Il capitalismo odia la filosofia. Per questo la filosofia universitaria oggi è solo un pallido ricordo di quello che era e ogni spinta rivoluzionaria di questa disciplina è stata sopita. Come facciamo a cambiare radicalmente questo stato di cose e e far tornare la filosofia il pensiero critico di un tempo?
Oggi parliamo con la professoressa Alessandra Ciattini, una delle maggiori esperte di antropologia religiosa in Italia, di religioni afroamericane. Lo faremo affrontando molteplici aspetti della questione: prima di tutto l’aspetto meticcio di questi culti, nati dalla commistione di elementi africani (di diverse aree), europei cristiani, europei spiritisti e nativi americani; poi andando a scavarne gli aspetti socioeconomici e politici. Queste religioni, nella loro grande varietà, hanno rappresentato una risorsa comunitaria per reagire al dilagante sistema mondo capitalista e imperialista che ha distrutto culture e vite, ucciso milioni di persone, ridotto schiavitù interi popoli, inquinato e cancellato più ecosistemi. Buona visione!
Intervista importante per la cassetta degli attrezzi di OttolinaTv, oggi David Colantoni ci parla di fine del capitalismo, classe militare e lotta tra militari di professione e borghesia. Il Pentagono è il nuovo centro di potere in Occidente? E i militari alimentano i conflitti per continuare a drenare risorse ai sistemi produttivi? Russia e Cina rappresentano il vecchio capitalismo industriale contrapposto all’Occidente “militarizzato”? Cerchiamo di fare chiarezza assieme.
Affrontiamo il tema caldo della tecnocrazia con Andrea Cengia, dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli studi di Padova e docente di Filosofia e Storia. I suoi studi ruotano attorno al rapporto tra politica e innovazione tecnologica a partire dalla critica dell’economia politica, dal pensiero della teoria critica e dell’operaismo italiano.
Uno dei più grandi filosofi contemporanei ci spiega come mai il capitalismo odia la natura umana e vuole abolire qualunque concetto di Bene e Male per poter fare i propri porci comodi con l’Ambiente e gli Umani. Le università occidentali oggi insegnano solo a essere utili schiavi del sistema attraverso un criminale relativismo culturale e impedendo un pensiero critico e alternativo; il socialismo del futuro invece, dovrà necessariamente ripartire dalla natura intrinsecamente comunistica dell’uomo.
Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.
Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”. Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%. Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri. In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA. Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire? Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”. Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”. Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:
rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”. Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.
Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo. Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
L’avidità delle nostre élite economiche sta, probabilmente, riuscendo laddove il movimento operaio e le mobilitazioni di massa hanno sempre fallito: stanno definitivamente uccidendo il nostro capitalismo; peccato sia per sostituirlo con qualcosa di ancora peggiore. Lo scorso weekend, mentre l’intero paese era distratto dal doppio scandalo sanremese, il gotha del capitalismo italiano veniva travolto da una doppia rivoluzione: due dei principali e più iconici gruppi italiani annunciavano all’unisono l’uscita dalla Borsa di Milano e la svendita di un altro pezzettino consistente di paese al grande capitale internazionale; nell’arco di poche ore, prima uno dei millemila fondi di Bernard Arnault, l’uomo più ricco del pianeta, ha annunciata un’OPA amichevole su Tod’s, simbolo assoluto del finto lusso quasi quanto il suo cringissimo patron Diego della Valle, e poi il simbolo – invece – per eccellenza della decadenza alto borghese ormai bollita Massimo Moratti annunciava la vendita delle raffinerie sarde della Saras al colosso svizzero – olandese del commercio delle materie prime Vitol. Sullo sfondo, il giovedì prima, la Guardia di Finanza eseguiva il decreto di perquisizione della procura di Torino a carico di Lapo, Ginevra e soprattutto di John Elkann, il grande liquidatore del manifatturiero italiano; come in un episodio qualsiasi di Succession, il tutto nasce da una denuncia nientepopodimeno che della loro stessa madre: Margherita Agnelli, che contende ai suoi stessi figli l’eredità di papà Gianni. I vecchi valori di una volta del capitalismo prenditore familistico italico… Tod’s e Saras sono solo l’ultimo tassello di una fuga generalizzata dai mercati finanziari italiani, e proprio mentre il governo degli svendipatria festeggia in pompa magna l’approvazione in seconda lettura alla Camera del primo grande progetto di riforma complessiva del diritto societario e dei mercati finanziari da 20 anni a questa parte; è il famoso e famigerato DDL capitali: una resa incondizionata agli interessi