, da una parte noi siamo populisti e incompetenti e, dall’altra, l’Unione Europea è neutra e competente; e quindi, da una parte, il nostro stile di vita è retrogrado e provinciale e, dall’altra, lo stile di vita americano è invece assolutamente desiderabile. Insomma: secondo questa moda culturale esterofila, che nella storia ritroviamo spesso in comunità occupate e colonizzate, l’Italia dovrebbe essere un paese fondamentalmente passivo che, per salvarsi, deve affidarsi a mani più sagge e competenti e questo perché i padroni benevoli saprebbero sicuramente fare il nostro interesse nazionale meglio di noi.
L’esperienza del fascismo ha giocato sicuramente un ruolo fondamentale in tutto questo e negli anni successivi alla caduta del regime si assiste addirittura alla diffusione di tesi sull’illegittimità storico – politica del popolo italiano: “Nel dopoguerra” scrive De Ruvo “il ventennio fascista era visto come una macchia indelebile, che poteva essere lavata solo in due maniere: o considerandolo un qualcosa di estraneo, una parentesi, o legandolo indissolubilmente a una certa italianità che andava estirpata e rimossa […]; la prima – crociana – è caratterizzata dal rifiuto di storicizzare il fascismo, mentre la seconda lega, in qualche modo, l’esperienza fascista a una certa antropologia, al modus vivendi dell’homo italicus, caratterizzato dall’indifferenza e dal me ne frego e, secondo questa prospettiva, per evitare che il mitologico fascismo eterno alla Umberto Eco torni a impossessarsi degli italiani, ci sarà sempre bisogno di un vincolo esterno capace di limitare i nostri istinti più bassi e accompagnarci per mano in un futuro migliore. Come ha scritto anche l’ex governatore di Banca Italia Guido Carli nelle sue memorie, la progressiva adesione del belpaese ai vincoli europei “nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo paese”.
Arrivati a questo punto, l’errore – quindi – più grave che possiamo fare è quello di interpretare queste leggende metropolitane sull’italianità tossica e sulla nostra incapacità di governarci, diffusesi in questa precisa congiuntura storica a causa dal nostro status coloniale, come tratti antropologici eterni del nostro carattere nazionale; purtroppo capita spesso, invece, di sentire anche in televisione qualche intellettuale un po’ snob riempirsi la bocca con esempi storici per dimostrare che l’Italia è sempre stata terra di conquista e di gente egoista e pavida, sempre felice di sottostare a quella o quell’altra dominazione straniera. Ma senza scomodare l’impero romano – che può sembrare un esempio iperbolico – in epoca contemporanea basta pensare al periodo risorgimentale in cui migliaia di persone sono morte per la nostra libertà e indipendenza, o anche alla prima parte del novecento, per capire che in realtà si tratta di pura ideologia funzionale ad interessi ben precisi, un’ideologia che però, grazie alla nostra classe di intellettuali e politici collaborazionisti, è diventata quasi una sorta di pedagogia anti – nazionale propinata fin dalle scuole primarie.
Infine, la cosa che più di tutte forse dovremmo infilarci in testa è che non esistono padroni benevoli, non esistono vincoli buoni: esistono solo padroni che fanno i loro interessi che ogni tanto, per puro caso e per un periodo di tempo limitato, possono anche coincidere con i nostri. Ma, alla lunga, credo basti il buon senso per capire che una comunità non libera di perseguire i propri interessi nei modi e con i mezzi che ritiene più opportuni non può che andare incontro alla propria distruzione. Per uscire da questa atmosfera culturale decadente e corrosiva, De Ruvo indica alcune questioni da affrontare in maniera dirimente: “Intanto, l’Italia deve tornare a definire chiaramente i propri interessi nazionali e non può più permettersi di rinunciare alla sua sovranità nella (in)fondata speranza che anche gli altri lo facciano.” Scrive De Ruvo “[…] Non possiamo più nasconderci dietro alla foglia di fico dell’Europa o affidarci toto corde al Veltro americano: abbiamo dei chiari interessi nazionali dai quali dipendiamo esistenzialmente e dobbiamo avere la capacità di farli rispettare”; inoltre, continua, “Gli italiani devono prendere coscienza della loro unità e uniformità nazionale. È incomprensibile che gli abitanti del belpaese si considerino più disuniti dei francesi o dei tedeschi. Questo dato è semplicemente falso: per cultura, modo di vivere e di stare al mondo gli italiani sono molto più uniti di quanto amino raccontarsi.”
Come ci ha insegnato Marx, la cultura di una collettività dipende, in gran parte, dalla sua struttura politico – economica in quel determinato momento storico ed è quindi prima di tutto su questo piano che la nostra battaglia deve indirizzarsi per cambiare le cose; ma anche l’informazione e il senso comune possono giocare la propria parte nello sfatare ideologie false e autodistruttive e su questo tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo fare la differenza: la lotta di classe, infatti, si unisce oggi inevitabilmente anche alla lotta per l’indipendenza nazionale ed europea, senza la quale rischia di annacquarsi in un astratto internazionalismo. Per vincere avremo bisogno di un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda delle oligarchie americane e dei nostri intellettuali collaborazionisti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

Antrop8lina – Alla scoperta della civiltà nuragica ft. Anna Depalmas

Oggi ad Antrop8lina con Anna Depalmas (docente di archeologia presso l’Università di Sassari) parliamo della civiltà nuragica, approfondendo gli aspetti materiali, socio-culturali e religiosi. Come vivevano gli antichi sardi? E come è cambiata la produzione economica? La società era gerarchizzata o di base egualitaria? Lo scopriremo oggi insieme alla nostra ospite.

