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Tag: crisi climatica

Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

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E chi non aderisce è Michael Bloomberg.

Privatizzare la Natura: : il piano delirante del capitale per salvare il pianeta

Il piano delirante del capitale per salvare il pianeta: far naufragare definitivamente ogni residua speranza di un’efficace transizione ecologica affidandola a un petroliere, per poi costringerci ad accettare l’unica soluzione che il capitale sa immaginare per salvare il pianeta ossia privatizzare e finanziarizzare anche la Natura.

Sembra il plot dell’ennesimo blockbuster post apocalittico, ma in realtà è esattamente quello che sta succedendo sotto ai nostri occhi.

Nonostante la COP28 si terrà soltanto il prossimo novembre, i preparativi sono già in corso. Ad ospitare capi di stato, diplomatici, attivisti e uomini d’affari di quasi 200 paesi a questo giro toccherà a Dubai e la regia del tutto sarà affidata a lui: il Sultano Al Jaber, una scelta che sa di trollata.

Al Jaber infatti è nientepopodimeno che l’amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Corporation, il dodicesimo più grande produttore al mondo di gas e petrolio, e il quattordicesimo più grande produttore di emissioni climalteranti del pianeta. Sotto la sua direzione, ancora lo scorso autunno, il colosso emiratino delle fossili aveva annunciato un piano di espansione molto ambizioso, anticipando di 5 anni, dal 2030 al 2025, l’obiettivo di arrivare a estrarre 5 milioni di barili di greggio al giorno. “Il secondo piano più aggressivo di espansione dell’industria energetica mondiale”, denunciano oltre 400 organizzazioni ambientaliste in una lettera di protesta inviata alle Nazioni Unite, “che”, continua la lettera, “rende i suoi piani del tutto incompatibili con lo scenario disegnato dell’agenzia internazionale dell’energia, che chiarisce come per provare a raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura sotto gli 1,5°C non ci possano essere ulteriori aumenti di estrazione di gas e petrolio”. Nella lettera, le associazioni ricordano come “anche prima della nomina di Al Jaber, gli Emirati Arabi Uniti” abbiano“ampiamente dimostrato di non prendere sul serio l’obiettivo dell’eliminazione graduale delle fonti fossili”. “Durante la COP27 dello scorso novembre” infatti, ricorda la lettera, “oltre 630 lobbisti delle fonti fossili si registrarono per partecipare ai negoziati sul clima e la delegazione degli Emirati era in assoluto quella col numero più alto di lobbisti”.

Ora sembra che la situazione si stia ribadendo. Al cubo.

A sette mesi dal fischio d’inizio, secondo quanto riportato da Bloomberg sarebbero già emersi numerosi casi di consulenti e membri dello staff di COP28 pagati direttamente dalla Abu Dhabi National Oil Corporation. “È davvero incredibile quanto sia andato in lungo e in largo, comprese alcune persone molto anziane” avrebbe dichiarato Sandrine Dixson-Declève riferendosi ai quattrini dispensati dalla corporation emiratina.

Al Jaber sul fronte delle mancate promesse in tema di rinnovabili ha già accumulato un curriculum di tutto rispetto. Dopo aver conseguito una laurea in business administration alla California State University di Los Angeles e aver terminato un dottorato in economia alla Coventry University in Gran Bretagna, era tornato a casa con un progetto visionario: voleva costruire un’intera città ecosostenibile da 50 mila abitanti a due passi dall’aeroporto di Abu Dhabi e convinse il governo a dargli la bellezza di 15 miliardi. Si sarebbe dovuta chiamare Masdar City; era il 2008. Quindici anni dopo, ci sono giusto una manciata di edifici semideserti e sono pure alimentati in gran parte con gas naturale! “Il grosso delle zone di sviluppo dopo 15 anni sono ancora completamente vuote”, scrive Bloomberg, “e la deadline è stata spostata al 2030.  Inizialmente era al 2016”.

In compenso, a capo della Abu Dhabi National Oil Corporation Al Jabar non ha saputo neanche tenere il passo nemmeno di altri killer del clima come Saudi Aramco e Exxon Mobil, che per lo meno vantano una trasparenza dei dati sulle emissioni aggregate decisamente migliore. D’altronde, Al Jabar non è esattamente un paladino della trasparenza e della libertà di informazione: da presidente del Consiglio Nazionale per i Media, secondo fonti raccolte da Bloomberg che avrebbero chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, “Al Jaber si occupa direttamente di mantenere uno stretto controllo sui media locali e sulle partnership con Sky News e CNN per i contenuti in lingua araba”.

