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LA STORICA SENTENZA CONTRO ISRAELE: se il SudAfrica sconfigge per le seconda volta l’Apartheid

Una giornata storica.
Lo scorso venerdì i giudici del tribunale della Corte Internazionale di Giustizia hanno deciso di respingere la richiesta di archiviazione di Israele rispetto all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, hanno riconosciuto la plausibilità che alcuni atti commessi da Israele in questi mesi violino la convenzione ONU sul genocidio e hanno ritenuto che vi sia sufficiente urgenza per ordinare misure provvisorie contro Israele. Contrariamente alle richiese del Sudafrica, purtroppo, non si fa riferimento ad un cessate il fuoco a Gaza, ma viene comunque ordinato a Tel Aviv di “prendere tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio”. Non solo. La presidente della Corte Donoghue ha inoltre fatto richiesta a Tel Aviv di riferire alla Corte entro un mese e ha affermato che dovranno essere adottate misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e l’assistenza umanitaria necessaria ai palestinesi della Striscia.

Triestino Mariniello

È impossibile minimizzare la portata politica di questa presa di posizione, che ridà speranza a milioni di palestinesi di vedere finalmente riconosciute e condannate le atroci violenze che il governo israeliano sta compiendo non solo in questi giorni, ma in tutti questi anni, e che ridà dignità ad una Corte sulla carta imparziale ma che, negli scorsi decenni, era sembrata solo l’ennesimo strumento nelle mani delle mire egemoniche occidentali. “A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità” ha dichiarato Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool; “Quello che sta succedendo all’Aja” ha continuato “ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ma oltre al profondo significato simbolico e politico, questa decisione storica potrebbe avere anche delle conseguenze immediate sulla vita dei palestinesi, perché se è vero che il processo vero e proprio comincia soltanto adesso e che per il verdetto finale ci vorranno forse anni, il tribunale – intimando al governo israeliano di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidiari – esercita una pressione politica tale su Tel Aviv che, probabilmente, lo indurrà a cambiare il suo modo di condurre la guerra. Adesso la palla passerà, con ogni probabilità, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e vedremo se gli Stati Uniti perderanno definitivamente la faccia mettendosi di traverso alle decisioni della Corte. In ogni caso, potremo pensare a venerdì 26 gennaio 2024 come a un giorno di parziale vittoria – forse il primo di tanti – nella storia della resistenza e dell’indipendenza nazionale del popolo palestinese. In questa puntata vedremo le reazioni di Israele a questa decisione della Corte, analizzeremo nel dettaglio l’impianto accusatorio del Sudafrica e quello della difesa israeliana e, infine, parleremo anche di un altro filone processuale che potrebbe aprirsi – questa volta alla Corte di Giustizia Penale Internazionale – alla quale Messico e Cile hanno fatto richiesta di indagare sugli esponenti del governo Israeliano per genocidio e crimini contro l’umanità.
Il termine genocidio è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin; la sua campagna per il riconoscimento di questo crimine nel diritto internazionale portò all’adozione della Convenzione ONU sul genocidio nel dicembre del 1948. Lo scorso dicembre il Sudafrica ha accusato il governo di Netanyahu di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di aver violato l’articolo 2 di questa convenzione, ossia di avere commesso atti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e, cioè, i palestinesi di Gaza: “Come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell’espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo Stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia”, ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Data l’urgenza e la gravità della situazione, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte, in attesa del processo, di adottare alcune misure cautelari che, come abbiamo visto, ad esclusione dell’immediato cessate il fuoco sono state in gran parte accolte: le reazioni non si sono fatte attendere: il Sudafrica ha esultato parlando di una riaffermazione dello stato di diritto, e persino l’Unione Europea ha chiesto che le misure vengano rispettate. Netanyahu ha invece definito “oltraggioso” il comportamento della Corte e il suo il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha definito, tanto per cambiare, i giudici dell’Aja antisemiti, affermando che le loro decisioni “dimostrano ciò che era noto da tempo: il tribunale non cerca la giustizia ma solo di perseguitare il popolo ebraico”. Non essendoci possibilità di appello, sta allo Stato ebraico decidere se rispettare queste misure; nel caso, però, che non si attenga alla sentenza, spetterà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU decidere se intervenire affinché Israele applichi effettivamente la decisione della Corte: a quel punto, data per scontata l’adesione degli altri membri del Consiglio alle decisioni del tribunale, bisognerà vedere cosa decide di fare Washington. Sì: avete capito bene. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si avvalgono del proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza per proteggere Israele, ma sarebbe comunque la prima volta in assoluto che lo eserciterebbero contro una decisione precedentemente presa dalla Corte Internazionale di Giustizia. Staremo a vedere.
