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Tag: consumi

Crollo consumi e dividendi record: la doppia rapina di USA e oligarchie contro i lavoratori europei

Dividendi da record titolava entusiasta ieri Il Sole 24 Ore: “Le borse mondiali pagano 339 miliardi” e questo solo nei primi tre mesi del 2024; “Un nuovo massimo a livello globale” festeggia il giornale dell’1%. Se ne esistesse anche uno del 99% probabilmente festeggerebbe molto meno, soprattutto se si occupasse del 99% dei lavoratori europei. Come dimostra questo grafico pubblicato il giorno prima dal Financial Times, infatti, se i nostri azionisti ridono, le famiglie europee non c’hanno più nemmeno gli occhi per piangere: mentre il livello dei consumi delle famiglie USA, infatti, rispetto ai livelli prepandemia è cresciuto di ben oltre il 10%, il nostro è rimasto completamente invariato. Zero. Niente. Neanche un piccolo cenno di crescita; ed è solo l’antipasto. E il primo che ci stanno preparando sarà ancora più indigesto: questo ulteriore, gigantesco trasferimento di ricchezza dalle famiglie europee verso quelle USA, da un lato, e verso le oligarchie di entrambe le sponde dell’Atlantico dall’altro, infatti, non può che comportare un ulteriore svuotamento delle casse dello Stato alle quali, giustamente, non contribuiscono i cittadini USA, ma decisamente molto meno – giustamente, sempre di meno – anche le nostre oligarchie. Risultato: FMI, allarme sui conti come titolava ieri La Repubblichina; secondo il Fondo Monetario, riporta l’articolo, “Serve una manovra da 60 miliardi in due anni per sanare il bilancio” e, ovviamente, “bisogna fermare tutte le misure in deficit”. Eh, giustamente: chi ci crediamo d’essere, gli USA? Le misure in deficit sono una cosa da ricchi e su chi, alla fine, dovrà pagare il conto s’è scatenata una vera e propria guerra: Sorpresa redditometro titolava mercoledì La Stampa; “Torna lo strumento che stana gli evasori in base agli eccessi di spesa”. Strano: già 10 anni fa, infatti, Matteo Salvini aveva definito il redditometro “roba da regime comunista”; sostanzialmente, è una misura che dovrebbe permettere all’Agenzia delle entrate di andare a bussare alla porta di chi dichiara redditi al di sotto della soglia di sussistenza, ma poi, magari, ogni due anni si compra un SUV nuovo e non esce di casa senza un Rolex al polso. Insomma: lo zoccolo duro dell’elettorato della destra fintosovranista. Se la destra di governo arriva a introdurre una misura del genere – tra l’altro ad appena un paio di settimane da un appuntamento elettorale di tutto rilievo – vuol dire che sono veramente alla frutta; e, infatti, è bastato aspettare 24 ore ed ecco che, come titolava ieri La Repubblichina, Redditometro, marcia indietro del governo.
Insomma: se non siete tra quelli che hanno da parte montagne di azioni di qualche grande corporation e la scappatoia della piccola evasione proprio non vi riguarda perché le tasse, come a oltre il 70% dei lavoratori italiani, ve le prelevano di default dalla busta paga, ho come l’impressione che quelli che vi aspettano non siano esattamente tempi di vacche grasse. Oh, se poi pensate ne valga comunque la pena perché per difendere le democrazie liberali dall’invasione del plurimorto dittatore del Cremlino, dei cinesi e dei bambini palestinesi che c’hanno il terrorismo nel DNA, per carità, fate pure per carità; ma prima di provare a spiegarvi perché – probabilmente – non ne vale la pena, ricordatevi di mettere un like a questo video e aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi ai nostri canali social e attivare tutte le notifiche: è un’operazione che a voi costa meno tempo di quanto abbia impiegato il governo per fare retromarcia sul redditometro (o la tassa sugli extraprofitti delle banche), ma per noi fa comunque la differenza e ci permette di continuare a provare a costruire un vero e proprio media che, invece che dalla parte di Washington, delle oligarchie e degli svendipatria, sta dalla parte del 99%.