speculativi dei capitali più forti a spese dell’economia reale e anche dei piccoli investitori, una sorta di corsa ai ripari dopo che, negli ultimi 10 anni, Piazza Affari si è vista sfilare da sotto il naso di tutto di più. Nel 2022, poco prima che Exor emigrasse sulla borsa di Amsterdam, a uscire di scena era stata l’Atlantia dei Benetton; poi era arrivato il turno della DeA Capital del Gruppo De Agostini, del gruppo Cerved, di Banca Finnat e pure della Roma Calcio; nel frattempo, Luxottica optava per Parigi e Prada per Hong Kong. Una cifra che spiega tutto: quando la Saras di Moratti è stata quotata nell’ormai lontano 18 maggio 2006, l’indice di Piazza Affari volava vicino a 38 mila punti; oggi non arriva a 31.500, un quinto in meno. Il governo Meloni, allora, ha deciso di partecipare alla corsa globale a chi chiude più occhi per attirare qualche capitale in più, ma – evidentemente – con scarso successo: proprio mentre il governo avviava la discussione sul disegno di legge, Brembo, il gigante italiano della produzione di impianti frenanti per veicoli, annunciava il trasferimento della sua sede legale ad Amsterdam insieme a Campari, Iveco, Stellantis, Ferrari, CNH Industriale e anche STMicroelectronics. Il motivo è sempre lo stesso: grazie al carattere marcatamente ultraliberista del diritto societario olandese, scordatevi la leggenda metropolitana del capitalismo democratico dove a ogni azione equivale un voto: in Olanda, a seconda di chi sei, una tua azione, di voti, ne può valere fino a 20, oppure zero, che è esattamente quello che verrà introdotto a breve anche in Italia; ovviamente, significa – banalmente – che per controllare un’azienda sarà sufficiente possedere anche solo il 5 – 10 %, un’opportunità straordinaria. Ora che a far crescere l’economia reale in Europa c’hanno sostanzialmente rinunciato, il punto si gioca tutto su quanta ricchezza riesco a estrarre da un’azienda per esportare un po’ di capitali negli USA – via paradisi fiscali – prima che l’azienda muoia definitivamente: la lunga guerra dello 0,001% contro il resto dell’umanità non conosce sosta.
Un padrone ottocentesco: così definiva Diego Della Valle, ormai una quindicina abbondante di anni fa, il segretario nazionale della FEMCA CgilSergio Spiller; in ballo, allora, c’era la trattativa sul contratto integrativo aziendale per i lavoratori degli stabilimenti Tod’s di Casette d’Ete, Comunanza e Tolentino. “Uno spartiacque tra un sistema di relazioni corrette e un atteggiamento paternalistico nella gestione della fabbrica” commentava Spiller; invece di riconoscere ai lavoratori i loro sacrosanti diritti, Della Valle, infatti, preferiva ripiegare su una sorta di mancia: 1400 euro da distribuire su 12 mensilità per tutto il 2008. Un episodio paradigmatico (il personaggio, infatti, trasuda antipatia da ogni poro), eppure quell’epiteto, padrone ottocentesco, visto dopo 15 anni di depressione e finanziarizzazione selvaggia dell’economia, tutto sommato non suona più così offensivo; da padrone ottocentesco, infatti, Della Valle, per fare soldi, aveva adottato il caro vecchio sistema del capitalismo industriale delle origini: ci si fa prestare un po’ di soldi dalle banche, si investono in un po’ di macchinari e per assumere un po’ di persone, si fanno lavorare il più possibile, si prova a vendere il prodotto e, con i soldi ricavati, ci si pagano i dipendenti, il debito e gli interessi, e quello che avanza un pochino si mette in saccoccia e un pochino si reinveste per comprare altre macchine e, magari, assumere qualche persona in più. Quanto, di tutto questo, va in tasca ai lavoratori, e quanto a Diego e famiglia, dipende anche parecchio da quanta cazzimma ci mettono i lavoratori – e non intendo mentre lavorano, ma mentre gli dai la busta paga: quella che, quando c’era ancora la democrazia, si chiamava lotta di classe, insomma. Poi alla democrazia è subentrata la dittatura del capitale finanziario; la lotta di classe l’hanno vinta le oligarchie ed ecco che Della Valle è diventato il padrone dell’800 (oltre che per gli outfit supercringe, intendo). Ecco: finalmente uno dei nostri imitatori di Crozza preferiti ha deciso di mettersi al passo coi tempi e, per entrare nel salotto buono delle oligarchie finanziarie del XXI secolo, ha deciso di gettarsi tra le braccia dell’uomo più ricco del pianeta: Bernard Arnault, il capo mondiale dell’industria del lusso; alla fine dell’operazione i Della Valle avranno ancora il 54% dell’azienda che, appunto, uscirà dalla borsa, ma il socio di minoranza avrà potere di veto – e chi conosce la storia di Arnault, sa benissimo che per quel poco che rimane di economia reale e produttiva in Italia, c’è poco da stare sereni. Ne avevamo parlato in un video di oltre un anno fa quando, appunto, Forbes aveva comunicato che, per la prima volta non so da quanto tempo, in cima alla sua classifica non c’era uno statunitense, a differenza dei 9 che vengono dopo, e la vecchia Europa brindava per la sua rivincita senza aver capito assolutamente nulla di come gira davvero il mondo; se si riformasse la vecchia gang dei giacobini, il lavoro – diciamo – non le mancherebbe.