Le organizzazioni ambientaliste lamentano giustamente che nessuna COP supervisionata da un pezzo grosso dell’industria fossile potrà mai essere ritenuta legittima e che le regole non possono essere scritte dai grandi inquinatori o sotto la loro influenza.

“Anno dopo anno”, scrivono nella lettera “la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite non è riuscita a fornire l’azione necessaria per porre fine all’era dei combustibili fossili e passare rapidamente e in modo equo a un nuovo sistema globale”.

In compenso però, le COP sono diventate un’ottima occasione per vendere. “Il vertice sul clima della Nazioni Unite”, ammette financo Bloomberg, “è ormai un raduno annuale per aziende che hanno un punto di vista sulla transazione energetica e un modo per venderlo; in pratica, una fiera”. E in grande stile: per la COP 28 Gli Emirati Arabi Uniti prevedono di ospitare un record di 70.000 partecipanti e il prodotto più in voga quest’anno, è roba da far accapponare la pelle.

Facciamo un balzo indietro. 9 novembre 2021. Un titolo sulla piattaforma online di scienze ambientali Mongabay recita: “Le comunità del Borneo sono rimaste incastrate in un accordo sul carbonio per 2 milioni di ettari di foresta di cui non sono a conoscenza”. Una storia allucinante, altro che land grabbing. Siamo nello Stato di Sabah, nel Borneo malese e secondo l’articolo, le autorità governative avrebbero firmato un accordo con un misterioso partner privato per lo sfruttamento del così detto “capitale naturale” di un’area di foresta grande quanto la Slovenia della durata di 100 anni, tenendo completamente all’oscuro le popolazioni indigene locali.

L’accordo sarebbe un così detto “nature conservation agreement”, un accordo sulla conservazione della Natura. L’obiettivo è ripristinare gli ecosistemi, per poi vendere crediti sui mercati finanziari, a partire da quelli sulle emissioni di carbone, ma non solo. Il meccanismo sicuramente lo conoscete già: io imprenditore con la fabbrichetta di bulloni nella provincia bresciana dovrei investire per abbattere le mie emissioni, ma visto che c’ho un’azienda che sta in piedi a malapena grazie a un po’ di evasione e qualche regola sulla sicurezza sul lavoro non rispettata, non me lo posso permettere. Allora come si fa? Si fa che tu, imprenditore anonimo che ti nascondi dietro una società anonima registrata nelle Isole Vergini britanniche corrompi qualche amministratore di qualche angolo del Sud globale, ti fai regalare un pezzo di terra dove vive qualche popolo indigeno, ci pianti qualche alberello che assorbe un po’ di carbonio ed ecco fatto che l’abbattimento delle emissioni l’hai fatto tu al posto mio. E che ce vo’?

Sembra una barzelletta o un film distopico, ma è esattamente quello che hanno fatto in questo caso o almeno, quello che hanno provato a fare su una scala gigantesca.

Secondo Al Jazeera, un affare da 80 miliardi. I carbon credit infatti, in prospettiva sarebbero soltanto uno dei tanti prodotti finanziari da costruire sulla conservazione e la rivitalizzazione degli ecosistemi: lo stesso meccanismo a breve dovrebbe essere applicato anche ad altri servizi ecosistemici, come l’approvvigionamento idrico, la riforestazione sostenibile e la conservazione della biodiversità. Per una società senza nessun curriculum e sulla quale è impossibile trovare informazioni, un obiettivo piuttosto ambizioso: la società infatti si chiama Hoch Standard e nessuno fino ad allora l’aveva mai nemmeno sentita nominare.

Il vice primo ministro dello Stato di Sabah, Jeffrey Kitingan, ha provato a rassicurare: la Hoch Standard è una startup con 10 milioni di capitale sociale e alle spalle fondi globali multimiliardari, ma i documenti visionati di Mongabay dimostrerebbero che in realtà allora il capitale sociale della società ammontava ad appena 1000 dollari. D’altronde, avere le spalle solide potrebbe non essere così necessario. Secondo l’accordo infatti, mentre il governo della Stato di Sabah non avrebbe il diritto di rescindere il contratto, Hoch Standard sarebbe liberissima di trasferire a terzi i diritti acquisiti sul capitale naturale.  Insomma, un mero faccendiere, creato ad hoc soltanto per capitalizzare rapporti privilegiati con la politica che gli garantiscono una rendita monopolistica su un pezzo gigantesco del pianeta e che è pronto a rivenderla al miglior offerente non appena dai pezzi di carta si deve passare al lavoro vero, facendoci sopra una bella cresta senza aver mai mosso foglia.

