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Tag: comunità

Le comunità energetiche sono la rivoluzione del futuro – ft. Dario Tamburrano


Oggi Dario Tamburrano ci parla di comunità energetiche, uno strumento organizzativo che può cambiare il nostro futuro collettivo. Come riorganizzare l’economia dell’Unione europea in senso ecologico, evitando i rischi del keynesismo di guerra? Cerchiamo di capirlo assieme in questa intervista. Dario Tamburrano è candidato per il M5S nella circoscrizione Italia centrale (Lazio, Toscana, Umbria, Marche) alle elezioni europee dell’8-9 giugno. Buona visione!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Come la propaganda sta cercando di uccidere Aaron Bushnell per la seconda volta

Sarà che mi sto facendo un po’ anzianotto, ma questa volta mi gira il cazzo sul serio e, secondo me, ti dovrebbe girare anche a te – e anche parecchio; ieri, infatti, i nostri giornali hanno letteralmente ammazzato Aaron Bushnell una seconda volta: Aaron Bushnell è l’aviatore statunitense che martedì è morto dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington mentre gridava a squarciagola free Palestine. Prima del gesto drammatico aveva pubblicato un breve messaggio sulla sua pagina Facebook, che non usava praticamente mai: “Molti di noi amano chiedersi Cosa farei se fossi vissuto durante la schiavitù? O quando sono state introdotte le leggi Jim Crow negli Stati del Sud (e cioè le leggi che ufficializzavano la segregazione razziale)? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è proprio quello che stai facendo. Proprio adesso.” E questo è l’inizio del video straziante che riprende l’episodio, pubblicato in diretta da Aaron stesso: ” non sarò più complice di questo genocidio. Sono un membro delle forze aeree statunitensi in servizio attivo e sto mettendo in scena un atto di protesta estremo, ma che rispetto a cosa stanno subendo in Palestina per mano dei colonizzatori, non dovrebbe essere visto per niente come estremo. E’ solo quello che le nostre classi dirigenti hanno deciso dovesse diventare la normalità”.
Ovviamente il gesto eclatante di Aaron è diventato immediatamente virale: dopo poche ore, negli Stati Uniti, ad esempio, su X era di gran lunga in testa ai trending topics con la bellezza di 814 mila post; in un mondo normale, la mattina dopo avrebbe riempito le prime pagine di tutti i giornali – e quando dico un mondo normale non intendo il mio mondo ideale, ma proprio quello che ci spacciano per il mondo reale dove, a guidare tutto, sarebbe questa fantomatica mano invisibile del mercato e l’informazione sarebbe una merce come le altre (che poi, intendiamoci, quando in ballo ci sono i Ferragnez o la Champions league, è davvero così). Ma – si vede – non vale sempre: quando ieri mattina, infatti, mi sono messo a spulciare i giornali, c’era qualcosa che non mi tornava. Come sempre sono partito dai giornali filogovernativi, che sono il vero mainstream italiano di oggi; prima Il Giornale, ma niente: in tutto il pdf il nome di Aaron Bushnell non viene citato manco una volta. Libero idem. Vabbe’, almeno su La Verità qualcosa ci sarà scritto: non è il giornale contro i poteri forti? Macché: anche qui nada. Stai a vedere che ha ragione la sinistra ZTL quando dice che questi sono pericolosi e che bisogna affidarsi a Carletto libro cuore Calenda e al PD per arrestare l’ondata nera; i giornali dell’opposizione, allora, approfitteranno della ghiotta occasione! Macché: Corriere niente, Stampa idem, Repubblica uguale e pure Il Domani; credo sia la prima volta nella storia del giornalismo ai tempi dei social media che la notizia di gran lunga più virale della giornata, il giorno dopo non è nemmeno citata in nessuno dei principali giornali italiani.
D’altronde, per tentare di far dimenticare il sostegno incondizionato dell’Occidente collettivo al primo genocidio trasmesso in diretta streaming, il livello di censura e disinformazione unitaria del partito unico della guerra e degli affari deve necessariamente toccare vette inesplorate e, così facendo, i nostri media hanno ammazzato Aaron Bushnell per la seconda volta: non solo di fronte alla cappa della propaganda ti senti così disperato da ricorrere al più drammatico dei gesti possibili immaginabili, ma – anche in quel caso – la cappa è talmente fitta e impenetrabile che faremo di tutto perché il gesto sia completamente vano. Sarebbe il caso di provare a impedirglielo e, magari, fare in modo che gli si ritorca pure contro: facciamo in modo che questa immagine diventi il peggiore dei loro incubi; postiamola, ripostiamola, condividiamola, mandiamola ovunque ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a che non rompiamo questa cappa per non permettere che il suo sacrificio estremo sia vano. Con questo video, come Ottolina Tv cerchiamo di dare i nostri cinquanta centesimi.