I lavoratori europei, da decenni, sono vittime non di una rapina, ma di due; e da quando gli USA e le oligarchie del Nord globale hanno dichiarato guerra al resto del mondo, il tasso di furti che subiamo quotidianamente ha raggiunto dimensioni mostruose. La prima rapina è raffigurata in modo chiaro in questo grafico pubblicato mercoledì scorso dal Financial Times:

Nel grafico viene confrontata la crescita dei consumi delle famiglie di USA, Eurozona e Gran Bretagna a partire dall’ultimo trimestre del 2019, vale a dire dall’inizio della crisi pandemica. Le linee tratteggiate indicano l’andamento che i consumi delle rispettive famiglie avrebbero dovuto avere se fosse stata confermata la crescita media registrata nei 6 anni precedenti e, già qui, abbiamo una rappresentazione chiara della prima rapina che i consumatori europei subiscono da quelli USA ormai da decenni: fatto 100 il consumo delle famiglie nell’ultimo trimestre del 2019, infatti, se avessimo continuato con il business as usual, nel 2024 i consumatori europei avrebbero raggiunto appena quota 106; quelli USA, 112. Insomma: i consumi statunitensi crescono a un ritmo doppio rispetto a quelli europei o, per dirla meglio, a discapito di quelli europei, un trend che – come abbiamo sottolineato decine di volte su questo canale – procede invariato da quasi 20 anni e, cioè, da quando l’economia mondiale è stata travolta dalla crisi finanziaria innescata dagli USA che ha segnato l’inizio di quella che l’amico Vijay Prashad definisce la terza grande depressione (col paradosso che chi ha scatenato la crisi in realtà non ha fatto che arricchirsi, mentre a pagare il conto ci pensavamo noi). Chi segue questo canale il dato lo conosce ormai benissimo, ma visto che – nonostante gridi vendetta – i media mainstream si scordano sistematicamente di riportarlo, è sempre bene ribadirlo: se infatti, ancora nel 2007, i paesi dell’Eurozona in media (e l’Italia in particolare) avevano un reddito e un patrimonio pro capite di poco inferiori a quelli statunitensi, oggi siamo a meno della metà.
La buona notizia è che ci sarebbe potuta andare peggio, che è esattamente quello che è successo dalla crisi pandemica in poi: nonostante il nostro trend di crescita, infatti, fosse già in partenza decisamente meno ambizioso, magicamente siamo riusciti a non cogliere manco quello; anzi, manco ad avvicinarci. A 4 anni di distanza, infatti, siamo sempre allo stesso identico punto: i nostri consumi non sono cresciuti di una virgola; quelli USA, di oltre il 10%. La prima differenza macroscopica risale immediatamente al periodo pandemico durante il quale, ovviamente, a crollare sono stati i consumi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con un’entità parecchio diversa: fatto 100 il consumo nell’ultimo trimestre 2019, il picco più basso raggiunto nei mesi successivi è stato di 90 negli USA, ma addirittura di meno di 85 nell’Eurozona. Dopodiché, se gli USA hanno raggiunto di nuovo il livello di consumo prepandemico subito all’inizio del 2021, noi abbiamo dovuto aspettare 6 mesi di più e da lì in poi, mentre noi ci siamo arenati, gli USA hanno continuato a correre ancora per alcuni mesi a ritmi cinesi; com’è possibile? Molto semplice: nonostante anche nell’Eurozona, per un periodo, si sia sospeso il delirante patto di instabilità e decrescita e, una volta tanto, gli Stati abbiano fatto quello che dovrebbero fare sempre gli Stati (e, cioè, mettere mano al portafoglio in periodi di crisi), l’euro comunque rimane l’euro e il dollaro rimane il dollaro; il che significa, banalmente, che gli USA si possono indebitare quanto gli pare senza mai pagare dazio, che tanto, grazie all’egemonia del dollaro, l’inflazione che generano stampandolo all’infinito mal che vada la possono sempre scaricare sugli altri. Poi è arrivato l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Russia e contro l’economia europea e l’esorbitante privilegio del dollaro – come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – s’è fatto sentire ancora di più: per tenere a freno l’inflazione che l’immissione di una quantità massiccia di soldi pubblici aveva scatenato, la Federal Reserve ha iniziato la lunga corsa all’aumento dei tassi di interesse e tutti gli altri le sono andati dietro.