Antrop8lina, con Gabriele Germani – GLI IMPERI

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Carissimi Ottoliner, dopo l’introduzione di ieri…prima puntata di ANTROP8LINA, il nuovo format di antropologia, storia e archeologia a cura di Gabriele Germani. Hai sempre pensato a GLI IMPERI come qualcosa di repressivo e brutale? Ma l’impero del passato ha a che fare con il moderno IMPERIALISMO? Ma IMPERIA è la sorella degli IMPERI? IMPERI…scopritelo su r̵i̵e̵d̵u̵c̵ ANTROP8LINA!

Che cosa è l’ideologia Woke?

In questi mesi sentiamo sempre più spesso parlare di ideologia o cultura Woke. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione, e c’è chi invece la considera una forma di progresso morale e spirituale dell’umanità. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della sinistra occidentale?In questo video ripercorreremo le sue origini, vedremo i suoi indirizzi politici di fondo e cercheremo di capire se oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice ve ne sono anche altre, più sensate, che ne mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con il potere neoliberale.
Woke, e cioè – letteralmente – “sveglio”, almeno abbastanza per individuare e denunciare le ingiustizie sociali, a partire da quelle razziali: il termine Woke, infatti, entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: meriterebbero un video ciascuno, e ci ripromettiamo di farlo; qua invece ci limiteremo a provare a capire se sia rintracciabile un indirizzo di fondo comune e, soprattutto, le ragioni dell’uso in parte strumentale che di questa ideologia viene fatto oggi.
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni ’70 nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana; un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. Ed è infatti soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento; dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.

Vincenzo Costa

Ma al di là del generale Vannacci e compagnia bella, in questi anni anche tanti intellettuali di ben altro spessore hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche Woke più superficiali e antiscientifiche e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti: nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova cultura; maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto: come scrive la giornalista Florinda Ambrogio “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde; nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere; dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99 per cento, quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute – senza appello – verminaio di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”: diventa quindi chiaro perché, dalla prospettiva degli ultimi, la nuova sinistra alla moda politicamente corretta appaia spesso come una tribù di sedicenti illuminati con il culo parato che, demonizzandone lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie idee e valori di nicchia; ma, come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. È evidente come nelle rivendicazioni della classe operaia in Inghilterra, ad esempio, le classi popolari non chiedevano di essere rieducate da un’aristocrazia morale e intellettuale perlopiù estranea alle loro condizioni di vita, ma giustizia sociale e diritto alle proprie forme di legame; “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” scrive il filosofo sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, questi nuovi intellettuali di sinistra non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” continua Costa in Le categorie della politica “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il filosofo Andrea Zhok, nel suo libro La profana inquisizione e il regno dell’Anomia, commenta così questo curioso caso di ingegneria linguistica: “Contro ogni evidenza è stata gabellata l’idea che gli usi tradizionalmente al maschile di certe parole creino l’aspettativa che a rivestirle sia un maschio, operando perciò come ostacolo all’emancipazione femminile. L’evidenza linguistica primaria che il significato sia determinato dall’uso è stata rimossa. Si è preferito pensare che i rapporti sociali effettivi (da cui dipendono gli usi linguistici), possano essere mutati riformando le desinenze. […] che nessuno chiamando una “guardia giurata” si aspetti un’apparizione muliebre con rossetto e tacchi a spillo è ritenuto accidentale. Che nessuno si stupisca se la “maschera” a teatro sia un giovanotto nerboruto è ritenuto trascurabile. Che fino all’altro ieri quando si parlava di “valutazione degli studenti” tutti avessero in mente l’insieme del corpo studentesco, a prescindere da questioni di genere, è invece certamente segno della rimozione di un inconscio segno di superiorità maschile”. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di discriminazione ed emancipazione appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Partiamo intanto dal presupposto che è ampiamente dimostrato come, nelle società capitaliste, il principale motore di diseguaglianza e discriminazione sociale sia il “capitale pregresso”, ossia la disponibilità economica familiare e individuale; questa disparità di capitale si ripercuote su tutti i livelli: sulla formazione, sul riconoscimento pubblico, sull’accesso a posizioni di potere politico ecc. ecc. Anche tutte le differenze di genere, etnia, colore, ecc. diventano praticamente impalpabili e irrilevanti per chi possiede significative disponibilità economiche e, più in generale, più in alto si sale nella scala sociale; questo dato conclamato viene però sistematicamente rimosso dal tavolo facendo finta che non esistano variabili economiche e creando una guerra tra poveri su questioni di genere, etnia, orientamento sessuale o altro. Insomma: mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza – e già la cosa comincia un po’ a puzzare; per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Zhok. Si spiega così come sia stato possibile che un movimento culturale minoritario legato alla mancata rivoluzione del ’68 sia potuto diventare una componente egemonica della società contemporanea, e la ragione sta nella sua compatibilità con le funzionalità al regime neoliberale: per prima cosa, la funzionalità dello wokismo sta nel fatto che, nella gerarchia dei temi da trattare, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale, la perdita di sovranità democratica vengono surclassate, nella presentazione e nell’agenda pubblica, dallo scandalo di cronaca su questo o quell’abuso patriarcale e discriminatorio e può pertanto ben funzionare da distrazione di massa; in secondo luogo, l’impianto Woke promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale ecc. viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati più fanatici della nuova sinistra Woke “l’altro è l’inferno.”