Aaron Bushnell

Prima di sparire completamente in tempo record dai radar dei grandi media, la tragica vicenda di Aaron Bushnell una breve apparizione nei titoli delle principali testate globali era riuscita a strapparla, in un modo che grida vendetta: Uomo muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana di Washington, secondo la polizia titolava il New York Times; idem con patate il Washington Post: Aviatore muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. La BBC invece: Aviatore USA muore dopo essersi dato fuoco di fronte all’ambasciata di Israele, cioè identico: avete notato niente? Esatto: nessun riferimento alle cause, manco per sbaglio; in nessun titolo, nemmeno per caso, viene mai citata Gaza, o la Palestina, o il massacro in corso. Black out totale. Evidentemente aveva freddo e la situazione gli è sfuggita di mano e poi, sicuramente, si sarà trattato di uno svitato: quando uno è guidato da qualcosa che non rientra nella linea editoriale del New York Times e del Washington Post è sempre uno svitato, quasi per definizione; eppure auto – immolarsi non è sempre stato considerato un gesto da svitati.
Facciamo un passo indietro. 2 ottobre 2020: la giornalista russa Irina Slavina, attivista sociale e politica e direttrice del giornale online Koza Press muore dopo essersi auto – immolata di fronte alla direzione principale del ministero degli affari interni russo di Novgorod, e questo è il titolo del New York Times: Giornalista russa si dà fuoco e muore, INCOLPANDO IL GOVERNO. Questo, quello della BBC: La protesta finale della giornalista russa che si è data fuoco; in questo caso non era un gesto folle e non c’era manco bisogno di riscaldarsi: era una protesta politica drammatica carica di dignità e di pathos. D’altronde, non vorrai mica mettere l’urgenza di opporsi al regime di Putin rispetto all’urgenza di opporsi al più grande massacro di civili del XXI secolo e, quindi, qui la motivazione nei titoli non poteva mancare. D’altronde, come ricorda Ben Norton, tempo fa uno studio dell’American Press Institute aveva sottolineato come solo 4 lettori su dieci, oltre al titolo, leggono pure almeno una parte dell’articolo; due anni dopo, ricorda sempre Norton, due ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che nel 59% dei casi, quando qualcuno condivide un link su qualche social, non ha nemmeno aperto l’articolo e si è fermato al titolo: la stragrande maggioranza di chi va oltre il titolo si ferma, comunque, ai primi paragrafi. Ed ecco allora il capolavoro: nell’articolo del Washington Post, ad esempio, nei primi 4 paragrafi si continua a non fare nessunissimo accenno alle cause che hanno portato Aaron Bushnell a compiere il suo gesto disperato e quando finalmente, al quinto paragrafo (dopo un bel banner pubblicitario gigantesco) si riportano le motivazioni, si fa esclusivamente citando le parole di Bushnell, della serie pensate a ‘sto povero matto: s’è inventato un genocidio e poi, per protestare contro un genocidio immaginario, s’è dato pure fuoco.
La carta dell’infermità mentale ovviamente, in questi casi, è sempre la preferita: assistere allo sterminio di 15 mila bambini parlando del diritto alla difesa di Israele è da sani di mente; sacrificarsi per impedirlo è da psicopatici. Non fa una piega. Non faccio fatica a credere che ogni giornalista a libro paga del mainstream lo creda davvero: antropologicamente, sono esattamente questa roba qui, c’è poco da girarci attorno. Qui, per supportare la carta dell’infermità mentale, si è fatto riferimento al rapporto della polizia redatto all’arrivo di Aaron in ospedale; a lanciare il carico c’ha pensato Newsweek: “Un rapporto della polizia” scrivono “afferma che Aaron Bushnell stava mostrando segni di disagio mentale”. Mado’ che infami, proprio. Il rapporto infatti è questo: i segni