Per cercare di spiegare quanto la corsa al rialzo dei tassi di interesse fosse la peggiore delle strategie possibili immaginabili per contrastare l’inflazione, nel corso di questi due anni e passa abbiamo speso ore e ore di video: l’inflazione in questa fase, infatti, oltre che alla liquidità in circolazione, aveva ovviamente a che fare non solo con le tensioni geopolitiche, ma anche con la speculazione che su queste tensioni ha trovato il modo di farci una montagna di quattrini e anche con quella che, con Isabella Weber, abbiamo imparato a chiamare greedflation e, cioè, l’inflazione che le aziende hanno contribuito ad alimentare aumentando i prezzi ancora di più di quanto non fossero aumentati i costi, approfittando del fatto che la concorrenza è morta e ormai il capitale privato, in quasi tutti i settori, è oligopolistico (se non, addirittura, monopolistico) e garantendosi così una montagna di profitti. La lotta all’inflazione a colpi di aumenti dei tassi, quindi, da questo punto di vista (come spesso accade) più che una vera motivazione, appare più che altro una scusa buona per gli analfoliberali e le bimbe di Cottarelli ed Elsa Fornero e che, stringi stringi, ha rappresentato un’altra arma nell’arsenale del rapinatore a stelle e strisce: con l’esplosione del debito registrata per contrastare gli effetti della pandemia, infatti, l’impennata dei tassi significa dover sborsare una quantità gigantesca di quattrini solo per pagare gli interessi sul debito e mentre gli USA – di nuovo per l’esorbitante privilegio del dollaro – se ne possono tranquillamente sbattere, per le semicolonie europee rappresenta un bel problemone, soprattutto dal momento che il patto di instabilità e decrescita non è che è stato cestinato per adottare una politica economica più realistica e ragionevole, ma soltanto temporaneamente sospeso per poi essere reintrodotto. Risultato: mentre noi ci ritroviamo a tagliare ulteriormente la spesa pubblica con l’accetta in ossequio ai deliranti parametri di Maastricht, gli USA continuano a crescere grazie a un deficit pubblico che fa letteralmente paura e, grazie a questo deficit, non solo continuano a pompare artificialmente la loro economia bollita, ma hanno una montagna di quattrini da regalare alle aziende che decidono di abbandonare l’Eurozona e andare a investire nella terra ri-promessa, al punto da creare più domanda di lavoro (in particolare qualificato) di quanto sia disponibile negli USA – in particolare dopo 40 anni di finanziarizzazione che ha distrutto tutto il know how possibile immaginabile. Ed ecco, così, che mentre da noi mancano gli investimenti e il top a cui ambire è fare la stagione in qualche località balneare con stipendi inferiori al vecchio reddito di cittadinanza (che, nel frattempo, abbiamo cestinato), gli investimenti multimiliardari – come quello di TMSC per costruire nuove fabbriche per riportare negli USA la produzione di microchip – vengono rinviati perché non si trova abbastanza manodopera qualificata e ovviamente quella poca che c’è, giustamente, ha tutti gli strumenti per farsi pagare a peso d’oro, come gli operai dell’automotive che hanno strappato aumenti da capogiro. Risultato, appunto: i consumi delle famiglie USA volano e i nostri sono al palo. “Povertà a livelli mai toccati da 10 anni” denuncia l’ultimo rapporto ISTAT pubblicato la settimana scorsa; nell’arco di un decennio, l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 6,9 al 9,8%: un italiano su 10 è tecnicamente povero, anche se lavora. Tra gli operai, i poveri sono passati dal 9 al 14,6% e “tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.