Carl Rhodes

Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili: dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”; l’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici. E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti.
Per concludere vorrei infine citare Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici dell’ideologia Woke ante-litteram; nel 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato, avendo capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico, così scriveva sul Corriere della Sera: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
I diritti civili e la lotta contro ogni forma di discriminazione sono una parte fondamentale del processo di emancipazione dei subalterni: serve come il pane un vero e proprio media che ci aiuti a sottrarle dalle strumentalizzazioni operate dalle oligarchie, per riportarle ad essere strumenti di lotta a favore del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il Generale Vannacci

HOLLYWOOD È FALLITA (e anche la Cina se la passa malino)

Svolta storica: sì all’Ucraina in Europa”; Zelensky: “una vittoria per tutti”; dopo una lunga sequenza di pessime notizie, venerdì mattina le redazioni di tutti i principali quotidiani italiani si sono svegliate con l’oro in bocca. Ma quale fallimento dell’Ucraina? Popo’ di gufacci maledetti!
A ringalluzzire i sogni bagnati di una propaganda alla disperata ricerca di uno spillo di buone notizie in un pagliaio di schiaffi a doppia mano, è il sì definitivo all’inizio dei negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea: “E’ molto semplice” scrive gasatissimo l’impareggiabile Iacoboni sul suo profilo Twitter; “L’Ucraina sta combattendo per le democrazie, e dunque il suo posto è nel consesso più alto delle democrazie, l’Europa”. “Il vero sconfitto è Putin” scrive Il Giornale; “politicamente distrutto” e, fra poco, anche militarmente: “Sul campo” infatti, ammette Il Giornale, “la storia sarà ancora lunga e complessa. Ma il vento è cambiato per davvero.”
Mi sa che hanno cantato vittoria un po’ troppo presto: mentre i nostri giornalai, infatti, erano a fare bisboccia dopo aver chiuso queste edizioni trionfalistiche, a Bruxelles la festa si trasformava repentinamente nel solito vecchio corteo funebre. E così, quando venerdì mattina ci siamo messi a fare la solita rassegna stampa quotidiana, ci siamo trovati di fronte a questo scenario schizofrenico: da un alto la propaganda italica che stappava lo spumante per l’Europa che finalmente risollevava definitivamente le sorti ucraine; dall’altro, sui media internazionali: “L’UE non sostiene gli aiuti all’Ucraina” (Bloomberg); “L’Ungheria blocca gli aiuti all’Ucraina” (New York Times); “L’UE non riesce ad approvare un pacchetto di finanziamenti da 50 miliardi di euro per l’Ucraina” (Financial Times).
Quasi a presa di culo, infatti, immediatamente dopo la chiusura degli inutili giornali italiani Orban si era preso la sua rivincita e aveva messo il veto all’approvazione del bilancio, pacchetto di aiuti all’Ucraina compreso; insomma, nell’arco di poche ore l’Unione Europea aveva salvato il culo all’Ucraina a chiacchiere, per poi lasciarla precipitare nell’abisso nei fatti e quello che pochi minuti prima Iacoboni – nel suo solito italiano non esattamente brillantissimo, diciamo – aveva definito il consesso più alto delle democrazie ecco che, nel suo stesso profilo, diventa magicamente un’organizzazione disfunzionale con un bisogno disperato di cambiare radicalmente le sue regole. Dai, coerente!