Per quanto riguarda il prosieguo del processo, per l’accusa l’elemento più difficile da provare sarà il cosiddetto intento speciale, e cioè l’effettiva volontà di voler distruggere del tutto o in parte i palestinesi di Gaza in quanto tali, ossia in quanto palestinesi e in quanto abitanti di Gaza: “È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente.” ha dichiarato il giurista internazionale Mariniello in un’intervista rilasciata alla testata Altraeconomia. La prova di questa intenzione sarebbero gli omicidi di massa, le gravi lesioni fisiche e mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni persone, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia e l’assedio totale dall’inizio della guerra con la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza come acqua, viveri ed elettricità. Nella memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica vi sono anche le innumerevoli dichiarazioni esplicite dei leader politici e militari israeliani che proverebbero tale intento, come quella di Netanyahu che, all’inizio delle operazioni, ha invocato la citazione biblica di Amalek che, sostanzialmente, significa “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”, o la dichiarazione del ministro della difesa Yoav Gallant che ha dichiarato che a Gaza sono tutti animali umani e che l’esercito israeliano avrebbe agito di conseguenza: “Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti, e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità” afferma Mariniello.

Israel Katz

L’impianto difensivo di Israele si basa, invece, su tre punti fondamentali: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato in verità eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. ”Non vi è alcuna base per le affermazioni del Sudafrica contro Israele. Anzi. Non è stata presentata alcuna prova a riguardo, solo l’evidenza di una guerra difensiva” aveva dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz al termine delle arringhe del team di difesa all’Aja, ma questa narrativa – che è anche la narrativa dominante nei media e nei palazzi del potere del nostro paese – secondo la quale Israele si starebbe semplicemente difendendo contro un attacco da parte di un’organizzazione terroristica, oltre che politicamente insensata per chiunque abbia un minimo di buon senso, appare anche giuridicamente molto debole in quanto presuppone di ignorare completamente la storia e il contesto dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi: “Esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa, per uno Stato occupante, non può essere invocata” chiarisce Mariniello; Israele, insomma, per appellarsi all’autodifesa dovrebbe completamente cancellare la propria storia di potenza colonizzatrice – più volte denunciata da decine di Stati e organizzazioni internazionali – e il suo status giuridico di potenza occupante. Dovrebbe, insomma, provare che le 500 pagine scritte da Human Rights Watch e Amnesty International che descrivevano dettagliatamente il sistema di apartheid sui palestinesi e pubblicate due anni prima dell’attacco del 7 ottobre, non esistono, e dovrebbe provare anche che non esistono le decine di risoluzioni ONU che ne hanno condannato, in questi anni, il comportamento a Gaza e in Cisgiordania.
Come scrive Francesca Albanese nel suo ultimo libro J’Accuse, anche il processo di deumanizzazione dei palestinesi – supporto retorico e ideologico alla loro eliminazione – non è certo un fatto nuovo, ma va avanti ormai da decenni: “Questa definizione di animali umani” scrive “in realtà, è il prodotto ultimo di un processo di disumanizzazione del quale il popolo palestinese è vittima da tempo. I sostenitori di Israele hanno elaborato narrazioni che ritraggono i palestinesi come una minaccia esistenziale per il popolo ebraico e le rivendicazioni palestinesi per il riconoscimento dei propri diritti individuali e collettivi, sanciti da trattati internazionali universali e da centinaia di specifiche risoluzioni dell’ONU sulla questione israelo – palestinese, come una sfida diretta alla vita stessa di Israele.”; “Come spiegano gli studiosi Neve Gordon e Nicola Perugini” continua Albanese “Israele giustifica l’uso della forza contro i palestinesi, compresi i bambini, presentando l’intero collettivo palestinese come una minaccia intrinsecamente terroristica.” In ogni caso, il Sudafrica ha anche chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che anche in caso di autodifesa è comunque legalmente e moralmente vietato commettere un genocidio. Insomma: la reazione generale degli studiosi di diritto è stata critica verso la performance giuridica degli avvocati israeliani: “Il team israeliano ha mostrato debolezza giuridica” ha detto Mariniello; “si è concentrato su narrazioni politiche perché la posizione giuridica è indifendibile. ”Anche l’altro elemento sottolineato dal team israeliano riguardo le misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: il numero esorbitante di vittime civili, comprese donne e bambini – più di 25 mila in poco più 110 giorni di guerra – smentisce infatti in modo plateale tali dichiarazioni.
Nel frattempo, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di una o dell’altra parte: la Germania, ad esempio, che pure dovrebbe essere una dei massimi esperti di genocidio ma che ha, evidentemente, un incredibile fiuto per schierarsi sempre dalla parte sbagliata della storia, ha detto che sosterrà Israele; il Brasile, i paesi della Lega Araba, molti stati sudamericani (ma non solo) si stanno invece schierando con il Sudafrica. L’Italia non appoggerà formalmente Israele; la Francia rimarrà neutrale. Si può dire che i paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord globale a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte? Ma i guai per Israele non sembrano finire qui: Cile e Messico hanno infatti chiesto alla Corte Penale Internazionale, che si occupa invece delle responsabilità penali individuali, di indagare sui crimini commessi dagli esponenti del governo e dell’esercito israeliano in questi mesi di guerra; in una dichiarazione rilasciata il 18 gennaio, Messico e Cile hanno dichiarato che il loro deferimento alla Corte era “dovuto alla crescente preoccupazione per l’ultima escalation di violenza, in particolare contro obiettivi civili, e la presunta continua commissione di crimini sotto la giurisdizione della Corte”.
Il deferimento presentato da Cile e Messico fa seguito a quello di Bolivia, Sudafrica, Gibuti e Comore che, a novembre, si erano rivolti alla Corte chiedendo al procuratore capo Karim Khan di indagare sulla commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Palestina: anche prima degli attacchi in corso su Gaza, iniziati il 7 ottobre, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani avevano ripetutamente invitato Khan a rilasciare dichiarazioni preventive “per scoraggiare la commissione di ulteriori crimini” da parte dell’Occupazione; queste richieste, insieme a quelle per accelerare le indagini, sono però state ignorate. Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno queste indagini; quello che è sicuro è che dopo 3 decenni di sostegno incondizionato da parte di tutto l’Occidente collettivo e delle istituzioni internazionali all’apartheid israeliano, qualcosa si è irreversibilmente cominciato ad incrinare e che questo è stato reso possibile dalla determinazione di un paese – e una classe dirigente – che la battaglia contro l’apartheid l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle vincendola già una volta. Il XXI secolo passerà alla storia come il secolo della Grande Decolonizzazione, quando finalmente le masse sterminate del Sud globale misero definitivamente fine al dominio di una piccola minoranza sul resto del mondo attraverso il ricorso sistematico alla violenza; abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte giusta della storia. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

HENRY KISSINGER – L’uomo che aiutò le oligarchie finanziarie USA a conquistare il mondo. E fallì.

Henry Kissinger è stato, con ogni probabilità, in assoluto l’uomo politico occidentale più importante degli ultimi 70 anni; uomo della mediazione e meritato Nobel per la pace per alcuni, feroce macellaio per altri, in realtà non è stato nessuna delle due cose o, al limite, entrambe. Il punto è che questo tipo di bilancio un po’ moralisticheggiante rischia di portarci completamente fuori strada: Henry Kissinger, infatti, è stato per eccellenza l’architetto e il comandante in capo del Superimperialismo, e cioè il progetto imperiale che mirava ad assicurare – attraverso la dittatura del dollaro da un lato e la proiezione militare globale dall’altro – l’egemonia delle oligarchie finanziarie USA sull’intero pianeta e, per perseguire questo piano, guerra e pace andavano dosate magistralmente. Kissinger è stato sia saggio pacifista – nella misura in cui ha sempre pensato che un conflitto tra grandi potenze avrebbe ostacolato il successo del Superimperialismo – che anche guerrafondaio feroce, perché sempre pronto a ricorrere alla violenza per impedire a tutti gli altri paesi di perseguire sovranità e democrazia e ostacolare, così, l’egemonia delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce: un piano sofisticatissimo che ha influenzato profondamente tutti i principali eventi storici degli ultimi 50 anni e che però oggi, tutto sommato, appare sempre più chiaramente come un sogno irrealizzabile. La dipartita di Kissinger quindi, da questo punto di vista, assume un valore simbolico che va ben oltre il fatto di cronaca e sembra suggellare il fallimento definitivo delle ambizioni imperiali ed egemoniche di Washington; la domanda, a questo punto, è “cosa verrà dopo?”.

Henry Kissinger

Dal golpe di Pinochet in Cile alle missioni criminali in Laos, dalle strette di mano al dittatore sanguinario Videla alle armi proibite contro l’Iran, ma anche le trattative contro la proliferazione nucleare, la fine del conflitto in Vietnam, l’apertura alla Cina di Mao prima e di Deng poi e – addirittura – le critiche al regime razzista della minoranza bianca suprematista in Rhodesia che gli sono valse l’accusa di simpatizzante comunista: non c’è evento di rilievo nella storia degli ultimi 50 anni nel quale Kissinger non abbia ricoperto un ruolo di primissimo piano e, tutto sommato, non sempre necessariamente deleterio – almeno per le sue ricadute concrete; d’altronde, a guidare l’azione di Kissinger non era qualche pericolosissima ideologia visionaria e totalitaria, come una Annalena Braebock qualsiasi, ma la difesa a spada tratta degli interessi egoistici di una minuscola classe di oligarchi. E per difendere gli interessi materiali di qualcuno i sogni non servono; bisogna fare i conti con la realtà, anche quando non ci piace. Il realismo di Kissinger è stato definito dalla pubblicistica analfoliberaloide molto spesso come machiavellico; niente di più lontano dalla realtà. Se lo scienziato politico fiorentino, infatti, aveva dedicato tutta la sua vita a individuare gli strumenti concreti di governo che permettevano al Principe di mettere a freno le ambizioni delle oligarchie, lo spregiudicato pragmatismo di Kissinger aveva esattamente l’obiettivo opposto: trasformare l’intero pianeta in una riserva di caccia a disposizione delle oligarchie stesse, l’unica classe veramente transnazionale che, a suo avviso, sarebbe in grado di garantire – pur in mezzo a una miriade di sotterfugi – stabilità e benessere; d’altronde gli doveva tutto.
Nato in Germania in una famiglia ebraica piccolo borghese, dopo aver partecipato in un organismo di controspionaggio alla guerra contro il nazifascismo, Kissinger entra presto a far parte della fitta rete di prestigiosi think tank che gravitano attorno all’università di Harvard; è qui che, nel 1955, incontrerà Nelson Rockefeller – terzogenito del multimiliardario John Davison Rockefeller Jr. e rappresentante di spicco del partito repubblicano – che diventerà il suo principale sponsor. Per il grande salto, però, dovrà attendere altri 14 anni; è il 1969, gli USA sono attraversati da proteste oceaniche contro la guerra in Vietnam e alla Casa bianca viene eletto Richard Nixon. Su indicazione di Rockefeller accetta di incontrare l’inesperto Kissinger ed è amore a prima vista; poche ore di chiacchiere ed ecco che arriva l’offerta della vita: Nixon chiede a Kissinger di diventare il suo assistente per la Sicurezza Nazionale. Come ricorda Carolyn Eisenberg dell’università di Hofstra in una lunga intervista rilasciata a Jacobin “Quando viene nominato, Kissinger, in realtà non ha nessuna vera esperienza politica, e non ha idea di come funzioni concretamente la macchina amministrativa” ma, come dicono i francesi, se ne sbatte il cazzo. Anzi, decide da subito di fare a modo suo: “Nell’istituire l’ufficio per la sicurezza nazionale” commenta la Eisenberg “farà molta attenzione a massimizzare il suo potere personale, e farà in modo che tutti i funzionari di gabinetto e il resto del personale, per raggiungere il presidente, debbano necessariamente passare tramite lui” e questo, continua la Eisenberg, gli permetterà “di influenzare la politica in misura sproporzionata rispetto al suo ruolo ufficiale”. Un potere che, sin da subito, metterà al servizio di una classe specifica: “Kissinger era” spiega ancora la Eisenberg “il terminale politico degli esponenti dell’alta società dell’East Coast, che orbitavano attorno ad Harvard e a Wall Street, a partire dai Rockefeller”.
Le oligarchie che Kissinger e Nixon devono servire, però, non stanno navigando esattamente in buone acque: la quota di prodotto interno lordo che finisce nelle loro tasche, da aver sfiorato il picco del 50% tra le due guerre, sta precipitando sempre più verso quota 30% – pochi punti percentuali in più della quota che finisce nelle tasche dei lavoratori sindacalizzati. Nel 1930 il gap era di 30 punti e la situazione internazionale, tra l’umiliazione che gli USA stanno subendo in Vietnam e, in generale, l’irruzione delle lotte anticoloniali – sostenute o meno dall’Unione Sovietica in buona parte del globo – minaccia in modo sempre più evidente il primato di Washington. Per assecondare le ambizioni egemoniche globali delle oligarchie nazionali c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, e quella rivoluzione copernicana ha un nome preciso: la fine del sistema di Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro. E’ la precondizione necessaria per permettere quello che comincerà ad accadere su scala massiccia soltanto a partire da qualche decennio dopo quando, per sfuggire alla crescita di potere relativo dei lavoratori in casa propria, si comincerà a delocalizzare a destra e manca in tutto il pianeta, ma – grazie al dollaro ormai sganciato dall’oro e sempre di più valuta di riserva globale – riuscendo comunque a tenere ben saldo il controllo dell’economia grazie alla concentrazione del grosso della ricchezza globale nelle mani di una ristrettissima oligarchia finanziaria, che è appunto – in soldoni – quello che Michael Hudson definisce Superimperialismo.

Golda Meir, Richard Nixon e Henry Kissinger

Per portare avanti questo piano Nixon e Kissinger hanno bisogno di due cose: da un lato, mantenere un certo livello di pace complessiva che permetta ai capitali e ai flussi commerciali di andarsene avanti e indietro per il pianeta senza correre particolari rischi e, quindi, evitare l’escalation del conflitto tra grandi potenze; dall’altro, invece, evitare che i vari paesi in giro per il mondo si mettano in testa di sfruttare l’ondata delle lotte anticoloniali per emanciparsi pure dal neocolonialismo di carattere più economico che militare a stelle e strisce e di trasformarsi, da repubbliche delle banane eterodirette e in preda delle scorribande dei capitali statunitensi, a veri e propri stati sovrani.
Ed ecco così il grande piano complessivo che tiene insieme le due anime del buon vecchio Kissinger: pacifista con le grandi potenze e spietato guerrafondaio con i paesi “non allineati”, e qui gli esempi letteralmente si sprecano, a partire – ovviamente – da quello che gli statunitensi considerano da sempre il loro cortile di casa: l’America latina in pieno subbuglio. Meno di 10 prima l’amministrazione Kennedy, per impedire che l’esempio della rivoluzione patriottica cubana contagiasse l’intero continente, aveva avviato un piano per la cooperazione allo sviluppo e l’integrazione economica noto come Alleanza per il progresso; come il suo proponente, è durato come un gatto in tangenziale. I pochi passi avanti che aveva innescato, invece di tranquillizzare le élite locali e i latifondisti, li avevano messi sul piedi di guerra: ed ecco così che, già nel ‘64, arriva il golpe militare in Brasile, pienamente sostenuto dagli USA che avevano questi vizietti ben prima che arrivasse Kissinger. E per reazione, di fronte al clamoroso fallimento dell’Alleanza per il progresso – sempre prima che arrivasse Kissinger – i vari movimenti dell’America latina si erano andati radicalizzando: come ricorda Aldo Marchesi dell’università della Repubblica in Uruguay “Un vertice dei ministri degli esteri latinoamericani del 1969 pubblicherà il famoso “Consenso di Viña del Mar” che accusava le potenze mondiali di perpetuare il sottosviluppo nella regione. Ma un ulteriore radicalizzazione” continua Marchesi “avverrà con l’ascesa nel 1973 del peronista di sinistra Hector José Cámpora alla presidenza dell’Argentina, che aumenterà la prospettiva di un asse Lima – Santiago – Buenos Aires – L’Avana come alternativa all’egemonia americana nella regione”. “I regimi militari di Bolivia e Perù” continua ancora Marchesi “si allontaneranno dall’influenza americana, iniziando a proporre un programma di trasformazione sociale legato alla nazionalizzazione delle risorse naturali e alla trasformazione agraria. E In Cile” prosegue ancora “la coalizione di sinistra che perseguiva il socialismo con mezzi pacifici e legali ispirerà coalizioni nei paesi vicini, come il Fronte Ampio dell’Uruguay”.
La reazione delle élite locali sostenute da Washington sarà violentissima: la prima pedina a cadere fu la Bolivia, dove Hugo Banzer Suarez mette fine al breve tentativo di golpe patriottico guidato dal leader socialista Juan Jose Torres; poi, nel giugno del 1973, fu il turno dell’Uruguay dove, contro l’insurrezione dei Tupamaros, il presidente Juan Maria Bordaberry portò a termine una sorta di auto – golpe che inaugurerà una dittatura militare che durerà fino al 1985; poco dopo fu il turno del Cile di Salvador Allende, spodestato dal golpe militare di Pinochet sostenuto dagli USA e da Kissinger in persona, e che aprì la strada a una feroce dittatura che non si limitò a reprimere nel sangue gli elementi più avanzati della società cilena, ma anche a trasformare il Cile nel laboratorio mondiale del neoliberismo, che gettò nella miseria masse sterminate di lavoratori e cittadini comuni; e infine, nel 1976, ecco che arriva l’ora della giunta militare di Videla in Argentina che, giusto per non lasciare nessuno spazio all’ambiguità, darà le chiavi della politica economica del paese a Jose Alfredo Martinez de Hoz, talebano dell’ultraliberismo e amico personale di David Rockefeller (fratello minore di Nelson), lo sponsor ufficiale di Henry Kissinger. Pochi mesi dopo, mentre in tutto il mondo montava l’indignazione contro contro le carneficine dei regimi cileno ed argentino, Kissinger puntava a vincere direttamente il premio simpatia in un tour del continente dove assicurava il pieno sostegno della sua amministrazione alla guerra di civiltà che questi regimi fascisti stavano conducendo contro i capelloni locali. Ne valeva la pena: a differenza che in Indocina, in America Latina questi simpatici compagni di ventura avevano garantito a Kissinger di portare a compimento con successo la sua strategia; il rischio di avere degli stati sovrani nel cortile di casa era scampato e l’agenda neoliberista delle dittature consolidava il controllo totale delle oligarchie finanziarie USA sull’economia locale.
Un copione leggermente diverso – ma con una morale molto simile – è quello che è andato in scena qualche anno dopo un pochino più a nord, nell’America centrale; anche qui c’era stata una lunga annata di rivolte popolari: nel 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista in Nicaragua aveva messo fine alla dittatura – sostenuta da Washington – di Somoza; nel 1980 in El Salvador 5 organizzazioni di sinistra si erano coalizzate ed avevano dato vita al Fronte di liberazione nazionale Farabundo Marti e, nel 1982, in Guatemala 4 organizzazioni della guerriglia avevano dato vita all’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Alla Casa bianca c’era Reagan che, ironia della sorte, aveva fondato buona parte della sua ascesa – all’interno del partito repubblicano prima e alla presidenza poi – in buona parte proprio criticando da destra Henry Kissinger, accusato di essere troppo tenero con le dittature comuniste; la reazione all’ascesa dei movimenti di liberazione del Centroamerica da parte delle élite locali fu feroce, ma gli USA la sostennero senza se e senza ma.
Ma i risultati non è che fossero proprio entusiasmanti: “Il fronte sandinista” ricorda Hilary Goodfriend dell’università della California, sempre su Jacobin, “era ancora al potere, nonostante il sostegno nordamericano a una guerra segreta condotta in gran parte dall’Honduras, che fu invaso dalle forze armate statunitensi al punto da essere rinominato “USS Honduras”. Nel frattempo” continua la Goodfriend “lo stato guatemalteco stava conducendo una guerra genocida contro le comunità indigene rurali, e l’esercito salvadoregno e gli squadroni della morte ad esso associati attiravano la condanna internazionale per il loro flagrante disprezzo per la vita civile. Joan Didion scrisse nel 1982 che l’impegno americano in El Salvador sembrava basato sull’autosuggestione, un lavoro onirico ideato per oscurare qualsiasi intelligenza che potesse turbare il sognatore”.

Ronald Reagan e Henry Kissinger

In parole povere, la situazione gli stava completamente sfuggendo di mano: serviva una svolta. Ed ecco così che Reagan chiama a presiedere la Commissione nazionale bipartisan per il centro America proprio il vecchio Henry che, sostanzialmente, ritira fuori la vecchia idea che John Kennedy aveva perseguito per l’America latina: per sconfiggere definitivamente la guerriglia bisogna dare un bel po’ di quattrini ai governi in carica, in modo che possano accontentare con logiche clientelari i bisogni primari delle popolazioni e indebolire la base sociale della guerriglia mentre reprimono quel poco che ne rimane. Kissinger riesce a farsi accordare la bellezza di 8 miliardi di dollari di aiuti, più altri 400 milioni di dollari di aiuti militari; “E’ un mandato per il socialismo, finanziato dai contribuenti statunitensi” tuonò allora il senatore ultrareazionario Jesse Helms.
In realtà fu un ottimo investimento che, un’altra volta, favorì il dominio delle oligarchie USA sul continente. La prima fase fu quella della repressione, con l’ONU che nel ‘93 ha certificato 40 mila morti in Nicaragua, 75 mila in El Salvador, e 200 mila in Guatemala; e poi, subito dopo, arrivò anche il tempo per gli affari: in cambio degli aiuti, gli USA imposero ai governi fantoccio della regione la solita lunga serie di ricette lacrime e sangue della classica cucina neoliberista creando, così, opportunità straordinarie di investimento per le oligarchie che Kissinger si era sempre proposto di servire fedelmente. Nel frattempo però, lungo tutti questi anni, Kissinger ha sempre lavorato anche per stemperare il conflitto diretto tra grandi potenze; il piano era chiaro e decisamente insidioso: invece che sconfiggere il socialismo con le armi, lo sconfiggeremo con i quattrini. L’idea – che avrebbe continuato a influenzare la politica estera USA per decenni – era che se riusciamo a imporre riforme neoliberali ai nostri partner in cambio di una montagna di quattrini di investimenti, questi paesi gradualmente perderanno la loro sovranità in favore dei detentori di capitale e, alla fine, diventeranno necessariamente soltanto altri pezzettini della grande mappa del dominio delle oligarchie finanziarie e – quindi – del mondo unipolare guidato dagli USA e imposto più o meno gentilmente proprio attraverso la globalizzazione neoliberista.
Una missione che Kissinger non ha perseguito soltanto da uomo politico, ma anche da uomo d’affari: nel 1982, infatti, fonda a New York la società di consulenza Kissinger Associates; nei decenni successivi aiuterà il grande capitale USA a fare affari in giro per il mondo approfittando direttamente della rete di contatti di Kissinger. A finanziare l’operazione sarà Goldman Sachs e gli affari andranno così bene che Kissinger ripagherà il debito in appena due anni, invece dei 5 preventivati. E graziarcazzo: proprio nel 1982, infatti, il Messico dichiara di non essere in grado di ripagare il suo debito estero e, nell’arco di pochi mesi, lo seguono a ruota diverse altre decine di paesi; a questo punto entra in ballo l’FMI, che si offre di aiutare i paesi a ristrutturare il debito in cambio delle solite riforme lacrime e sangue e di una marea di privatizzazioni. Per i clienti della Kissinger Associates una vera cuccagna; col senno di poi, però, oggi possiamo dire che la grande strategia di Kissinger e il sogno del Superimperialismo avranno fatto fare una marea di soldi a un ristretto gruppo di amichetti ma, alla fine, sono fallite: non solo la Cina non ha mai abbracciato pienamente la strada della rivoluzione neoliberista e – al contrario di quello che sperava Kissinger – ha usato gli investimenti esteri per rafforzare la sua indipendenza e la sua sovranità invece che per distruggerla, ma quello a cui assistiamo negli ultimi anni è proprio che, nonostante tutte le lusinghe del grande capitale USA, sempre più paesi guardano alla parabola cinese come al modello a cui ispirarsi per innescare un vero processo di crescita economica anche a casa loro.
Quello che però sappiamo, anche, è che questo esito non era per niente scontato: come ha raccontato magistralmente, ad esempio, Isabella Weber nel suo bellissimo “How China escaped shock therapy” (Come la Cina ha evitato la shock therapy), la Cina ha rischiato più volte di seguire le orme della Russia di quel criminale svendipatria di Eltsin, di suicidarsi e di innescare quel tipo di cambiamento traumatico che l’avrebbe resa succube del capitale finanziario a stelle e strisce; nei confronti di tutti quei funzionari cinesi che, lontani dalle luci della ribalta, si sono battuti giorno dopo giorno affinché questo non avvenisse, siamo tutti debitori e forse – anche se in maniera diversa – siamo debitori anche nei confronti di quei politici e funzionari americani che dopo Kissinger hanno abbandonato il suo realismo pragmatico, hanno perseguito sguaiatamente il sogno irrealizzabile di un primato USA fondato sulla forza bruta e, in questo modo, hanno aiutato prima i cinesi e – oggi – tutto il resto del Sud globale ad aprire gli occhi e a non cedere alle lusinghe degli oligarchi a stelle e strisce.
Non tutti i mali vengono per nuocere: il filosofo tedesco Wilhelm Wundt la chiamava “eterogenesi dei fini”; ti poni un obiettivo, ma siccome non capisci un cazzo scaturisci un effetto completamente diverso. Succede spesso anche a noi, a quelli che si sforzano di stare dalla parte giusta della storia; per questo è indispensabile un vero e proprio media che ci permetta di orientarci e di non cadere nelle trappole della propaganda dell’1%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George W. Bush