Fortunatamente, però, chi – invece che del suo lavoro – campa di rendita, se la passa decisamente meglio perché, se continua imperterrito questo trasferimento di risorse da una parte all’altra dell’Atlantico, all’interno dei singoli paesi – allo stesso tempo – procede impunita un’altra rapina: quella che vede trasferire risorse da chi ha poco o niente a chi ha già troppo. “Dopo il 2023 da record” riportava ieri, infatti, Il Sole 24 Ore “il valore dei versamenti effettuati agli azionisti dalle società quotate ha registrato un nuovo massimo anche nei primi tre mesi del nuovo anno”; in particolare, come previsto, “la spinta al rialzo è arrivata sopratutto dal settore bancario”. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie all’aumento dei tassi di interesse, infatti, le banche prendono i soldi dei correntisti (ai quali non riconoscono manco mezzo euro di interessi) e li depositano nelle banche centrali che, invece, gli riconoscono interessi del 4,5%: un furto con scasso talmente palese che anche la Giorgiona nazionale, qualche mese fa, aveva fatto finta di volere per lo meno tassare; dopo un paio di giorni i titoloni sui giornali, però, sono scomparsi insieme alla tassa e così oggi “I dividendi staccati dalle società del credito hanno rappresentato un quarto della crescita globale del primo trimestre, con un aumento del 12%”. E’ l’ultimo tassellino di un trend che va avanti, inesorabile, da oltre 40 anni: “Dagli anni ‘80” ricorda il nostro buon vecchio Andrea Roventini su Il Fatto, “la fetta del PIL che va al 50% più povero è in discesa mentre l’1% e lo 0,1% più ricco stanno incamerando una frazione sempre maggiore del reddito”. E il problema non è soltanto per quello che ci mettiamo in tasca noi persone comuni direttamente, ma anche per tutto quello che ci mettiamo indirettamente – e, cioè, quello che dovrebbe garantirci lo Stato – perché il 5% più ricco non si limita a incassare più quattrini, ma, in piena violazione del dettato costituzionale, più è ricco e meno tasse paga: “Il sistema fiscale italiano” continua infatti Roventini “è già piatto sostanzialmente per tutte le classi di reddito, e quando arriviamo al 5% più ricco diventa addirittura regressivo”. Insieme ad altri 134 economisti, il buon Roventini, allora, ha presentato una semplice proposta di una tassa sui grandi patrimoni; in soldoni, si tratterebbe di introdurre tre novità: la prima, una tassa progressiva sul patrimonio dello 0,1% più ricco, a partire dalle montagne di titoli azionari che i super-ricchi concentrano nelle loro mani e che sottraggono risorse all’economia. Poi si tratterebbe di aumentare le tasse su successioni e donazioni oltre una certa soglia, dal momento che – sottolineano gli economisti – “siamo una sorta di paradiso fiscale per le successioni”; e, infine, di introdurre nuovi scaglioni IRPEF che, negli anni, sono passati dai 32 del 1974 (quando l’Italia era ancora una democrazia moderna e cercava di applicare il dettato costituzionale) ai 3 di oggi.
Peccato che, invece dei nostri 134 economisti, al governo ci sia la peggiore destra svendipatria fintosovranista e vera amica di oligarchie ed evasori e che la delega fiscale – che è proprio adesso in fase di attuazione – vada ancora in senso diametralmente opposto. Insomma: invece che prima gli italiani, prima i padroni d’oltreoceano e poi gli italiani sì, ma esclusivamente ultraricchi. Contro la doppia rapina, è arrivata l’ora di tornare ad alzare la testa: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della sinistra ZTL e della destra fintosovranista, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!





Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

La Cina di Xi umilia l’impero e costringe Rimbambiden e le oligarchie a chiedere la grazia

Alleluja, alleluja! Forse Rimbambiden, finalmente, comincia a prendere atto della realtà e abbassa un po’ la cresta: Stati Uniti e Cina tornano al dialogo titolava ieri Libero; Una telefonata per il disgelo rilanciava Il Giornale. Martedì scorso, infatti, Rimbambiden ha smesso per ben 105 minuti la divisa da padrone del pianeta e ha chiesto udienza a Xi Dada; avrebbe preferito continuare a provocarlo con i suoi berretti verdi mandati ad addestrare il personale taiwanese a 2 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare, ma probabilmente ha realizzato che, giorno dopo giorno, la grande strategia per arrivare al conflitto diretto contro l’unica superpotenza in grado di sfidare il primato USA perde sempre più pezzi. Il braccio armato dell’impero per il dominio del Medio Oriente ha perso la capa e, dopo 6 mesi di sterminio indiscriminato, rischia di impantanare gli USA in una guerra regionale in Medio Oriente senza via d’uscita; dopo due anni di guerra per procura in Ucraina, la Russia sembra più in forma che mai e l’Europa non è riuscita a fare mezzo passo per accollarsi la guerra di logoramento e lasciare gli USA liberi di concentrarsi sul Pacifico e il terzo fronte, quello della guerra economica e commerciale contro la Cina, ha raggiunto risultati soddisfacenti solo negli editoriali de Il Foglio e der Bretella Rampini. Per Foreign Affairs, invece, meglio non farsi troppe illusioni perché “La Cina sta ancora crescendo” e, in un lungo e dettagliato articolo, spiega – numeri alla mano – perché tutto l’allarmismo della propaganda suprematista occidentale è, molto banalmente, completamente infondato.
L’unica nota positiva, non da poco, è che sono riusciti a bastonare talmente forte gli altri membri della NATO che nessuno ha più neanche l’ambizione di far sentire la sua voce e gli USA si sono garantiti un altro anno di crescita economica letteralmente rapinando gli alleati, ma anche qui le perplessità non mancano perché, per scippare gli investimenti ai vassalli, gli USA hanno dovuto aprire i rubinetti del debito pubblico e proprio mentre, per attirare capitali, alzavano i tassi dei buoni del tesoro USA a livelli record. Risultato: Bloomberg Economics ha eseguito un milione di simulazioni per valutare le prospettive del debito americano e “L’88% mostra che l’indebitamento segue un percorso insostenibile”, ma non solo; per tentare di tornare ad essere una grande superpotenza manifatturiera – che è una precondizione necessaria anche solo per pensare di poter fare una guerra contro la Cina e uscirne vivi – gli USA hanno rinunciato a rafforzare i legami commerciali con il resto del mondo, a partire dai paesi dell’ASEAN, i 10 paesi del Sudest asiatico strategicamente indispensabili per accerchiare la Cina. Gli USA partivano pure avvantaggiati perché, ovviamente (e anche legittimamente), come sempre, i paesi temono di più il gigante cinese che hanno dietro casa che non quello USA che sta a migliaia di miglia di distanza, anche se è strutturalmente più aggressivo e, infatti, ancora l’anno scorso, secondo un sondaggio dello Yusof Ishak Institute, il 61% degli abitanti dei paesi dell’ASEAN dichiarava di preferire gli USA alla Cina; un anno dopo il quadro era totalmente stravolto, con i filocinesi che diventavano, per la prima volta nella storia, maggioranza assoluta raggiungendo quota 50,5%, un’evoluzione che vi avevamo anticipato qualche mese fa quando, proprio mentre Xi e Biden si stringevano la mano a San Francisco, il vertice dell’APEC si concludeva con un clamoroso nulla di fatto. Gli USA, infatti, sulla spinta sacrosanta dei principali sindacati del paese, si sono rifiutati di siglare l’Indo-Pacific economic framework, l’accordo di libero scambio che avrebbe aperto i mercati statunitensi ai produttori del sud est asiatico, e hanno lanciato così un segnale chiaro ai paesi dell’area: abbiamo bisogno di voi per contrastare l’ascesa cinese, ma non ci chiedete qualcosa in cambio perché, in questo momento, non ce lo possiamo permettere.