Un piccolo omaggio, ad esempio, sarebbe d’obbligo anche per uno dei casati più blasonati del capitalismo familiare italiano; sono i Moratti che, subito dopo l’annuncio dei Della Valle, hanno mandato un altro segnale chiarissimo dello stato in cui versa il capitalismo italiano: dopo 62 anni, hanno deciso di mettere fine alla loro storia d’amore con il petrolio, garantendosi un buen retiro da 600 milioni di euro. Ma oltre all’invidia, che – prima che ce lo scriva qualche analfoliberale nei commenti – noi non solo proviamo (e rivendichiamo il fatto di provarla), ma addirittura invitiamo esplicitamente anche gli altri a fare altrettanto – e pure a non reprimere troppo la rabbia che scatena – anche qui c’è molto, molto di più: al netto di tutte le controversie sacrosante, da quelle ambientali a quelle sindacali, la raffineria di Sarroch, in provincia di Cagliari, è infatti una delle più grandi in assoluto del Mediterraneo e anche una delle più avanzate; come ricorda Sissi Bellomo su IlSole 24 Ore “non solo conta per un quinto della capacità di produzione di carburanti del nostro paese, ma soprattutto è in grado di effettuare ogni tipo di lavorazione e modificare velocemente i processi per adattarsi all’impiego di greggi di qualità diversa. Una caratteristica” sottolinea giustamente la giornalista “particolarmente preziosa in periodi caldi come quello attuale che, tra guerre e sanzioni, costringono a cambiare con frequenza fornitori e tipologia della materia prima”. Definirlo un asset strategico, insomma, è riduttivo: già che fosse in mano a una famiglia, invece che allo Stato, era roba da trogloditi; ora che, da una famiglia, passa di mano a un megaconglomerato, oltre che da trolgoditi è proprio da ebeti. Il megaconglomerato di chiama Vitol, è di origine olandese, ma la sede è a Ginevra e, nonostante il 99,9% della popolazione mondiale non l’abbia mai sentito nominare, c’ha un giro d’affari comparabile a quello di Amazon: nel 2022 ha smazzato materie prime di ogni genere per un valore che supera i 500 miliardi di dollari senza che nessuno abbia mai visto un bilancio. Nonostante sia il maggior trader indipendente di greggio e prodotti raffinati del mondo, infatti, la Vitol è una società privata e non è quotata; ergo, fa un po’ come cazzo gli pare. I sindacati si sono comunque dimostrati cautamente ottimisti: dopo giorni di rumors sulle preoccupazioni per l’assenza di un vero e proprio piano industriale, dopo il faccia a faccia con la dirigenza dei nuovi proprietari i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL hanno parlato di incontro positivo: “Chi subentra” avrebbe dichiarato Marco Nappi della FEMCA CISL “ha parlato di un ingresso in punta di piedi e un approccio funzionale alla produzione di Vitol”. Sinceramente, non abbiamo motivo di dubitarne; il punto, ovviamente, è un altro: se la fortuna dei Moratti era legata a questa raffineria, Vitol gioca su uno scacchiere enormemente più grande, con logiche completamente scollegate dall’interesse nazionale e con una potenza di fuoco completamente sbilanciata rispetto alle amministrazioni locali e anche al Governo che, ormai, per il fabbisogno nazionale di carburanti deve fare affidamento quasi esclusivamente su attori stranieri, con tutto quello che ne consegue. L’ISAB di Priolo in Sicilia, ad esempio, 10 anni fa dalla genovese ERG è passata di mano alla russa Lukoil e quando abbiamo deciso di farci la guerra contro la Russia per dimostrare la nostra fedeltà a Washington, abbiamo sudato freddo: alla fine, l’impianto è stato acquisito dalla GOI Energy; anche qui, poteva andare decisamente peggio e i sindacati si sono dimostrati piuttosto ottimisti. A un anno di distanza però, a quanto ci risulta, del piano industriale ancora non c’è traccia e nel dicembre scorso Milano Finanza parlava di trattative per un nuovo passaggio di mano a non meglio precisati armatori greci, con Rothschild a fare da advisor; GOI Energy ha smentito categoricamente. I problemi, però, potrebbero essere altri: GOI Energy, infatti, è una divisione del fondo di private equityArgus New Energy Group che, in quanto fondo di private equity, già non è che sia proprio il simbolo della trasparenza; in più ha sede a Cipro, altra caratteristica che non è esattamente sinonimo di trasparenza, ma il problema principale è che il grosso degli investitori è israeliano, e il più israeliano di tutti è l’amministratore delegato. Si chiama Michael Bobrov e, oltre ad essere l’AD di GOI Energy, è anche il CEO della israeliana Green Oil, tra i