di disagio mentale mostrati da Aaron, molto semplicemente, consisterebbero nel fatto che, prima di darsi fuoco, ha urlato free Palestine. Come testimonia il video che ha registrato, infatti, prima di quel momento Aaron è incredibilmente tranquillo e parla in modo molto composto nella camera mentre cammina; poi si ferma davanti all’ambasciata, si rovescia il liquido infiammabile addosso e urla a squarciagola free Palestine un paio di volte prima di darsi fuoco: il disagio mentale è questo e nei media è diventato l’indizio della sua follia. La stronzata, però, era talmente grossa che almeno i media principali l’hanno lasciata da parte, e siccome non si poteva più dire che era uno squilibrato, semplicemente se lo sono scordati. Il punto infatti è che, per quello che sappiamo ad oggi, Aaron non era squilibrato manco per niente; anzi, nelle ore successive – soprattutto grazie al lavoro di una giornalista indipendente di quelle cocciute come un mulo, Talia Jane, forte solo del suo piccolo account Twitter – sono cominciate ad emergere un po’ di cose interessanti: la prima è che da quando Aaron si era trasferito a San Antonio per proseguire la sua carriera militare, aveva subito cominciato a fare volontariato in un’associazione che dà sostegno ai senzatetto e che chi c’ha lavorato accanto nell’associazione ne parla come di “uno dei compagni con più principi che abbia mai conosciuto“; uno che “cerca sempre di pensare a come possiamo effettivamente raggiungere la liberazione per tutti, con un sorriso sempre sul volto” ribadisce un altro amico. E pare proprio che ‘sta cosa qua di aiutare gli ultimissimi ce l’avesse proprio di vizio: poco dopo, infatti, a esprimere cordoglio ci si mette questa strana associazione che si chiama Serve the People, servire il popolo. Più matti di così… Sono di Akron, la cittadina dell’Ohio dove Aaron si era trasferito da poco, e ricordano come non appena era arrivato in una città che “era ancora nuova per lui”, si era “subito attivato per aiutare i senza alloggio e in qualsiasi altro progetto dell’associazione”: “Gli saremo per sempre grati per lo sforzo che ha fatto per rendere Akron un posto migliore”. E ti credo che i pennivendoli in carriera del Post e del Time lo prendono per matto: cosa ci può mai avere nella testa uno che, quando arriva in una città, invece di impegnarsi per capire a chi può fare le scarpe per qualche scatto di carriera, si mette ad aiutare i più sfigati? Ma la prova provata che siamo di fronte a un autentico squilibrato la tira fuori, ancora una volta, Newsweek; spulciando il suo profilo Facebook – che conta, in tutto, 5 post e 100 amici – Newsweek, infatti, ha trovato la pistola fumante. Tra le pagine a cui Aaron ha messo mi piace ci sono, infatti, addirittura due pagine legate a dei gruppi anarchici: il Burning River Anarchist Collective che, addirittura, pubblica e distribuisce libri sull’anarchia e l’anticapitalismo, e la Mutual Aid Street Solidarity che addirittura, pensate un po’, si occupa di riduzione del danno nei quartieri più malfamati fornendo siringhe pulite e altra assistenza per evitare la morte certa ai tossici. Ma la cosa più inquietante è che mentre Aaron coltivava questi interessi veramente inconfessabili, riusciva pure a costruirsi una carriera di un qualche successo: da 3 anni infatti, come riporta il suo profilo Linkedin, lavorava per l’aeronautica militare come ingegnere nel settore cosiddetto DevOpsm, cioè in quel settore che tiene insieme sviluppatori di software e tecnici delle telecomunicazioni; un impiego che, riporta iNews, gli avrebbe garantito un salario superiore ai 100 mila dollari l’anno. Ed era solo l’inizio: Aaron, infatti, aveva intenzione di abbandonare l’aeronautica, ma prima di farlo si stava prendendo una nuova laurea triennale in ingegneria software presso la