La Cina invece, nel frattempo, consolidava la sua posizione di principale partner commerciale per tutti i paesi dell’area e, in parte, è proprio grazie alle geniali strategie di USA e vassalli all’insegna del decoupling e del friendshoring che hanno avuto una conseguenza paradossale: importiamo meno dalla Cina e di più da altri paesi asiatici che, però, spesso non fanno altro che assemblare prodotti cinesi e, quindi, diventano sempre più dipendenti dalla Repubblica Popolare. Ma non solo: la Cina, infatti, che è a corto di risorse solo sui nostri giornali, è tornata a investire pesantemente lungo la via della Seta e, come al solito, nonostante badi ai suoi interessi, in modo molto meno predatorio di quanto fatto in passato dalle ex potenze coloniali. Come, ad esempio, in Indonesia: Widodo ha deciso di mettere fine al furto di nichel da parte delle multinazionali e ha introdotto il divieto all’esportazione della materia prima non lavorata, imponendo così alle aziende di investire nel paese per introdurre la lavorazione della materia prima e portare così occupazione e ricchezza. Le oligarchie occidentali si sono incazzate come bestie; i cinesi, invece, l’hanno sostenuto e hanno fatto investimenti giganteschi. Risultato: il 70% degli indonesiani afferma di preferire la Cina agli USA. Ma prima di andare avanti e raccontarvi, per filo e per segno, come Rimbambiden è riuscito a inimicarsi mezzo pianeta, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare le notifiche: a voi non costa niente e a noi aiuta a provare a rompere il muro della propaganda suprematista.

Joe rimbamBiden

Prima che Rimbambiden si decidesse ad alzare la cornetta, a capire che non era tanto il caso di fare troppo i bulli con Xi Dada erano stati le stesse oligarchie USA: il primo appuntamento risale al novembre scorso quando, a latere dell’APEC di San Francisco – mentre gli USA facevano infuriare gli uomini d’affari americani e asiatici rifiutandosi di siglare l’Indo-Pacific economic framework – Xi veniva accolto, come titolava il Financial Times, dal mondo del business con una standing ovation; il 22 marzo, poi, una delegazione di dimensioni mai viste si è recata ricca di speranza al China Development Forum, la Davos cinese e, due giorni dopo, una rappresentanza di una ventina di multimiliardari capitanati da Stephen Schwarzman di Blackstone e Cristiano Amon di Qualcomm sono andati a rendere omaggio direttamente a Xi nella Grande sala del Popolo, il luogo in assoluto più iconico del governo indiscusso del Partito Comunista cinese. Il motivo è piuttosto semplice: tutte le favolette sulla crisi cinese che leggete dagli analfoliberali del gruppo Gedi o sentite farfugliare sul web dai vari Boldrin e Forchielli, molto semplicemente, sono sostanzialmente puttanate e chi, nella vita, non ambisce ad altro che a fare sempre più quattrini, lo sa bene. E per scoprirlo non c’ha manco bisogno di seguire Ottolina Tv: basta leggersi l’Economist o Foreign Affairs, dove Nicholas Lardy del Peterson institute for international economic si è preso la briga di smontare, una per una, le principali leggende metropolitane della propaganda suprematista.