A fare da mediatore per l’accordo, un personaggio misterioso: Stan Lassa Golokin, che secondo i Panama papers in passato è stato associato a ben 4 società anonime registrate nelle Isole Vergini britanniche. Tra gli anni ‘80 e ‘90, Stan Lassa Golokin è stato coinvolto insieme al vice primo ministro Kitingan nello scandalo della Sabah Foundation: si sarebbe dovuta occupare di regolare la deforestazione dell’isola per fare spazio alla produzione dell’olio di palma, ma in 20 anni registrò un inspiegabile buco da 1,6 miliardi di dollari, mentre la ricchezza personale di Kitingan raggiungeva, altrettanto inspiegabilmente, la cifra esorbitante di 1 miliardo di dollari. Una quantità di zone d’ombra eccessiva anche per un territorio dove la resistenza delle popolazioni indigene è completamente sovrastata dall’intreccio tra politica e affari.

Dopo che con il suo scoop Mongabay ha portato alla luce l’accordo tenuto fino ad allora completamente segreto, la storica attivista dei diritti delle popolazioni indigene locali Anne Lasimbag è riuscita a mettere in piedi una vasta coalizione di organizzazioni indigene che hanno avviato una battaglia legale che è arrivata a coinvolgere i massimi vertici delle Nazioni Unite. Da allora l’accordo è precipitato in una sorta di Limbo, con il procuratore generale dello Stato di Sabah che ha affermato pubblicamente che “nella sua forma presente l’accordo è impotente dal punto di vista legale, e non potrà entrare in vigore a meno che non siano soddisfatte determinate disposizioni”, anche se esattamente quali siano queste disposizioni nessuno sembra averlo ancora capito; ma come si dice sempre in queste occasioni, ormai il re è nudo. Come scrive John Bellamy Foster, docente di sociologia all’università dell’Oregon e storico direttore della Monthly Reviewl’accordo di Sabah è un gigantesco e inquietante campanello d’allarme su come si sta concretizzando la corsa all’oro globale per assicurarsi i diritti di sfruttamento del capitale naturale”. Foster ricorda come “appena poche settimane prima dalla firma dell’accordo, il New York Stock Exchange e l’Intrinsic Exchange Group avevano annunciato la creazione di un’intera nuova categoria di società denominate Natural Asset Companies”, NAC per gli amici, che, “creano e commerciano veicoli finanziari per la proprietà, la gestione e il controllo delle risorse del capitale naturale mondiale”. Un mercato gigantesco. Come ricorda esplicitamente il sito dell’Intrinsic Exchange Group, “Le persone spesso dicono che la Natura non ha prezzo, con l’intenzione di indicare quanto sia preziosa. Sarebbe più corretto dire che nel sistema economico odierno il valore della Natura semplicemente non viene conteggiato”. Loro lo hanno fatto: “il valore finanziario della biodiversità è stimato tra 598 e 824 miliardi di dollari all’anno, il cambiamento climatico a circa 5 mila miliardi di dollari all’anno e la transizione verso un’economia più sostenibile, resiliente ed equa, ancora ordini di grandezza maggiori”. L’idea è semplice: la Natura e tutto quello che gli ecosistemi producono sono un fattore indispensabile della produzione e come ogni fattore della produzione vanno trasformati in merci, gli va dato un valore nominale e vanno scambiati sui mercati finanziari. “La trasmutazione del cosiddetto capitale naturale in valore di scambio negoziabile”, scrive Foster, “nell’ultimo decennio è vista come un’apertura di opportunità quasi illimitate per le società e i gestori di denaro”.

Già nel 2012, durante il Corporate EcoForum, un gruppo di venti corporation multinazionali, da Coca-Cola a Nike, avevano pubblicato un report, dove sottolineavano come si stimi “che 72 mila miliardi di dollari di beni e servizi” gratuiti “associati al capitale naturale globale e ai servizi ecosistemici siano monetizzabili ai fini di una crescita più sostenibile”. Il rapporto sottolineava inoltre le enormi opportunità di “leva” del debito rappresentate da “mercati di capitali naturali emergenti come il commercio della qualità dell’acqua, il sequestro naturale del carbonio e la conservazione delle zone umide e delle specie minacciate”. Di conseguenza, era imperativo “dare un prezzo al valore della Natura” o, in altre parole, “un valore monetario a ciò che la Natura fa per… le imprese”. “Il futuro dell’economia capitalista”, scrive Foster, “sta nel garantire che il mercato paghi “per servizi ecosistemici una volta gratuiti”, che potrebbero quindi generare nuovo valore economico per quelle società in grado di convertire i titoli in capitale naturale in attività finanziarie”. Tradurre le funzioni degli ecosistemi in quantità di denaro, permette di scambiarli tra loro: stermino i panda nelle foreste dell’Asia centrale? E che problema c’è? Mal che vada avrò causato un danno quantificabile, mettiamo in 100. Ora basta che mi compri un credito equivalente da una società che ha espropriato qualche tribù indigena dell’Amazzonia per permettere il ripopolamento dell’armadillo gigante, e siamo tutti contenti!

Come sottolinea Bellamy Foster, “la continua distruzione della Natura, conseguenza ineluttabile dell’accumulazione di capitale, può essere così compensata dalla valorizzazione di un altro servizio fornito da un altro ecosistema altrove”.

Non è un’interpretazione complottista: è proprio un fine dichiarato.

Come scrive il Nobel per l’economia Robert Solow infatti, “La storia ci dice un fatto importante, ovvero che beni e servizi possono essere sostituiti l’uno con l’altro. Se non mangi una specie di pesce, puoi mangiare un’altra specie di pesce. Non esiste un oggetto specifico che l’obiettivo della sostenibilità ci imponga di lasciare intatto… La sostenibilità non richiede la conservazione di una particolare specie di pesci o di un particolare tratto di foresta “. Purtroppo però la Natura non funziona esattamente così: ogni specie e ogni ecosistema è unico e insostituibile, e la sua estinzione è irreversibile. La logica della vita, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, è incompatibile con la logica intrinseca dell’accumulazione del capitale.“Monetizzare l’ambiente”, scrive Bellamy Foster, “significa in ultima analisi trascinarlo nel mercato e sottoporlo alla dinamica incontrollabile dell’accumulazione. I sistemi di produzione ed evoluzione naturali saranno sostituiti sempre di più da sistemi basati sul mercato, il cui unico obiettivo è l’espansione del capitale. I beni comuni globali saranno sminuzzati e monopolizzati da pochi interessi privati, che li trasformeranno in attività finanziarie di ogni genere. Quello di cui stiamo parlando” continua Foster, “è dare le chiavi del mondo naturale alla City di Londra. Cosa mai potrebbe andare storto?”.

Il fallimento di ogni negoziato globale su come invertire la catastrofe ambientale, da questo punto di vista, non può essere considerato semplicemente un incidente, o il frutto di incapacità e incompetenze varie; va invece visto chiaramente per quello che è: uno strumento in mano al capitale per creare anche sul fronte dei servizi ecosistemici quella scarsità che facilita l’ingresso a gamba tesa della finanziarizzazione come unica soluzione possibile.

Se la politica non è in grado di tutelare il bene comune, trasformarlo in merce da contrattare sui mercati finanziari ci verrà spacciato facilmente come il minore dei mali possibili. È la famosa cura Friedman, che in passato è stata applicata a tutti i servizi pubblici essenziali: devastare scientemente la capacità del pubblico di fornire i servizi in modo efficiente a forza di tagli e taglietti, per poi spacciare le privatizzazioni come unica soluzione realistica possibile e chi c’ha da ridire è un rosicone, vittima di un’ideologia stantia. L’ideologia del dominio totale delle logiche del capitale su ogni aspetto della vita invece è sempre fresca come una rosa, anche quando ormai, dati alla mano, è sotto gli occhi di tutti che l’impresa privata e la dittatura del profitto, se lasciate a se stesse, non creano mai maggiore efficienza e competizione, ma solo monopoli da cui estrarre valore a piacimento a discapito di tutto il resto per poi costruirci sopra una bella bolla speculativa, che le statistiche trasformeranno magicamente in aumento della ricchezza prodotta: più un manipolo di oligarchi si appropria della nostra vita e riduce in miseria gli uomini e il pianeta, più il PIL procede a gambe levate!

Per capire le prossime mosse a questo punto non ci rimane che aspettare la prossima COP di Dubai.

Durante quella di 2 anni fa uno spavaldo Golokin, il faccendiere dell’accordo truffa di Sabah, era stato accolto in pompa magna col suo piano per mettere a reddito il capitale naturale del Borneo. “Lazy assets”, li aveva definiti. beni pigri: è l’ora che la Natura la pianti di ozieggiare come un percettore del reddito di cittadinanza qualsiasi e si metta finalmente a disposizione del capitale!

Se al contrario di Golokin, anche tu ami la vita, la natura e l’ozio, ultime frontiere della resistenza al dominio della tristezza mortifera del capitale, aiutaci a costruire il primo media che dà voce al 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Milton Friedman.