Western Governor University; la sua malattia, insomma, era riuscire a fare quello che un giornalista medio del Times non è in grado di fare nemmeno se rinasce, ma senza per questo essere diventato un’insopportabile faccia di merda. Ovvove! Visto che Aaron lo squilibrato sembrava gestirsela piuttosto benino, allora ecco che sono andati a cercare il trauma infantile che covava sotto l’apparente tranquillità; a trovarlo è stato il Post, che come idea di equilibrio e sanità mentale ha come riferimento il suo editore Jeff Bezos e che ha scovato dei particolari inquietanti nell’infanzia di Aaron. Aaron, infatti, proveniva da un piccolo paesino del Massachussets e la sua famiglia era addirittura religiosa, di una specie di setta sostiene il Post: si chiama La Comunità di Gesù, talmente setta che un ex membro avrebbe confessato al Post che “molti di quelli tra noi che sono usciti, sono molto interessati alla giustizia sociale” e infatti, riporta scandalizzato il Post, alcuni amici di Aaron avrebbero ammesso che stava cercando di trovare un nuovo lavoro non troppo impegnativo che gli avrebbe permesso di guadagnare il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandogli – addirittura! – il tempo di dedicarsi all’attivismo e alla politica che, per i sociopatici in carriera, è sostanzialmente la definizione stessa di squilibrio mentale, diciamo. Questo passato bacchettone in questa setta segreta, sostanzialmente, avrebbe covato sotto le ceneri fino ad esplodere in questo gesto eclatante privo di senso. O forse no; prima di procedere verso il sacrificio finale, infatti, Aaron non sembra aver agito con chissà quale impulsività: “Ha fatto tutti i passi necessari per assicurarsi che tutto ciò che aveva venisse curato adeguatamente” ha affermato un’amica a iNews, “come il suo gatto, che ha lasciato a un vicino. Quindi sì, è stato razionale e sapeva esattamente cosa stava facendo”. Ma com’è possibile che uno razionalmente si immoli per una causa quando noi, per due lire, siamo disposti a scrivere ogni sorta di vaccata sbattendocene completamente il cazzo delle conseguenze? Non c’è verso: Aaron Bushnell per la merda suprematista rimarrà per sempre un mistero.
Eppure Bushnell non è il primo che ricorre all’auto – immolazione: il precedente più celebre sono i famosi monaci buddhisti durante la carneficina in Vietnam che, tra l’altro, anche allora vennero emulati da alcuni cittadini americani; in particolare, un paio di ferventi quaccheri che in quel caso, però, nessuno accusò di essere degli psicopatici. Altri tempi. A cercare di spiegare l’etica che sta dietro un gesto del genere a quegli individualisti incorreggibili degli occidentali allora ci pensò Thich Nhat Hanh, il celebre monaco che Martin Luther King voleva candidare al premio Nobel per la pace: “La stampa” scriveva Thich Nhat Hanh “parla di suicidio. Ma non lo è. Non è nemmeno propriamente una protesta. Quello che i monaci affermano nelle lettere che lasciano prima di auto – immolarsi è che il gesto mira a creare un allarme, a muovere i cuori degli oppressori e a richiamare l’attenzione del mondo sulle sofferenze patite dai vietnamiti. Bruciarsi vivo serve a dimostrare che quello che una persona sta dicendo è della massima importanza. Non c’è niente di più doloroso che bruciarsi vivo. Affermare qualcosa mentre stai provando una tale sofferenza prova che la stai dicendo con il massimo del coraggio, della franchezza, della determinazione e della sincerità”. “Il monaco che si auto – immola” continua Thich Nhat Hanh “non ha perso né il coraggio né la speranza; e non ha nessun desiderio di non esistenza. Al contrario, è molto coraggioso e speranzoso e aspira a qualcosa di positivo per il futuro. Non ambisce ad autodistruggersi, ma semplicemente crede che i suoi simili potranno beneficiare del suo sacrificio”.