Lardy ricorda come “Per oltre due decenni, la fenomenale performance economica della Cina ha impressionato e allarmato gran parte del mondo. Ma dal 2019, la crescita lenta della Cina ha portato molti osservatori a concludere che la Cina ha già raggiunto il picco come potenza economica e il presidente Biden lo ha anche affermato chiaramente nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di marzo: Per anni, ha dichiarato, ho sentito molti dei miei amici repubblicani e democratici dire che la Cina è in crescita e l’America è in ritardo. E’ il contrario della realtà”, “ma questa visione sprezzante del paese” sottolinea sarcastico Lardy “potrebbe sottovalutare la resilienza della sua economia”; secondo Lardy, il pessimismo sulle prospettive dell’economia cinese si fonda su una lunga serie di fraintendimenti, regolarmente contraddetti dai dati oggettivi: il primo è “che il reddito delle famiglie, la spesa e la fiducia dei consumatori in Cina siano deboli”. Purtroppo però, fa notare Lardy, “I dati non supportano questa visione”; nel 2023, infatti, ricorda Lardy, sono successe due cose significative: la prima è che mentre in tutto l’Occidente collettivo il potere d’acquisto delle famiglie crollava a causa dell’inflazione e della moderazione salariale, “in Cina il reddito reale pro capite è aumentato del 6%” – mentre a noi, in Italia, in due anni ci levavano dalle tasche l’equivalente di poco meno di due stipendi. Ma non è tutto, perché in Cina, al contrario delle leggende, il consumo pro capite aumentava ancora di più: +9%; in Italia, per dire, il consumo al dettaglio è in diminuzione da 20 mesi consecutivi. “Il secondo fraintendimento” continua Lardy “è che la Cina sia entrata in una fase deflattiva” e, cioè, quando i prezzi – nel tempo – diminuiscono invece che aumentare, disincentivando sia i consumi che gli investimenti e aprendo, così, le porte alla recessione. Ora, “E’ vero che i prezzi sono aumentati soltanto dello 0,2% l’anno scorso”, ma questo è dipeso, in buona parte, dal fatto che ad essere diminuiti sono stati i costi di cibo ed energia mentre il resto, quella che si chiama inflazione core, è aumentata dello 0,7%, tant’è che le aziende, invece di usare i profitti per abbattere il debito (come si fa quando è in arrivo una recessione), si sono indebitate ulteriormente per investire e “gli investimenti nel manifatturiero, minerario, dei servizi pubblici e dei servizi in generale”: ed ecco così che, alla fine del 2023, nel paese si contavano la bellezza di 23 milioni di nuove aziende familiari; in Italia ne erano state chiuse qualche decina di migliaia.
Quello che confonde gli analfoliberali e i cantori della finanziarizzazione, come sottolinea l’Economist, è che “quando un paese raggiunge il livello di sviluppo della Cina, l’economia tipicamente ruota verso i servizi”. Ma nel caso del socialismo con caratteristiche cinesi “il cuore del governo è altrove”; come sottolinea Tilly Zhang di Gavekal Dragonomics “Ciò che la Cina vuole veramente essere è il leader della prossima rivoluzione industriale” e non è solo questione di crescita nominale del PIL – e fa specie che, per vederlo scritto, si debba leggere una bibbia dell’ortodossia come l’Economist, perché la sinistra progressista non ci arriva manco se ce li accompagni per mano. Il tema è quello dello sviluppo delle Nuove forze produttive, il nuovo tormentone del vocabolario ufficiale del partito: “L’espressione nuove forze produttive” scrive l’Economist “evoca l’idea dialettica secondo cui un accumulo di cambiamenti quantitativi può provocare una rottura qualitativa o un salto improvviso, come diceva Hegel, come quando un aumento incrementale della temperatura a un certo punto trasforma l’acqua in vapore. Marx” continua l’Economist “notava che quando nuove forze produttive raggiungono un peso sufficiente nell’economia, possono stravolgere l’ordine sociale: Il mulino a mano ti dà la società con il signore feudale, scrisse; il mulino a vapore, la società con il capitalista industriale”.