Lucio Caracciolo

Ora, avremmo potuto decidere di ricamarci sopra per una settimana, anche perché la bocciatura del pacchetto di aiuti europei arriva poche ore quella degli aiuti USA e rischia veramente di mettere fine a tutti i giochi in modo ancora più drastico e drammatico di quanto non andiamo sostenendo su questo canale da un po’ di tempo a questa parte: per tutti questi aspetti vi rimando all’intervista di martedì (19 dicembre 2023 n.d.r) alle 18.30 con Lucio Caracciolo, uno dei pochissimi che, pur ostinandosi – per lo meno – a non vivere nell’universo parallelo della propaganda più surreale, continua ancora ad essere accolto nei salotti buoni dei media che contano e che, sempre venerdì, ancora prima che si sapesse del blocco del pacchetto di aiuti della UE, aveva invitato dalle pagine de La Stampa a una doccia di realismo. “Kiev è uno stato fallito” aveva dichiarato; “Zelensky ha perso e non recupererà i territori. E a pagare il conto saranno gli europei”. Ecco: con grande gioia degli analfoliberali tutto questo, per adesso, lo rimandiamo e – invece – ci concentriamo su un altro aspetto, e cioè l’annosa domanda “quanto a lungo ancora e fino a che punto siamo ancora disposti a farci prendere così sfacciatamente per il culo?”. E non intendo in particolare sull’Ucraina, o sulle beghe dell’Unione Europea… No, no: intendo proprio in generale, cioè quanto distaccata dalla realtà deve diventare la narrazione che cercano di rifilarci prima che – non dico io o gli ottoliner – ma, in generale, il grosso della gente comune si rompa definitivamente i coglioni? E dopo mezzo secolo di colonialismo culturale a stelle e strisce e di involuzione antropologica dettata dalla controrivoluzione neoliberista, è ancora possibile immaginarsi un’alternativa radicale? E da dove potrebbe nascere?
In questa incredibile fase storica nella quale il declino relativo dell’Occidente globale e dell’egemonia USA sta attraversando un’accelerazione spaventosa al di là di ogni previsione e da sostanzialmente tutti i punti di vista, c’è un aspetto in particolare dove, invece, si fa fatica a vedere anche solo il barlume di una possibile alternativa: quello che c’abbiamo nella capoccia. Nei meandri delle reti neuronali che c’abbiamo nel cervello, l’uomo nuovo partorito da 50 anni di controrivoluzione neoliberista continua a regnare incontrastato nonostante i segnali che arrivano continuamente dal mondo empirico non facciano altro che indicargli che, proseguendo in questa direzione, va contro i suoi stessi interessi, compreso quello primario di conservazione della specie; la propaganda e il lavaggio del cervello hanno sconfitto addirittura la biologia. D’altronde non dovrebbe sorprendere più di tanto.
A mettere a repentaglio l’ordine costituito in campo militare, politico ed economico – infatti – non è qualche movimento di massa o qualche partito politico nato nel cuore delle nostre società, ma l’ascesa inarrestabile degli stati sovrani del Sud globale che rivendicano con forza il loro posto nel mondo e che sempre di più hanno la forza materiale per farlo, a partire dalla Cina che però, nonostante gli incredibili successi su ogni fronte – diplomatico, economico, tecnologico -, dal punto di vista del soft power dire che arranca è un eufemismo. Intendiamoci: nelle ristrettissime cerchie delle persone più politicizzate sono stati fatti passi avanti considerevoli; quando ho cominciato ad appassionarmi alla Cina io, ad esempio (ormai un po’ più di una quindicina di anni fa), in Italia a non considerarla un inferno turbocapitalista – patria mondiale dello sfruttamento e dell’abbrutimento più distopico – eravamo veramente una manciata di persone. 15 anni dopo, tra le persone dotate di qualche neurone e che non sono proprio spudoratamente razziste e suprematiste, quella visione caricaturale degna della peggiore propaganda maccartista è diventata piuttosto minoritaria, e si è fatta strada – per lo meno – una qualche forma di rispetto e anche di curiosità ma, ciononostante, la Cina rimane ancora ben lontana dall’insinuare nei cuori delle popolazioni del Nord globale qualcosa di comparabile al sogno americano ma con caratteristiche cinesi. Certo, a pesare c’è sicuramente anche un dato materiale macroscopico: per quanto la Cina sia già oggi di gran lunga la prima potenza economica mondiale, tutta questa ricchezza è comunque distribuita in una popolazione che è oltre 4 volte superiore a quella USA che, tradotto, significa che la Cina – da tanti punti di vista – è ancora oggi un paese in via di sviluppo con un tenore di vita medio ancora lontano dagli standard più elevati del Nord globale, anche se con sempre più eccezioni. Il sogno americano, in buona parte, altro non è che l’ambizione di avere un posto a tavola nel posto più ricco dell’Occidente, ma ridurre tutto a questo aspetto potrebbe essere fuorviante; un ruolo rilevante, senza dubbio, ricopre – infatti – proprio la capacità di conquistare il nostro immaginario e, da quel punto di vista, i fallimenti della Cina sono talmente ampi ed evidenti da non poter essere liquidati con un’alzata di spalle – e non certo perché, anche su questo fronte, la secolare egemonia USA e del suo modello non presenti sempre più crepe.

Il logo di Netflix

Ne abbiamo parlato in dettaglio in un video giusto l’altra settimana: partendo da un’analisi dell’incredibile popolarità che stanno riscuotendo i contenuti di ogni genere a sostegno della causa palestinese sulle piattaforme social – o, per lo meno, su quelle che come TikTok non cercano di reprimere il fenomeno con varie forme di censura più o meno esplicite – abbiamo sottolineato come la spietata logica capitalistica applicata all’industria dell’intrattenimento abbia comportato un processo di concentrazione talmente feroce da ridurre gli attori veramente significativi addirittura appena a un paio. Risultato? Stiamo sempre più incollati davanti a qualche forma di schermo ma le cose che vediamo sono sempre più uguali tra loro: le migliaia di serie che Netflix sforna senza soluzione di continuità sono sostanzialmente indistinguibili tra loro, e il 50% degli incassi al botteghino ormai sono destinati ad appena una decina di film l’anno – e sono tutti sequel di storie inventate decenni fa; per continuare a colonizzare con successo il nostro immaginario, un po’ pochino. La forza prorompente che ha permesso agli USA di colonizzare culturalmente il grosso del pianeta, infatti, si è sempre fondata anche sulla capacità di riassorbire al suo interno una gigantesca varietà di messaggi, compresi quelli più critici; banalizzando, è un po’ la logica espressa magistralmente da due grandissimi intellettuali italiani che, come pochi altri, incarnano alla perfezione lo spirito dei tempi: Nathalie Tocci e David Parenzo. Ve li ricordate?
Di fronte a chi gli ricordava gli innumerevoli crimini di guerra commessi dal mondo liberale e democratico negli ultimi decenni, la risposta – a suo modo geniale – era che “almeno noi poi ne discutiamo, e facciamo autocritica”. Ecco; la forza della narrazione hollywoodiana è, in buona parte, sempre stata esattamente questa: anche gli USA e il mondo democratico in generale è attraversato da terribili ingiustizie, ma la forza del modello liberaldemocratico è proprio che queste, immancabilmente, a un certo punto vengono sempre alla luce e alla fine il bene vince sempre, come Sylvester Stallone in Rocky IV. E’ esattamente la stessa logica che oggi guida tutta la retorica woke che permea ogni singola serie di un certo livello di Netflix o ogni produzione della Disney: certo, la nostra società è attraversata da mille tipi di discriminazione, ma a differenza dei regimi oscurantisti e totalitari noi ne parliamo apertamente e, alla fine, il processo democratico ci permette sempre di superarle. Perché, allora, parliamo di una crisi di questo potentissimo schema narrativo? Il punto è che la narrazione mainstream è sì in grado di riassorbire anche le voci più critiche, ma solo fino a quando queste critiche, ovviamente, non mettono in discussione alcuni principi fondamentali: la libertà, la democrazia – ovviamente sempre tutti rigorosamente declinati in chiave neoliberale. La versione annacquata dei diritti civili che vediamo nella propaganda di Netflix ha esattamente questa caratteristica: non solo non mette in discussione gli assi portanti del sistema neoliberista e imperiale, ma anzi, da un certo punto di vista, li rafforza; il problema, sembrano spesso suggerire, non è che ci sono troppo neoliberismo e troppo imperialismo, anzi! Paradossalmente, è che ce ne sono troppo pochi. Per mero interesse economico, le nostre classi dirigenti corrotte scendono a compromessi con la peggio feccia del pianeta: i dittatori cinesi, i tagliagole iraniani, i petrolieri, i trumpiani, ma le democrazie liberali – è il pensiero di fondo – hanno tutti gli anticorpi per reagire a questo declino morale; basta ridare agli individui la possibilità di farsi gli stracazzi loro e tornare a mostrare i muscoli contro l’asse del male ed ecco che la giustizia tornerà a trionfare.
Il problema però, a questo punto, è che di fronte alle plateali distorsioni che caratterizzano l’impero in declino e i suoi vassalli, aumentano le critiche che non sono più compatibili con questo schema pigliatutto distopico: con sempre più frequenza emergono critiche radicali al pensiero unico neoliberista che – per quanto in modo disarticolato e spesso anche sguaiato e inconcludente, se non addirittura all’insegna di ricette che sono anche peggio del male stesso – mettono comunque in discussione le fondamenta stesse dell’intera impalcatura e violano, così, le linee rosse dell’industria dell’intrattenimento. Queste critiche, invece di essere riassorbite, vengono escluse sistematicamente: ed ecco così che c’è un pezzo sempre più grande di società e di idee che nelle 25 mila milioni di serie sfornate da Netflix non trova nessunissima forma di rappresentazione; e se questo accade in modo consistente sotto i nostri occhi nelle nostre società che sono, ormai da decenni, totalmente colonizzate culturalmente, immaginiamoci quale possa essere la dimensione del fenomeno in quello che definiamo il Sud globale. E – mi pare evidente – non si tratta di qualcosa di passeggero legato a una singola crisi. Certo, il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini arabi a Gaza è senz’altro un evento a suo modo eccezionale che amplifica a dismisura questa frattura, ma il disallineamento tra la narrazione dell’impero egemone e pezzi sempre più consistenti di società va ben oltre, e sembra essere destinato ad aumentare in modo inesorabile.

Marcello Lippi quando allenava la nazionale cinese

Ora, questa condizione strutturale mi pare evidente che, potenzialmente, rappresenti un’occasione straordinaria proprio per la crescita del soft power cinese che però, incredibilmente, rimane al palo: perché? Sicuramente le ragioni sono molteplici. In alcuni casi, dei tentativi sono stati fatti: il caso più eclatante, probabilmente, è stato quello del pallone; Xi Jinping credeva talmente tanto nel ruolo del calcio come veicolo per aumentare il soft power cinese da averlo trasformato in un ambizioso progetto di portata nazionale, con soldi a profusione riversati in impianti all’avanguardia, accademie di ogni genere, ingaggi miliardari e chi più ne ha più ne metta, ma – a quasi 10 anni di distanza – il fallimento è plateale e universalmente riconosciuto, a partire dai cinesi stessi. E “Mentre la Cina pasticcia con le sue ambizioni calcistiche” riflette Han Feizi su Asia Times “ha anche lasciato cadere la palla sui suoi sogni di avere un impatto su altre arene culturali globali: film, musica, media. Dopo un decennio di massicci investimenti e supporto normativo” continua Feizi “la Cina non ha ancora né un suo K-Pop, né i suoi Pokemon, né i suoi K-drama, né la sua CNN. E certamente nessun universo cinematografico Marvel da esportare”. Alcuni attribuiscono questi fallimenti a un non meglio precisato torpore della creatività cinese che deriverebbe dalle restrizioni alla libera circolazione delle idee e al contrasto all’insorgere di ogni forma di pensiero critico tipico di ogni regime autoritario; nonostante si tratti di un aspetto non del tutto peregrino, sinceramente rimango un po’ scettico: per 10 anni ho sentito ripetere questo tipo di argomentazioni a supporto dell’idea che la Cina era sì bravissima a copiare, ma negata a inventare e a innovare; oggi i tassi di innovazione tecnologica cinese fanno letteralmente impallidire il resto del mondo e quelle argomentazioni si sono rivelate essere fondate più sul nostro suprematismo che non su un’analisi equilibrata e razionale della realtà. Inoltre, se è vero che l’industria dell’intrattenimento cinese non ha fatto breccia nei cuori dei consumatori globali, un discorso completamente diverso va fatto per il mercato interno: il mercato domestico dell’intrattenimento ha raggiunto dimensioni gigantesche e, in grandissima parte, è completamente in mano a produttori cinesi; secondo alcuni, in realtà, questo non sarebbe altro che il frutto del protezionismo cinese e sicuramente questo aspetto ha giocato un ruolo non marginale, ma – anche a questo giro – sono argomentazioni che ho già risentito.
Per giustificare l’affermazione dei giganti cinesi del web 2.0, appunto, il pensiero suprematista è sempre ricorso al tema del protezionismo che – intendiamoci, di nuovo – non è del tutto peregrino; la messa al bando, in Cina, dell’oligopolio delle piattaforme digitali USA è stata senz’altro una condizione fondamentale per la crescita e l’affermazione dei campioni nazionali, ma dopo 15 anni le piattaforme alternative cinesi non sono certo rimaste un fenomeno domestico: WeChat è la superapp all inclusive che tutti in Occidente vorrebbero imitare (senza successo) e TikTok è, senza dubbio, la piattaforma social tecnologicamente più avanzata di tutto il mercato. D’altronde – come sa benissimo qualsiasi storico dell’industria – il protezionismo è sempre una condizione necessaria per permettere a chi parte svantaggiato di affermare i suoi campioni nazionali: non esiste sostanzialmente al mondo grande gruppo industriale che non si sia affermato grazie a una prima fase di politiche protezionistiche. Nel caso del mondo digitale la realtà parla chiaro: chi non ha adottato misure protezionistiche, come l’Europa o l’India o il Giappone, molto banalmente è stato colonizzato dai giganti USA – tra l’altro tutti abbondantemente sostenuti direttamente da Washington; eppure quello che è successo con le piattaforme digitali cinesi non è successo con l’industria dell’intrattenimento. I campioni nazionali dell’entertainment che hanno avuto l’opportunità di crescere in un ambiente protetto non sono stati in grado di conquistare i mercati globali: ma il mercato locale invece sì, eccome, nonostante – in realtà – siano stati molto meno protetti che non le piattaforme digitali. “Sebbene la Cina non sia riuscita a penetrare nei mercati culturali globali” ricorda infatti sempre Feizi su Asia Times “i film nazionali hanno sovraperformato di gran lunga quelli di Hollywood, conquistando nel 2023 tutti i primi 10 posti negli incassi al botteghino”: in Italia, per dire, i primi 10 film sono TUTTI, e dico TUTTI, made in USA, e dei primi 25 tutti a parte 3.