maggiori azionisti della principale raffineria di petrolio israeliana, ed è anche l’uomo che gestiva le operazioni di Trafigura in Israele; e Trafigura, che è direttamente coinvolta nel processo di riorganizzazione di Priolo, oltre ad essere stata coinvolta in millemila vicende non esattamente edificanti – dallo scandalo dei rifiuti tossici in Costa d’Avorio alle accuse di corruzione da parte di procure statunitensi e svizzere – è anche la proprietaria della Martin Luanda, la petroliera che il 26 gennaio scorso è stata presa di mira da un missile di Ansar Allah. Anche la raffineria di Augusta nel 2018 era stata ceduta da Esso Italia agli algerini di Sonatrach e quella di Milazzo è di proprietà di una joint venture tra ENI e Kuwait Petroleum. Morale della favola: con questa ultima operazione dei Moratti, la capacità di raffinazione italiana è per oltre la metà in mano straniere, alla faccia del derisking e della necessità di pararsi il culo in tempi geopoliticamente turbolenti.
Fortunatamente, però, non ci sono solo brutte notizie per il mondo produttivo italiano: a Bruxelles, infatti, si sta giocando la partita della normativa CSDDD, o CS3d che dir si voglia (pure l’acronimo brutto le hanno dato, pur di evitare che se ne parli… sia mai!). Cosa prevede? Una cosa veramente intollerabile e, cioè, che le grandi aziende rispettino le normative ambientali e i diritti umani. Che incredibile ingerenza! “Il governo italiano si astenga” ha tuonato il delegato di ConfindustriaStefano Pan; “l’industria europea è a rischio”: quello che non torna a Pan è che la direttiva impone alle grandi aziende di controllare che anche i fornitori e chi lavora in appalto debba rispettare la legge; ad oggi, infatti, per aggirare la legge è sufficiente esternalizzare tutto quello che viene fatto in violazione della legge, e così c’hanno tutti la coscienza pulita e si possono concentrare sulla produzione di pamphlet a varia gradazione di greenwashing e fuffa petalosa. Con questa normativa sarebbero, per la prima volta, costretti a fare qualcosa di simile a quello che millantano; tanto basta per affermare che “Il testo è stato messo a punto senza ascoltare gli addetti ai lavori, con un approccio ideologico” (Stefano Pan, Confindustria). Sia chiaro: la direttiva non è che impone agli attori della filiera di realizzare il socialismo e di essere equi nei confronti di lavoratori e territori che sfruttano, ma – molto banalmente, appunto – di rispettare le leggi, tipo il salario minimo di un euro l’ora in Bangladesh o il fatto che prima di gettare una sostanza chimica che ti fa venire un tumore solo a guardarla, la dovresti perlomeno un po’ filtrare; tutte limitazioni che nel giardino ordinato intenzionato a estrarre quel poco di plusvalore che rimane dall’economia reale per andarci a comprare le azioni di Nvidia o di Microsoft nelle borse USA, evidentemente sono insostenibili. Ed ecco così che, durante l’iter, un pezzo alla volta la normativa è stata smontata; l’articolo 25, ad esempio, introduceva il fatto che i dirigenti aziendali, nel loro dovere di agire per il meglio dell’impresa, avrebbero dovuto tener conto delle conseguenze sulla sostenibilità nel breve, medio e lungo periodo: cancellato. Prima si prevedeva che un fornitore inadempiente si sarebbe visto interrompere il rapporto, ora invece s’è trovata la scappatoia; per evitare l’interruzione basterà presentare una relazione dove si dovrà dimostrare che interrompendo il rapporto si fanno più danni che a tenerlo in piedi: la schiavitù fa anche cose buone, insomma. Ma è valso a poco; tre esempi lampanti di progresso e rispetto dei diritti e dell’ambiente avevano già annunciato la loro astensione: Austria, Germania e, addirittura, anche la Finlandia. Per far naufragare definitivamente la normativa, però, ne serviva una quarta: ed ecco che è arrivata l’Italia; d’altronde, ricorda Pan, “Nel 2008 la UE aveva un PIL superiore agli USA di 4,5 punti. Nel 2022 l’Unione Europea ha perso nei confronti degli USA il 5,5 per cento. Per dare un’idea, è come aver perso il PIL di un paese come l’Italia o la Francia”. E che, non ti vorrai mica rifare sugli svendipatria che hanno portato tutti i loro quattrini negli USA via paradisi fiscali! Con buona pace degli anarcoliberisti e dei negazionisti climatici, c’è ancora un mondo di schiavi e un intero pianeta da sfruttare come si deve. Per ora l’Italia ha contribuito a rimandare il voto e forse la decisione definitiva potrebbe arrivare proprio mentre sto registrando questo video; vi terremo