Secondo Barry Naughton dell’Università della California, “La strategia di innovazione della Cina è il più grande impegno di risorse governative della storia verso un obiettivo di politica industriale”; “I risultati” continua l’Economist “sono stati migliori di quanto qualsiasi paese a reddito medio potesse aspettarsi” e ricorda come l’Australian Policy Research, l’anno scorso, aveva documentato come – in una lunga lista di 64 tecnologie critiche – la Cina, in termini di impatto delle pubblicazioni scientifiche in materia, dominava in tutte, a parte una decina. “Il Paese” continua l’Economist “è il numero uno nelle comunicazioni 5G e 6G, nonché nella bioproduzione, nella nanoproduzione e nella produzione additiva. È all’avanguardia anche nei droni, nei radar, nella robotica e nei sonar, nonché nella crittografia post-quantistica”. Il Global Innovation Index, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, combina circa 80 indicatori che abbracciano infrastrutture, normative e condizioni di mercato, nonché investimenti in ricerca, numero e importanza dei brevetti e numero di citazioni nella letteratura scientifica: un paese a reddito medio con un PIL pro capite come quello cinese si dovrebbe collocare, su per giù, verso la sessantesima posizione; la Cina è al 12° posto.
E mentre la Cina continua a concentrare una quantità incredibile di risorse per sviluppare le nuove forze produttive, anche a costo di rinunciare a qualcosina in termini di crescita nominale del PIL e in attesa che l’intensità tecnologica sia tale da imporre un cambio radicale anche dei rapporti di produzione, le occasioni per fare una montagna di quattrini non mancano: basta vedere l’incredibile caso di Huawei che nel 2023, nonostante la guerra commerciale a 360 gradi ingaggiata dall’Occidente collettivo (che, ormai, ha abbandonato completamente la retorica del libero mercato e combatte la concorrenza esclusivamente a colpi di protezionismo e restrizioni), ha registrato una crescita dell’utile netto del 144%; oltre alle infrastrutture per le telecomunicazioni, dove Huawei – nonostante tutto – rimane leader indiscussa, a trainare i conti dell’azienda a partire dall’ultimo trimestre, in particolare, è stato il Mate 60 pro, lo smartphone che ha fatto sudare freddo tutto l’Occidente. Come ricorda Asia Times, infatti, il Mate 60 pro è dotato di un processore che “a causa delle sanzioni imposte dagli USA e che hanno impedito all’olandese ASML di vendere in Cina i suoi sistemi di litografia ultravioletta estrema, il dipartimento del commercio statunitense aveva pensato che sarebbe stato impossibile produrre”; per arrivare a questo risultato, Huawei “ha speso per la ricerca e lo sviluppo nel 2023 il 23,4% dei suoi ricavi, più del doppio di quanto investe la coreana Samsung. E’ il terzo anno di fila che la spesa supera il 20% del fatturato, e permette di diversificare la linea di prodotti e aggirare le sanzioni imposte dagli USA”. In generale, sottolinea uno studio del Center for Strategic and International Studies, “Il sostegno statale cinese per la politica industriale è eccezionalmente alto, stimato a 406 miliardi di dollari, ovvero l’1,73% del PIL, nel 2019. Contro lo 0,39% del PIL negli Stati Uniti e allo 0,5% in Giappone”; il Financial Times ricorda come “Negli Stati Uniti e in Europa, i politici temono che una spesa così pesante si tradurrà in un’ondata di esportazioni di prodotti high tech a basso costo dalla Cina che potrebbero spostare le industrie nazionali e mettere a rischio la sicurezza nazionale”.
Ma quanto saranno belli gli imperialisti e i suprematisti? Fino a che gli torna comodo, spacciano la libertà del commercio come l’unica vera religione civile rimasta; quando poi non sono più competitivi, gettano la religione nel cesso e reintroducono sanzioni arbitrarie e misure protezionistiche di ogni tipo e quando, poi, uno reagisce investendo tutto quello che ha per guadagnarsi l’indipendenza tecnologica, si mettono a frignare perché, grazie a quegli stessi investimenti, minaccia di invaderli con prodotti enormemente più competitivi anche nei settori tecnologicamente più avanzati, che pensavano fossero appannaggio dell’uomo bianco per manifesta superiorità culturale, se non – addirittura – genetica. E poi uno si chiede del perché l’Occidente non faccia altro che scatenare guerre ovunque… e graziarcazzo: non è che gli rimangano poi tante carte da giocarsi, a meno che non lo rovesciamo come un calzino e mandiamo a casa i Rimbambiden di tutto il pianeta; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin