Skip to main content

Tag: Calderoli

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: La guerra dei fratelli di mezza Italia contro il Sud e la Costituzione

“Primo colpo allo statalismo” annunciava in pompa magna il 24 gennaio il Giornanale: “parte l’autonomia”. Dopo aver passato gli ultimi due anni a inneggiare alla distruzione fisica totale del Sud globale a suon di tweet che auspicavano esplicitamente missili su Pechino, la mitica Laura Cesaretti non vedeva l’ora di poter sostenere la guerra dichiarata dai fratelli di mezza Italia anche al Sud locale. Purtroppo ha avuto gioco facile; l’opposizione in aula del PD, infatti, suona necessariamente un po’ posticcia, per usare un eufemismo: la guerra senza frontiere al Sud del paese, infatti, l’hanno inaugurata proprio loro. Era l’inizio del secolo e il leader Massimo prima e Giuliano Svendipatria Amato poi tiravano fuori dal cappello la riforma del titolo V della Costituzione scolpendo sulla pietra, una volta per tutte, il principio dell’autonomia regionale e il lento ma inesorabile declino dello Stato unitario; è in quella fase che viene concepito il famigerato articolo 116 della nuova Costituzione anti – italiana: prevede che alle Regioni possano venir attribuite forme di autonomia in ben 23 materie, dalla salute all’istruzione, dallo sport all’ambiente, passando per energia, trasporti e addirittura commercio estero. In soldoni, tutto quello sul quale lo Stato centrale ancora oggi esercita una qualche sovranità, lasciando fuori esclusivamente quelle competenze che già da tempo, in realtà, sono state trasferite a Bruxelles, a Washington e soprattutto a Wall Street; in un paese economicamente già ampiamente diviso in due, è il via libera per quella che oggi possiamo chiamare la secessione senza secessione. Ma state sereni perché il legislatore mica è scemo, e ha trovato il modo di evitare che gli squilibri raggiungano dimensioni insostenibili anche per la tenuta stessa dello Stato italiano come Stato unitario: si chiamano LEP, Livelli Essenziali di Prestazione; servono a stabilire lo standard minimo dei servizi essenziali che deve essere garantito ai cittadini su tutto il territorio nazionale. L’autonomia vera e propria non può partire prima di averli stabiliti e prima di averli garantiti a tutti: ma come si fa a stabilire questi standard minimi?
Uno strumento ci sarebbe, e sarebbe tutto il resto della Costituzione che quali siano i diritti essenziali dei cittadini lo stabilisce con rigore e chiarezza, ma c’è un problemino: i diritti essenziali sanciti dalla Costituzione, infatti, in realtà non sono mai stati garantiti, ma proprio manco lontanamente e non solo nelle Regioni più arretrate, ma nell’intero paese; sancire standard minimi a partire dalla Costituzione quindi non avrebbe senso perché, in realtà, imporrebbe di trasferire alle Regioni più arretrate ancora più risorse di quante non ne siano state trasferite fino ad oggi. Significherebbe, in soldoni, invertire quel pezzo di secessione dei ricchi che è già stata ampiamente avviata. E allora ci vogliono parametri diversi, e questi parametri diversi in estrema sintesi suonano così: sei povero? Cazzi tuoi.