Pat Ryder

Insomma: un modello un po’ diverso da quello dei pennivendoli spregiudicati che, se devono pensare a un modello di equilibrio, piuttosto pensano a Pat Ryder, il portavoce del Pentagono; durante la conferenza stampa rilasciata in seguito all’episodio, gli è stato chiesto se non è preoccupato che un gesto come questo sveli un disagio più profondo nelle forze armate per come stiamo garantendo il nostro sostegno alle azioni di Israele. “Dal punto di vista del dipartimento della difesa” ha risposto impassibile Ryder “dall’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre ci siamo concentrati in particolare su 4 questioni chiave: proteggere le forze armate e i cittadini USA nella regione, supportare il diritto di Israele alla difesa, lavorare fianco a fianco con Israele per il rilascio degli ostaggi e assicurarsi che la situazione non degeneri in un conflitto regionale allargato. Questi sono gli obiettivi che continueranno a indirizzare la nostra azione in Medio Oriente, e il nostro supporto a Israele continua ad essere corazzato”.
30 mila civili uccisi, 15 mila bambini, la più grande crisi umanitaria di sempre manco je so venuti in mente: ecco, lui è quello normale; davvero abbiamo intenzione di stare a guardare mentre passa l’idea che la normalità è sostenere attivamente un genocidio? Noi non ci stiamo e non permetteremo che il sacrificio di Aaron sia vano: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si batta quotidianamente contro il capovolgimento della realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

L’ALTRO GENICIDIO DEL MEDIORIENTE: perché l’Occidente nasconde il massacro dei curdi

Decine di migliaia di civili uccisi, centinaia di villaggi distrutti, milioni tra donne e bambini costretti a lasciare per sempre le proprie case. No, non parliamo del trattamento di Israele verso i palestinesi, ma del genocidio curdo che l’esercito turco, che è il secondo più grande della Nato, sta eseguendo in Mesopotamia.

Paolo Negro

I curdi, da 9 anni, stanno respingendo l’avanzata dell’ISIS e – quindi – stanno salvando l’Occidente da un’ondata di terrorismo senza precedenti: in cambio subiscono ancora oggi un massacro da parte del regime di Erdogan che sabota le infrastrutture civili, occupa illegalmente una parte della Siria per facilitare i corridoi dei terroristi dell’ISIS e che, negli ultimi mesi, sta commettendo omicidi quotidiani approfittando dell’attenzione mediatica su Gaza ed Ucraina. Io sono Paolo Negro, studio politica internazionale all’Accademia della modernità democratica e in questo video vi parlerò di questo genocidio e del motivo per cui se noi occidentali continueremo ad ignorarlo e ad accettare le politiche criminali dei nostri governi, saremo i primi a rimetterci la pelle.
Settembre 2014: l’ISIS assedia la città di Kobane a nord della Siria, al confine con la Turchia, all’interno dell’Amministrazione Autonoma che dal 2011 prende il nome di Rojava. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, oltre 400.000 persone sono costrette a lasciare le proprie case. La resistenza dei curdi è messa a durissima prova perché la superiorità militare dell’ISIS, apparentemente, è schiacciante; tutto merito del petrolio. E della Turchia. Come scriveva Martin Chulov sul Guardian, infatti, “Il commercio di petrolio tra i jihadisti e i turchi è stato ritenuto come prova di un’alleanza tra i due. I ricavi giornalieri tra 1 e 4 milioni di dollari affluiti nelle casse dell’ISIS per almeno sei mesi dalla fine del 2013 hanno contribuito a trasformare una forza ambiziosa con mezzi limitati in una potenza inarrestabile”. “Ci sono centinaia di unità flash e documenti sequestrati ed i collegamenti tra Turchia e ISIS sono innegabili” avrebbe poi dichiarato un alto funzionario occidentale all’Observer.