Ma torniamo alla Cina: il punto, quindi, non è che c’è la dittatura e non c’è la concorrenza di Hollywood – anzi, per Hollywood il mercato cinese è diventato vitale -, ma di fronte alle grandi produzioni cinesi, per il mercato locale, semplicemente, è perdente; e quindi, ancora, perché mai i film cinesi che in casa sbancano i botteghini non conquistano i mercati globali come TikTok e WeChat? E qui entriamo nell’ambito delle speculazioni infondate del Marrucci: per risolvere questo mistero, infatti, a mio avviso può essere utile fare un parallelo tra il sistema globale dell’industria culturale e il sistema globale dei flussi di capitali, e anche provare a capire come questi due fenomeni siano intimamente interconnessi; come nei mercati finanziari, infatti, assistiamo al dominio incontrastato del dollaro, così nell’industria globale dell’intrattenimento assistiamo a un dominio incontrastato di Hollywood – inteso come simbolo dell’intero oligopolio dell’industria culturale made in USA. Ora, il dominio globale del dollaro si è affermato attraverso la globalizzazione neoliberista: questa, infatti, ha comportato lo smantellamento delle varie specificità nazionali nel tentativo di creare un mercato globale dei capitali il più omogeneo possibile, all’interno del quale far circolare liberamente i capitali; e in questo mondo piatto e privo di barriere la valuta che rappresentava i capitali più forti si è imposta come l’unica vera valuta globale. Allo stesso modo, in questo mondo piatto dove sono state scientemente cestinate tutte le specificità nazionali si è affermato anche un altro monopolio: quello della costruzione dell’immaginario; nel mondo piatto, cioè, si sono affermati dei linguaggi universali: il linguaggio universale dei capitali che si chiama dollaro e il linguaggio universale dei sogni che si chiama Hollywood. Il punto, però, è che non tutti sono caduti nel tranello: la Cina, in particolare, ha accettato – obbligatoriamente – di far parte del mondo unipolare fatto a immagine e somiglianza del dollaro, ma ha mantenuto il controllo sulla circolazione dei capitali e, in questo modo, è riuscita a finanziare il suo sviluppo e a consolidare la sua sovranità e la sua indipendenza. Allo stesso modo, la Cina ha deciso di proteggere la sua identità culturale nazionale ed è sfuggita così, almeno in parte, al colonialismo culturale a stelle e strisce: questa cosa, da un lato, oggi le permette di avere un’industria culturale nazionale fondata su alcuni campioni nazionali e di non essere una succursale di Hollywood ma, dall’altro, è probabilmente proprio il singolo aspetto che maggiormente le impedisce di conquistare i mercati globali, e questo proprio perché i mercati globali dell’immaginario parlano la lingua universale imposta da Hollywood – che è esattamente quella che la Cina ha deciso di non imparare per proteggere la sua identità culturale nazionale. L’industria culturale cinese, così, oggi parla una lingua diversa da quella che si è imposta nei mercati globali e quindi, sostanzialmente, ne è esclusa; e questa cosa, tutto sommato, dovrebbe rassicurare tutte le persone che sono affette da qualche forma di sinofobia: il chiodo fisso di ogni sincero sinofobo, infatti, è sempre “Eh, vabbeh, l’egemonia USA è cattiva. Ma, finita l’egemonia USA, ecco che arriva quella cinese, che è pure peggio”.
Ora, il timore che finita un’egemonia ne arrivi un’altra, potenzialmente anche peggiore, può anche essere astrattamente un timore giustificato; la buona notizia, però, è che quando dall’astrazione passiamo al mondo reale, il timore – in questo caso – si rivela piuttosto infondato: come abbiamo provato a spiegare diverse volte, infatti, non c’è nessuna possibilità che al declino dell’egemonia del dollaro segua l’ascesa dell’egemonia dello yuan. Una valuta, infatti, per diventare valuta di riserva globale deve essere emessa da uno stato che garantisce la libera circolazione dei capitali, il che significa necessariamente che quello stato si identifica totalmente con gli interessi delle oligarchie finanziarie che, in questo schema, sono i veri detentori del potere sia economico che politico: esattamente quello che la Cina vuole evitare a ogni costo; in Cina a comandare è il partito comunista cinese e non le oligarchie finanziarie che, tra l’altro, è esattamente il motivo per cui la Cina viene definita un regime autoritario. Nella neolingua del Nord globale finanziarizzato e rigorosamente neoliberista, un regime autoritario – come dice sempre Michael Hudson – “è qualsiasi regime dove lo stato mantenga potere a sufficienza da ostacolare le ambizioni politiche delle sue oligarchie finanziarie”. Ecco; un ragionamento, tutto sommato, piuttosto simile lo possiamo fare anche per il colonialismo culturale; anche nel caso di un eventuale collasso dell’egemonia culturale USA non c’è motivo di temere l’affermazione di una qualche forma di pensiero unico made in China: ammesso e concesso che gliene freghi qualcosa, molto banalmente non sono in grado e – appunto – non perché non sono creativi perché c’è la dittatura, ma molto semplicemente perché hanno un linguaggio completamente diverso dal nostro, che è quello del mondo piatto costruito a immagine e somiglianza delle ambizioni imperiali USA.
Il buon Han Feizi su Asia Times riporta un esempio piuttosto eclatante: il secondo film d’animazione campione d’incassi al botteghino in Cina nel 2023, ricorda, si intitola “30 mila miglia da Chang’an”; 170 minuti, sottolinea Feizi, “senza stratagemmi hollywoodiani a buon mercato, nessuna storia d’amore gratuita, e nessun osso gettato ai bambini”. “La storia” riassume Feizi “segue l’amicizia di una vita tra Gao Shi, un onorevole militare e poeta minore, e l’incandescente Li Bai, un poeta dal talento celestiale e dall’infinita dissolutezza. A collegare le storie, ci sono 48 poesie della dinastia Tang e innumerevoli cameo di poeti, generali, musicisti e calligrafi Tang”; “un film” continua Feizi “di portata tolstoiana: un inno all’amicizia, all’essere giovani, all’invecchiamento, all’ambizione, alla lealtà, alle scelte che facciamo, alle gioie dell’alcol, a ciò che dobbiamo al talento, alla seduzione del potere e al rimpianto”.

