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Tag: controinformazione

La controinformazione si allea per asfaltare la propaganda degli oligarchi e dei guerrafondai

Non solo OttolinaTv: durante Fest8lina abbiamo avuto occasione di consolidare le nostre innumerevoli collaborazioni con le varie testate che combattono la nostra stessa battaglia contro la disinformazione dei media mainstream a libro paga delle oligarchie e del partito unico della guerra e degli affari; in questo dibattito cerchiamo di capire come fare tutti insieme un salto di qualità e mettere fine al dominio del pensiero unico e dei pennivendoli da strapazzo.

ALESSANDRO ORSINI – come la Russia ha vinto la guerra contro il Blocco Occidentale in Ucraina

Questo 2023 si avvia alla conclusione, ed è tempo di bilanci, e il bilancio che arriva dal fronte della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, non potrebbe essere più disastroso. Ne abbiamo parlato con Alessandro Orsini, che da ormai due anni può vantare il riconoscimento al quale abbiamo sempre ambito anche noi, senza successo: essere additato dai vari gianni “il contrario del giornalismo” riotta e compagnia strisciante come il leader indiscusso del fronte degli utili idioti della propaganda putiniana in Italia.

E a noi, nonostante tutti gli sforzi, manco una menzioncina.

Buona visione

L’era dei Media Mainstream è Finita? – con Andrea Legni ed Enrica Perucchietti

Oggi parliamo di media e di informazione e lo facciamo con Andrea Legni, direttore dell’indipendente, e Enrica Perucchietti, giornalista free lance e uno dei volti di Visionetv. L’occasione è questa: l’uscita della monografia mensile de l’indipendente, con il quale abbiamo avviato già da qualche tempo una collaborazione,e il numero di questo mese è proprio dedicato all’informazione e in particolare, come dice il titolo, alla crisi della disinformazione di regime. Una crisi che va avanti da tempo, ma che si è approfondita dall’inizio della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, e ancora di più con lo scoppio della guerra di israele contro i bambini arabi a Gaza, che, appunto come titola il suo articolo proprio enrica, nel tentativo disperato di giustificare la ferocia genocida di quella che ancora inspiegabilmente viene definita l’unica democrazia del medio oriente, ha fatto raggiungere “nuove vette” alla “disinformazione di regime”.

STERMINIO DEI GIORNALISTI: come Israele impone la sua visione eliminando fisicamente i giornalisti

Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano.
Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità.
In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo?
Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).

Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”.
“Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”.
Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi.
Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar).
Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni.
Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco.
Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento.
Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.

Justin Trudeau e Emmanuel Macron

Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”.
Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso.
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E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu

NON CON I MIEI SOLDI: boicottare Israele per impedire il genocidio

Fino a un mese, fa la lotta per l’indipendenza del popolo palestinese era una lotta finita, kaputt, morta e sepolta; oggi le strade di tutto il mondo sono invase da un oceano di umanità che torna a sventolare la bandiera palestinese non solo per non essere complici di un genocidio, ma come simbolo universale dell’eterna lotta degli oppressi contro gli oppressori. Purtroppo però il genocidio del popolo palestinese è solo un pezzo di una guerra molto più generale, e in guerra la testimonianza non basta: per ottenere qualcosa bisogna colpire direttamente gli interessi più profondi. Per fortuna, per capire come si fa non c’è bisogno di inventarsi nulla di particolarmente nuovo: basta ricordarsi la nostra storia. La ricetta l’hanno scritta nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: si chiama boicottaggio. “Popolo britannico” recitava lo storico appello “non vi chiediamo niente di speciale. Vi chiediamo solamente di ritirare il vostro sostegno al regime di apartheid smettendo di comprare prodotti sudafricani”. Tra alti e bassi, per arrivare alla vittoria occorreranno la bellezza di 35 anni.
Non c’è un minuto da perdere: con questo video ci rivolgiamo a tutte le realtà che come noi, giorno dopo giorno, in piena libertà e autonomia, qualsiasi sia il loro punto di vista, combattono la loro battaglia contro la dittatura del pensiero unico e contro la lotta senza quartiere che le oligarchie finanziarie del nord globale hanno ingaggiato contro tutto il resto del mondo. E’ arrivato il momento di lanciare lo stesso appello che gli esuli sudafricani lanciarono ai cittadini britannici e che, dopo 35 anni di peripezie, li portò finalmente alla liberazione. Dobbiamo convincere insieme tutte le persone, che hanno imparato ad apprezzarci per il lavoro che ognuno a modo suo fa ogni giorno per creare una frattura nella narrazione dominante, che è arrivato il momento di ritirare il nostro sostegno al nuovo apartheid e al genocidio smettendo non solo di comprare prodotti israeliani, ma anche i prodotti di tutte quelle aziende che per due lire, di fronte a un genocidio, preferiscono girare la testa dall’altra parte e continuano a fare affari con Israele. Ci state?

manifestazione pro Palestina a Berlino

Nel silenzio assordante dei media che da settimane se ne inventano di tutti i colori per giustificare il genocidio e la pulizia etnica in corso a Gaza, decine di milioni di persone continuano a riempire giorno dopo giorno strade e piazze di tutto il pianeta per esprimere la loro solidarietà al popolo palestinese e la loro opposizione al sostegno incondizionato al genocidio espresso dai loro governi.

Da Stoccolma, Sidney, New York, Barcellona, Parigi, Dublino e Berlino, nonostante manifestare contro il genocidio fosse vietato e, alla fine, sono state arrestate quasi 200 persone:

Sempre a New York, giovedì scorso, in 500 hanno improvvisato un sit in direttamente dentro il congresso USA per chiedere una risoluzione per il cessate il fuoco immediato. Li hanno accusati di essere antisemiti. Erano tutti ebrei.