Martin Chulov

“La maggior parte dei combattenti che si sono uniti a noi all’inizio della guerra” avrebbe poi confessato un comandante dell’ISIS al Washington Post “sono arrivati attraverso la Turchia, e così hanno fatto le nostre attrezzature e forniture”. Il 19 gennaio del 2014, ad Adana, tre camion vengono fermati per un’ispezione di routine: “Quando sono stati fermati”, scrive il giornalista turco Burak Bekdil del think tank Middle East Forum, “gli agenti dell’intelligence turca hanno cercato di impedire agli ispettori di guardare all’interno delle casse”. Fortunatamente il tentativo non va in porto: le guardie non si lasciano intimidire e quello che si ritrovano di fronte è un vero e proprio arsenale di “razzi, armi e munizioni” destinati “all’ISIS e ad altri gruppi in Siria”. Secondo la ricostruzione di Bekdil il camion era stato caricato ad Ankara; i conducenti, poi, lo avrebbero portato fino al confine, dove alla guida sarebbe subentrato direttamente un agente dell’intelligence turca e, secondo Bekdil, “questo è accaduto molte altre volte”. Il 21 ottobre Bekdil è deceduto in seguito a un incidente stradale; negli ultimi articoli aveva aspramente criticato le posizioni di Erdogan nei confronti del genocidio israeliano a Gaza. Nel sanguinario e incandescente scacchiere del vicino Oriente, ognuno sceglie quali vittime omettere dal bilancio; fatto sta che, due mesi dopo il sequestro del carico, una registrazione audio ha offerto una lettura realistica della politica siriana del regime turco. I pezzi da novanta di Ankara, infatti, avrebbero affermato apertamente che un attacco alla Siria per la Turchia rappresenterebbe un’opportunità succulenta: “Un’operazione sotto falsa bandiera”, avrebbe affermato Il capo dello spionaggio Hakan Fidan, “sarebbe molto facile”. D’altronde, avrebbe sottolineato, avevano già inviato con successo duemila camion in Siria. “I comandanti dell’ISIS ci hanno detto di non temere nulla perché c’era piena collaborazione con i turchi”; a parlare dalle colonne di Newsweek, a questo giro, sarebbe nientepopodimeno che un tecnico delle comunicazioni dell’ISIS, dopo essere fuggito dallo stato islamico. “L’ISIS” continua “ha visto l’esercito turco come suo alleato, soprattutto nell’attacco contro i curdi in Siria. I curdi erano il nemico comune sia per l’ISIS che per la Turchia. Inoltre solo attraverso la Turchia l’ISIS è in grado di schierare i jihadisti contro le città curde a nord della Siria”.
Ma perché il secondo esercito della NATO ha bisogno anche dei terroristi dell’ISIS per sterminare i civili curdi? La risposta sta in quell’incredibile esperimento sociale che caratterizza il Rojava da qualche anno e che si chiama confederalismo democratico, un assetto istituzionale e politico che permette a Curdi, Arabi, Assiri, Caldei, Turcomanni, Armeni e Ceceni di vivere per la prima volta in pace nelle regioni di Afrin, Euphrates, Jazira, Raqqa, Tabqa, Manbij e Deir ez-Zor dopo secoli di conflitti religiosi ed ideologici. Non è un’utopia, non è una formuletta teorica valida solo nelle pagine di qualche accademico, ma è una realtà quotidiana che permette alla popolazione non solo di sopravvivere in condizioni disperate di guerra ma anche di sviluppare questo modello come paradigma per tutto il vicino Oriente e potenzialmente per il mondo intero. Fedeli nei secoli alla politica “divide et impera“, le potenze imperialiste sanno che pace ed autodeterminazione dei popoli nel vicino Oriente sarebbero catastrofiche per i loro interessi economici; il regime turco, in particolare, è impaurito dal confederalismo democratico perché sa che l ́unico modo per chiudere per sempre la questione nazionale curda in Turchia è quello di compiere prima lo sterminio dei curdi in Siria. Ma anche gli imperialismi occidentali, abituati a decidere arbitrariamente il destino del vicino Oriente, non vedono di buon occhio la rivoluzione del Rojava.