aggiornati, ma per tenervi sempre aggiornati sulle manovre di questo esercito di svendipatria abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia le pulci alla propaganda delle oligarchie e guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Fermi tutti! Fermi tutti che qui c’abbiamo un altro bel carico da 11: dopo l’intervista a Michael Hudson, rilanciamo con un altro mostro sacro della guerra culturale contro l’imperialismo neoliberista; per la prima volta in assoluto dell’internetsfera italoparlante – almeno che io sappia – Ottolina Tv è orgogliosa di presentarvi un piccolo estratto della lunga intervista che abbiamo registrato ieri con il mitico Ben Norton, il caporedattore di Geopolitical Economy Review, in assoluto tra i nostri canali Youtube preferiti e continua fonte di ispirazione.
Con Ben abbiamo provato ad approfondire alcuni degli spunti principali che erano già emersi nell’intervista a Michael Hudson: in una parola, il superimperialismo delle oligarchie finanziarie USA e il suo lungo, tortuoso, contraddittorio, ma inesorabile declino. Come ci ripete da anni Emiliano Brancaccio – alla faccia delle leggende metropolitane sull’azionariato diffuso e vaccate simili – l’80% dei titoli azionari del pianeta sono detenuti dal 2% degli investitori – della serie quando parliamo del 99 contro l’1%, pecchiamo di ottimismo. E questo è il primo tassellino; ma l’edificio dell’imperialismo oligarchico di tassellini ce n’ha anche altri: un altro, fondamentale, è che questi titoli azionari, fondamentalmente, stanno tutti negli USA. La capitalizzazione complessiva di Piazza Affari, la borsa italiana, pesa per meno del 30% del PIL italiano; Francoforte per meno del 50% del PIL tedesco; Wall Street, invece, quasi il doppio del PIL USA: oltre 50 mila miliardi, quanto le borse di tutto il resto del pianeta messe assieme. Ma non è ancora finita, perché uno potrebbe anche dire eh, vabbeh, è regolato meglio, è più efficiente, si quotano tutti lì che, per carità, è anche vero, senonché questa retorica meritocratica da bambacioni analfoliberali fa a cazzotti con un altro dato abbastanza impressionante: a Wall Street, infatti, in tutto sono quotate 2800 aziende – meno di 6 volte quelle quotate a Francoforte o a Piazza Affari – mentre il rapporto tra la capitalizzazione complessiva di Piazza Affari e quella di Wall Street è 1 a 100; significa che, in media, un’azienda quotata a Wall Street ha 30 volte i capitali di una quotata a Piazza Affari. Ma c’è un altro dato impressionante, perché i primi 7 titoli per capitalizzazione a Wall Street, da soli, pesano poco meno di un terzo di tutto il mercato; i primi 7 titoli in Italia pesano per meno – assai meno – di un decimo del totale e per arrivare a un terzo della capitalizzazione totale devi mettere assieme oltre 50 aziende quotate, il 10% del totale. Non so se è chiaro questo dato: per arrivare a un terzo della capitalizzazione della borsa italiana, devi sommare la capitalizzazione di 50 aziende su 430 totali; negli USA basta sommarne 7 su 2800 totali. Queste 7 aziende da sole capitalizzano, appunto, qualcosa come 15 mila miliardi: 30 volte tutta Piazza Affari, ma anche 7 volte tutta Francoforte e 5 volte tutta Parigi, alla faccia della democrazia e della classe media. L’intero capitalismo globale, in soldoni, ruota attorno alle azioni di 7 aziende; ma cosa faranno mai di così prezioso queste 7 aziende? Hanno il monopolio dell’era digitale e del capitalismo delle piattaforme: Alphabet, Meta, Amazon, Microsoft: come dice Norton, forniscono servizi pubblici essenziali, come l’elettricità e l’acqua. Quando il capitalismo industriale puntava alla crescita della produttività, questi monopoli naturali venivano nazionalizzati; la logica ce l’ha spiegata perfettamente Michael Hudson: l’obiettivo era abbassare i costi della produzione e mettere l’intera economia in condizione di funzionare nel modo più efficiente possibile riducendo al minimo i costi, e quindi impedendo alle oligarchie di fregarsi una rendita garantita sulla pelle di tutto il resto della società. Al netto di tutte le contraddizioni, potremmo dire bei tempi; ora, invece, l’intero capitalismo globale si fonda – appunto – sulla speculazione che viene fatta sui pezzi di carta abbinati a questa estrazione di una rendita gigantesca. Varoufakis lo chiama tecnofeudalesimo ed è quel sistema che, dice Varoufakis, ha ucciso il capitalismo e che, rispetto al feudalesimo original, c’ha pure un’aggravante in più perché, almeno all’epoca, ognuno faceva il feudatario a casa sua. C’era già un po’ più di pluralismo, diciamo; adesso i feudatari impongono la loro dittatura sull’intero pianeta. Non era mai successo prima: anche quando si era affermato il capitalismo – prima che arrivasse la democrazia moderna e i monopoli naturali venissero nazionalizzati – i monopoli capitalistici privati si appropriavano con la violenza di una rendita, ma solo a casa loro. Ognuno a casina sua. Ora ci sono i monopolisti privati che si appropriano di un monopolio naturale su tutto il pianeta, o almeno in quella parte di pianeta che ha deciso di rinunciare alla sua sovranità: ed è proprio qui che inizia il bello.