Fabio Volo

Che riesca a colonizzare culturalmente uno come me, che non è mai riuscito ad arrivare alla fine di un film sveglio in vita sua e che sbava dietro a Christian de Sica e a Checco Zalone, la vedo dura, diciamo. La domanda, allora, a questo punto è: ma se l’avversario strategico degli USA non è minimamente in grado di sostituirne l’egemonia culturale, chi o cosa potrebbe farlo? Margherita Buy? Fabio Volo? Il problema, infatti, non è solo che il monopolio USA sull’industria culturale globale – esattamente come il monopolio delle piattaforme digitali – ha totalmente raso al suolo le industrie nazionali; il problema è che, per come stiamo messi, è una fortuna che sia andata così: almeno i prodotti culturali made in USA son tutti uguali, ma sono tecnicamente e narrativamente ineccepibili. Per staccare il cervello vanno più che bene; i nostri, anche se stacchi il cervello, ti fanno comunque venire l’orchite, e anche qui il parallelo con il declino dell’egemonia del dollaro potrebbe esserci utile. Anche in quel caso, il declino del sistema valutario unipolare fondato sul dollaro – e l’impossibilità dello yuan di sostituirlo – apre potenzialità gigantesche, ma anche rischi e, quindi, responsabilità: in un eventuale nuovo ordine valutario multipolare starà anche ai singoli paesi sovrani, o alle federazioni regionali dei singoli paesi sovrani, sviluppare una politica economica e monetaria in grado di garantirgli un posto in un mondo sempre più complesso. In un nuovo eventuale ordine multipolare conviveranno paesi che adottano un modello simile a quello saudita con paesi che adottano un modello simile a quello norvegese, con paesi che adottano un modello simile a quello cubano, nel quadro di alcune regole condivise: saranno anche un po’ stracazzi nostri, insomma, e ci troveremo a comunque a doverci fare gli stracazzi nostri a partire da quello che abbiamo ereditato dai decenni precedenti, e cioè una devastazione sistematica del tessuto produttivo e della capacità di creare ricchezza; insomma, ci saremo liberati da una forma insostenibile di schiavitù, ma da lì a raggiungere una forma sostenibile di libertà ce ne passa, e ci dovremo mettere del nostro.
Per l’industria culturale e la ricerca di una nuova identità culturale nazionale le cose potrebbero essere ancora più complesse perché, in 50 di mondo piatto fatto a immagine e somiglianza del dollaro e di Hollywood, non è solo il nostro tessuto produttivo ad essere stato asfaltato ma, appunto, la nostra capoccia: una volta che ci saremo tolti Hollywood e Netflix dai coglioni, continueremo ad averceli dentro la testa e l’involuzione antropologica imposta da decenni di neoliberismo continuerà a farci compagnia a lungo; e magari, per darci un’identità, la condiremo con una bella dose di xenofobia, di omofobia e di tutte le sfumature di negazionismo che oggi vanno così di moda nel microcosmo dei cosiddetti anti-sistema.
Per capire su cosa fondare la gigantesca battaglia culturale che ci aspetta per sostituire la fuffa di Hollywood con un’autentica cultura nazionale in grado di sostenere la nostra emancipazione – invece che relegarci all’imbarbarimento – però io, sinceramente, grossi strumenti non ne ho, e allora vi rimando a domani, lunedì 18 dicembre, quando alle 18 e 30 pubblicheremo la straordinaria intervista al filosofo Vincenzo Costa che abbiamo registrato ieri mattina insieme al nostro socio Gabriele Germani. Nel frattempo, per prepararci adeguatamente alla battaglia culturale, di sicuro quello di cui abbiamo urgentemente bisogno è un nuovo media pronto a dare battaglia affinché il mondo nuovo che ci aspetta sia un passo avanti e non tre passi indietro. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Volo