E questa è la mappa in tempo reale che Al Jazeera sta tenendo delle principali proteste al mondo:

In queste ore drammatiche, durante le quali qualsiasi persona che abbia conservato un minimo di umanità si sente squarciata dentro dal senso di impotenza di fronte a ingiustizie così colossali e abominevoli e totalmente isolata di fronte a governi e media mainstream che inneggiano con gioia allo sterminio di massa, alla pulizia etnica e al genocidio, queste gigantesche maree di umanità varia che, da giorni e giorni, invadono le nostre strade sono un’incredibile boccata di ossigeno. Purtroppo, però, rischiano anche di non essere altro che un lenitivo per noi che stiamo dalla parte giusta del mondo; il punto col quale facciamo ancora troppa fatica a fare i conti fino in fondo è che, anche se non ne siamo ancora molto consapevoli, siamo in guerra e – ammesso e non concesso che quelle nelle quali viviamo siano mai state democrazie, in particolare negli ultimi 30 anni – di sicuro hanno definitivamente smesso di esserlo da quando siamo in guerra. Equesto sarebbe davvero il caso ce lo mettessimo tutti in testa per bene: in un paese in guerra di spazio per la democrazia non ce n’è, anche se è una guerra un po’ atipica, ibrida, asimmetrica, inedita.
Fortunatamente, però, per i popoli un modo per farsi sentire c’è sempre; il disfattismo non è altro che una delle tante cazzate che ci hanno lasciato in eredità 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di ideologia del thatcheriano “There is no alternative”. I disfattisti provano a spacciare le loro sentenze da bacio perugina letto al contrario come il frutto di un lucido cinismo che ha il coraggio di guardare dritta negli occhi la realtà, ma in realtà nel disfattismo non c’è proprio niente di lucido perché, molto banalmente, la realtà si può sempre modificare. Ma per farlo, appunto, serve lucidità, serve pragmatismo. Come sottolinea lucidamente Shahid Bolsen di Middle Nation “esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive”. Le proteste meramente dimostrative non vanno sminuite: hanno anche loro una loro importanza, come quelle di questi giorni in solidarietà alla Palestina e contro il genocidio. “Esprimere sostegno per la Palestina e condanna per il genocidio è importante” sottolinea Bolsen “sopratutto in Occidente, dove semplicemente stanno cercando di eliminare del tutto la questione palestinese dal dibattito pubblico, e stanno cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella del regime sionista”. Ma se vogliamo andare oltre la mera testimonianza e dare un contributo reale per ostacolare il genocidio, bisogna inventarsi qualcosa di diverso. E visto che i governi in guerra orecchie per sentire non ne hanno, forse sarebbe il caso di rivolgersi a qualcun altro: “affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive” suggerisce Bolsen “è necessario che si focalizzino sul settore privato”. Insomma: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. BDS. Per chi si occupa di cose palestinesi da un po’ non suona certo nuova: è una campagna nata ormai 18 anni fa – nel 2005 – quando, dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sudafrica, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Nei successivi 15 anni, ogni volta che si azzardavano a sottolineare che l’occupazione sionista era un regime di apartheid, venivano immediatamente accusati di antisemitismo ma, come si dice, “prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci” e così, finalmente, da un paio di anni parlare di apartheid non è più tabù. Ma, vinta la battaglia culturale per definire il regime esattamente per quello che è, ora però rimane ancora da combattere da capo la battaglia che anche in Sudafrica all’apartheid mise fine. Come ha scritto Omar Barghouti, che della campagna BDS è stato uno dei fondatori e tutt’oggi ne è una delle voci più autorevoli, “la campagna di boicottaggio non è mai stata così importante come oggi”. Certo, una campagna vecchia 18 anni sembra difficile trasformarla di nuovo in uno strumento all’altezza delle sfide di oggi; in realtà però la storia ci racconta una cosa diversa.
Il movimento per il boicottaggio del regime di apartheid sudafricano, infatti, nacque per mano di Nelson Mandela e una manciata di altri militanti in esilio a Londra addirittura nel lontano 1959. Per cantare vittoria dovettero attendere altri 35 anni, 35 anni di lotte, di sofferenze inenarrabili e di gesti eroici, ma anche di intelligenza tattica e di pragmatismo: non si tratta di gettare generosamente il cuore oltre l’ostacolo. Si tratta di darsi obiettivi ragionevoli e di perseguirli con lucidità. Un pezzo importante di lavoro nel tempo è stato fatto, e basta visitare i siti italiano e internazionale della campagna BDS per avere un primo cassetto degli attrezzi. Un vademecum molto pratico di cose da fare, poi, ce lo fornisce proprio Shahid Bolsen: trovate il suo intervento integrale doppiato in italiano da noi apposta per l’occasione sul nostro canale You Tube:

Ma sopratutto, ribadisco, qui a giocare un ruolo di primo piano dovremmo essere proprio noi, quella selva di canali, influencer e content creator nati apposta per rompere il monopolio della propaganda liberaloide e imperiale, a prescindere da tutte le differenze: parliamoci, organizziamoci, coordiniamoci, dimostriamo che fuori dalla bolla dorata del mainstream un’altra informazione è possibile. Un’informazione che è al servizio dei diritti dei popoli, invece di una fabbrica di fake news per giustificare il genocidio

Dalla Testimonianza alla Vittoria – come boicottare il genocidio secondo Shahid Bolsen