V’è venuta la voglia di sentirla tutta, eh? Apposta facciamo così: abbiamo imparato dai padroni del tecnofeudalesimo coi quali siamo in combutta; per vedere l’intervista integrale, infatti, non dovete fare altro che visitate il nostro canale Youtube in inglese. Ne vale la pena. Ben Norton ci ha aiutato, infatti, a tradurre questa analisi in qualcosa di estremamente concreto: ci ha raccontato di come in Cina quest’appropriazione privata dei monopoli naturali viene contrastata ogni giorno dal Partito Comunista al governo e di come questo renda l’intero sistema enormemente più efficiente. Liberata dalle rendite degli oligarchi, la Cina – infatti – è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, in grado di generare più ricchezza di sostanzialmente tutto il resto del mondo messo assieme, e ci ha anche raccontato di come, ispirandosi ai successi cinesi, sia piuttosto chiaro quello che anche noi in Occidente potremmo e dovremmo fare per rompere questo girone infernale: nazionalizzare le piattaforme e mettere fine al tecnofeudalesimo, una parola d’ordine concreta che, per essere portata avanti in modo efficace, ha bisogno di una battaglia culturale a tutto tondo. Per portarla avanti, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non abbocchi alle vaccate della propaganda delle oligarchie e che metta al centro gli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.
Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale. C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”. Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?” A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata Brexit – Trump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”
La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite. A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista. Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere. Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .
Ottoliner ben ritrovati; oggi per ogni ottoliner che si rispetti, è un gran giorno. Finalmente, a circa due anni dalla nascita del nostro progetto, abbiamo con noi l’economista che probabilmente più di ogni altro ci ha guidato e ispirato: il leggendario Michael Hudson, l’autore di Superimperialism, il libro che per primo ha svelato a tutto il mondo la nascita dell’imperialismo finanziario USA e della dittatura globale del dollaro. Ieri abbiamo rapito Michael per oltre due ore; il risultato verrà pubblicato a breve in versione integrale. Oggi, però, ci premeva darvi subito un piccolo ma succulento anticipo e non potevamo che concentrarci su quello che, probabilmente, è l’aspetto più attuale e urgente dell’analisi di Hudson; di fronte al conflitto epocale tra Occidente collettivo e Sud globale, infatti, anche a questo giro sembra regnare sovrana la confusione e c’è chi sproloquia di fantomatici conflitti inter – imperialistici, come se tra il capitalismo finanziarizzato delle oligarchie USA e lo stato sviluppista cinese non ci fosse poi chissà che differenza. Lo scontro in atto, in sostanza, sarebbe uno scontro tra soggetti tutto sommato equivalenti, dettato esclusivamente dalla stessa volontà di potenza e quindi, in soldoni, non ci riguarderebbe; anzi, alla fine – padrone per padrone – meglio la democrazia statunitense, con la sua libertà di espressione e di organizzazione politica e sindacale, del turbocapitalismo cinese. Hudson da anni conduce una battaglia intellettuale senza esclusione di colpi per cercare di spiegare perché questa impostazione sia sostanzialmente una gigantesca puttanata e oggi, per la prima volta, il perché lo potete sentire direttamente da lui in italiano, grazie al doppiaggio del nostro mitico Diego Cossentino. Il capitalismo industriale dell’economia politica classica non è il paradiso: non ci assomiglia neanche lontanamente; il paradiso non esiste. La storia, il progresso e la democrazia moderna però sì, esistono eccome e per riprendercele dobbiamo ultimare il lavoro che le rivoluzioni borghesi avevano iniziato ormai qualche secolo fa e sbarazzarci definitivamente dei parassiti. Per farlo ci serve un vero e proprio media, uno di quelli che, ad esempio, è in grado di portare per la prima volta sul web italiano un gigante come Michael Hudson, per uscire dal pantano del pensiero dominante e del declino e ridare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Ebbene dopo decine, centinaia di richieste di affrontare questo argomento e terminata la “guerra di religione” sulla questione covid, Ottolina ne parla come non se n’è parlato fino ad ora! Claudio Marciano, intervistato da Giuliano Marrucci e Francesca Patella, si addentrerà negli interessi incoffesabili dietro al covid e alla campagna di vaccinazione. Appuntamento alle 18.30, buona visione.
Nessuno può permettersi di non dichiararsi liberale: è questa la prima regola del fight club che è diventato il dibattito pubblico; la seconda: Nessuno deve chiedersi liberale cosa significa sul serio. Ci ha provato Andrea Zhok in Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente; il termine liberale, infatti, è diventato molto banalmente sinonimo di tutto ciò che è tolleranza, apertura e civiltà: l’esatto contrario di populismo che, invece, sarebbe sinonimo di tutto ciò che è intolleranza, ottusità e dominio incontrastato degli istinti più bassi. Non esattamente un utilizzo rigorosissimo del linguaggio, diciamo. Per ridare un senso alle parole Zhok, allora, cerca di andare oltre la propaganda e fa uno sforzo titanico per ricostruire la genesi storica del liberalismo: come sarebbe effettivamente emerso e da quali processi. Buona visione.
Quando parliamo di liberalismo politico parliamo, scrive Zhok, di un “orientamento politico magmatico, privo di una forma precisa, definito di volta in volta da ciò contro cui combatte, il cui minimo comune denominatore ideologico è in ultima istanza solo una concezione della libertà negativa, individuale ed economica. La particolarità di questa concezione della libertà è la sua neutralità assiologica: non è libertà per fare alcunché, ma libertà da interferenze altrui”. (p.151) Possibile che un sistema di pensiero così minimalista abbia avuto tanto successo? Quali sono i fattori che lo innervano e che, uniti, hanno dato forza a una proposta politica tanto misera e superficiale? Zhok individua la genesi della ragione liberale come un processo prodotto dalla convergenza di quattro ingredienti essenziali nati nel mondo antico e premoderno, e cioè la libertà individuale, il denaro, la tecnoscienza e lo Stato: “È la convergenza di questi quattro momenti, ciascuno a suo modo capace di incrementare le forze sociali e produttive disponibili” scrive l’autore “a caratterizzare lo sviluppo socioeconomico del mondo occidentale negli ultimi due secoli, per poi estendersi nella seconda metà del XX secolo a gran parte del resto del pianeta”. Partiamo dalla libertà individuale: la sua genesi è fatta risalire dall’autore alla svolta storica prodotta dell’invenzione della scrittura alfabetica nella Grecia antica; senza la scrittura alfabetica infatti, sostiene l’autore, è sostanzialmente impossibile pensare all’individuo, e cioè a un soggetto che riflette su di sé e sul mondo circostante e che è capace di pensarsi – proprio come faceva Socrate – come qualcosa di distinto dalla comunità di riferimento. L’individualismo moderno, che caratterizza la società occidentale e contemporanea, è figlio di questa svolta storica che ha subìto un’accelerazione a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili e, in seguito, dell’informatica: la libertà individuale sarà intesa nel liberalismo come libertà negativa e cioè, sostanzialmente, mancanza di impedimenti; l’individuo si libera dai legami comunitari e solidali. Non è più partecipazione, come per gli antichi, ma isolamento egoistico, la libertà di farsi gli affari propri; svincolato da valori comuni, l’individuo deve semplicemente calcolare vantaggi e svantaggi economici del proprio agire all’interno di una società di mercato. L’avvento della tecnoscienza, invece, è quello che rende possibile la rivoluzione industriale, ma che rivoluziona completamente anche il nostro modo di pensare la natura stessa: con la tecnoscienza, infatti, la natura diventa un semplice aggregato misurabile di cose che servono a far quattrini e il sapere scientifico è tanto più importante quanto più permette di dominare il mondo naturale e umano. E qui veniamo alla terza componente, che è il denaro perché, per rendere tutto misurabile, serve un’unità di misura universale: il denaro consente di facilitare gli scambi, misurare e accumulare valore ed è in grado di esercitare il suo potere a prescindere dalla sua genesi sociale; quello del denaro è un potere asociale e ademocratico. Il denaro, come ricchezza liquida, estende sempre più il proprio potere – diventando pervasivo – dall’Ottocento, in una società sempre più urbanizzata e monetizzata; in un mondo senza alcun valore obiettivo tutto diventa prezzabile, quindi acquistabile attraverso il denaro. Per finire c’è lo Stato, posto a garanzia dell’ordine tramite esercito, polizia e sistema giuridico; lo Stato liberale è svuotato da progetti politici che facciano capo a decisioni valoriali: non è altro che gendarme degli interessi dell’élite. Lo Stato deve soltanto favorire il mercato e i suoi attori: il politico, nel liberalismo, è ridotto al tecnico; il governo degli uomini che, normalmente, richiederebbe la costruzione di valori condivisi e scelte legittimate da cittadini, diventa così sovrapponibile all’amministrazione delle cose. Finché questi quattro ingredienti sono rimasti separati, però, non accadde alcuna rivoluzione; solo dalla loro miscela esplosiva nell’Inghilterra del Settecento scoppiò la rivoluzione permanente, tuttora in corso: “Sarà nella cornice statale inglese, tra Seicento e Settecento” scrive Zhok “che l’individualismo etico della riforma protestante, una matura circolazione monetaria, e i successi della razionalità tecnoscientifica convergeranno sinergicamente, portando alla luce per la prima volta la ragione liberale e il suo correlato operativo, l’economia capitalistica”. Senza l’imporsi del capitalismo come sistema di produzione, la ragione liberale sarebbe rimasta una ideologia tra le altre; come sintetizza Zhok: “Del successo storico della ragione liberale è stata poi parte essenziale la sua istituzionalizzazione in forma capitalistica, con la creazione della scienza economica e con l’asservimento della natura (e degli uomini) alle finalità del “sistema economico”. (p.85) Questo modello, infine, raggiungerà un suo compimento nel neoliberismo, l’imporsi del quale – alla fine degli anni settanta del Novecento – venne salutato da Fukuyama come, letteralmente, la fine della storia. Contro questa lettura trionfalistica, Zhok mette in risalto le crisi e degenerazioni che questa supposta vittoria comporta: dalla frammentazione dell’identità personale a quella dell’identità collettiva, allo sviluppo sempre più accelerato di tecnologie prive di controllo sociale, all’inquinamento ambientale; il sistema liberale finisce col minare i suoi stessi presupposti sociali, cercando di rattoppare queste contraddizioni con palliativi come il consumismo, la diffusione di droghe e psicofarmaci, l’industria dell’intrattenimento e dello svago, la pervasività del diritto che norma ogni aspetto della vita. E quando queste “toppe”, questi palliativi, non bastano più, il liberalismo risponde con l’opzione autoritaria degli stati d’eccezione; si compie, in questo modo, quella che potremmo chiamare la trappola di Hobbes: la conseguenza logica della ragione e della società liberale è la guerra di tutti contro tutti, che ha come conseguenza la necessità del Leviatano, di un potere totalitario in grado di portare ordine là dove c’è guerra e autodistruzione.
Cosa possiamo fare dunque? L’autore stesso ci lancia un salvagente, ricordandoci che “Nella storia le determinazioni non sono mai cause necessitanti […] ma circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità”. (p. 14) Questo significa che abbiamo sempre la possibilità, per quanto ristretta, di agire per modificare la realtà storica attuale, sottraendoci al dilemma che vede come conclusioni necessarie l’autodistruzione sociale o una sua torsione totalitaria. Per chi vuole riflettere insieme a noi su come farlo concretamente, l’appuntamento è per mercoledì 24 gennaio alle 21.00 in diretta su Ottolina Tv con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta filosofica: ospite d’onore Andrea Zhok, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano e autore di Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente (Meltemi, 2020). E se nel frattempo anche tu credi che per una democrazia sostanziale occorra combattere il liberismo reale, aiutaci a costruire il primo vero e proprio media che dà voce agli interessi concreti del 99%: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.