David Fromkin

Dalla fine della prima guerra mondiale, infatti, le potenze vincitrici hanno continuato a banchettare sui resti extra-anatolici del defunto impero ottomano, stipulando accordi diplomatici che hanno causato l’inizio di conflitti che perdurano da oltre 100 anni. “A peace to end all peace” è un saggio di David Fromkin del 1989 che spiega come tutte gli accordi stipulati con l’obiettivo di pacificare il vicino Oriente non fecero altro che inasprire ancora di più le tensioni tra i diversi popoli. Gli Alleati disegnarono i confini con la squadra ed il compasso senza tenere minimamente conto delle decine di etnie che popolavano quelle terre, ma considerando unicamente i rapporti di forza scaturiti dal primo conflitto mondiale: figure geometriche che potremmo definire ad minchiam, come dimostra lo storico James Barr nel saggio “A line in the sand” del 2011. Tra le due guerre, furono soprattutto Francia e Inghilterra a scegliere politiche e governi del vicino Oriente, mentre dal 1945 sono gli Stati Uniti a decidere il destino dell’area dando un sostegno concreto ai golpe nelle quattro nazioni che attualmente colonizzano le comunità curde: nel 1953 supportarono lo shah di Persia in Iran, tra il ‘56 ed il ‘57 fallirono tre colpi di stato in Siria, addestrarono i militari turchi per il golpe del ‘60 e nel 1963 rovesciarono il governo populista di Abd al-Karim Qasim in Iraq. Il capolavoro politico degli Stati Uniti, però, rimane il finanziamento dei gruppi ribelli in Iraq nel 1991 ed in Siria nel 2011, che ha causato la nascita di alcune delle fazioni jihadiste più feroci degli ultimi decenni. Nonostante oggi le potenze occidentali facciano parte della coalizione per combattere l’ISIS, il caos nel vicino Oriente rimane la situazione ideale per perpetuare lo sfruttamento di uomini e risorse; e continuare a fomentare l’odio etnico e religioso tra i popoli dell’area porterà sì ancora più morti e rifugiati, ma anche maggiori profitti per l’industria bellica e petrolifera dell’Occidente collettivo, data l’impossibilità di ricostruire un’autonomia politica che finalmente contrasti alla radice le ambizioni egemoniche del nord globale a guida Usa nell’area. Le vere forze democratiche che lottano per la resistenza del Rojava, per il confederalismo democratico e per la sua internazionalizzazione sono l’unica soluzione per la pace definitiva nel vicino Oriente e per la distruzione del terrorismo che minaccia continuamente anche i popoli occidentali. Il sostegno all’avanguardia curda e a quelle forze che, all’interno delle comunità Arabe, Assire, Caldee, Turcomanne, Armene e Cecene, vivono e diffondono il paradigma del confederalismo democratico, dunque, non solo è un dovere di basilare umanità ma anche un contributo concreto alla sicurezza di tutti quei paesi che dai conflitti in medio Oriente hanno tutto da perdere, a partire proprio dall’Italia.
Per continuare a raccontare il complicato scacchiere mediorientale senza diventare vittime dei doppi standard delle élite corrotte locali e globali che continuano a soffiare sul fuoco dei conflitti etnici e religiosi per i propri tornaconti, abbiamo bisogno di un media che promuova il punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Recep Erdogan.