“Per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole” – recitava la nostra Costituzione prima della sua rivisitazione in chiave neoliberista operata dal centrosinistra a inizio secolo – “lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”: quando ancora l’Italia era una democrazia moderna, l’idea che per difendere l’interesse nazionale e il bene di tutti i cittadini italiani – e non solo di quelli del Mezzogiorno – la Repubblica dovesse adoperarsi con ogni mezzo necessario per superare il dualismo economico tra Nord e Sud era data per scontata da ogni fazione politica fino a quando, passo dopo passo, alla chetichella, lo Stato ha cambiato segno e non ha deciso, invece, di contribuire attivamente all’aumento di quel divario. Come ha ricordato nel maggio scorso il sempre ottimo Andrea del Monaco durante un audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, infatti, “In termini di spesa pubblica annua pro – capite del Settore Pubblico Allargato, un cittadino del Centro – Nord riceve in media 17.363 euro, mentre un cittadino meridionale in media si deve accontentare di 13.607 euro”: fanno 3.756 euro di differenza, quasi il 22%, alla faccia dell’assistenzialismo; per lo Stato italiano, tagliando ovviamente con l’accetta, un cittadino medio del Nord è del 22% più importante di uno del Sud, e si vede.
Il caso forse più eclatante in assoluto è quello dei servizi per l’infanzia: la spesa pubblica media per ogni bambino di età inferiore ai 3 anni per servizi socioeducativi, infatti, va dai 1.724 euro dell’Emilia Romagna e i 1.485 della Toscana ai 284 della Puglia, i 218 della Campania, per finire addirittura con i 116 euro della Calabria; un bambino calabrese vale meno di un quindicesimo di uno emiliano? Ovviamente, nessuno ha il coraggio di dichiararlo esplicitamente; certo, è vero che da 30 anni a questa parte ci fanno ingoiare le peggio schifezze con le giustificazioni più strampalate, ma a tutto c’è un limite e le principali forze politiche del paese lo sanno. Eppure, sfortunatamente per loro, la realtà continua ad avere una sua qualche rilevanza e la realtà ci dice, molto semplicemente, che per portare i servizi erogati al Sud al livello di quelli erogati al Nord ci vorrebbero ogni anno circa 75 miliardi in più; un dato oggettivo che fa a cazzotti con un altro: la Regione Veneto, infatti, ha detto chiaramente cosa vorrebbe ottenere con l’autonomia differenziata – trattenersi in casa il 90% delle tasse dei veneti.
Ma cosa succederebbe se le 3 Regioni di ogni colore politico che stanno già lavorando a un accordo per avviare la richiesta di autonomia – e cioè Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – arrivassero davvero a trattenere il 90% delle tasse dei rispettivi cittadini? Secondo le stime pubblicate dalla Rivista Economica del Mezzogiorno dai professori Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo, ai bilanci dello Stato verrebbero di colpo a mancare la bellezza di 190 miliardi: quindi, riassumendo, il bilancio dello Stato ogni anno è di 750 miliardi; per permettere alle Regioni del Sud di offrire lo stesso livello di servizi offerto dalle Regioni del Centro – Nord avrebbe bisogno di altri 75 miliardi e, invece, se ne ritroverebbe 190 in meno. Cosa mai potrebbe andare storto? Fortunatamente l’ipotesi veneta, tra quelle sul piatto, è la più estrema e anche propagandistica, un obiettivo completamente irrealistico che serve solo a Zaia per rafforzare il consenso alla Democratura dello Zaiastan; la Lombardia, infatti, si accontenterebbe di gestire direttamente, invece che il 90% delle entrate, il 75 e la Rossa Emilia, in un grande slancio solidaristico, addirittura appena il 60, ma la sostanza in realtà cambia meno di quanto non si pensi: nell’ipotesi emiliana, infatti, al bilancio dello Stato verrebbero comunque a mancare 120 miliardi mentre, ricordiamolo, gliene servirebbero 75 in più rispetto a quelli che ha adesso. Con questi conti, tutto l’eterno tira e molla sui Livelli Essenziali di Prestazione non può che assumere le sembianze di una pantomima, un’arma di distrazione di massa per evitare di ammettere pubblicamente che l’autonomia differenziata, molto semplicemente, è strutturalmente incompatibile con l’idea che la Repubblica, un passetto alla volta, dovrebbe andare nella direzione di rendere concretamente i cittadini italiani uguali tra loro a prescindere da dove nascono; una missione che va ben oltre la semplice solidarietà, ma che ha a che vedere direttamente con la capacità del nostro Paese di rimanere unito per tentare, faticosamente, di tornare a esercitare una qualche forma di sovranità. Senza superamento del dualismo Nord – Sud, in soldoni, non solo non c’è sviluppo economico, ma manco democrazia, nemmeno per gli abitanti delle Regioni più ricche del Nord. Con l’autonomia differenziata, invece, il nostro Stato diventa per legge un promotore attivo delle diseguaglianze regionali; conti alla mano, l’unico modo per stabilire dei LEP compatibili con l’idea stessa dell’autonomia differenziata sarebbe porli a un livello ancora inferiore ai servizi essenziali attualmente erogati dalle Regioni del Sud, il che significherebbe sancire per legge – giusto per fare qualche esempio – che per i bambini italiani un posto in un asilo non è un diritto e per tutti gli altri non è un diritto curarsi tramite il servizio sanitario nazionale pubblico, tutte cose che nessuna forza politica, ovviamente, ha e avrà mai il coraggio di affermare pubblicamente in modo chiaro.
Ed ecco così che di LEP si parla da ormai 20 anni senza essere arrivati a capo di nulla, e allora la soluzione qual è? Semplice: a occuparsi di definire i LEP, che rappresentano il cuore del rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini, non saranno più i rappresentanti dei cittadini stessi; a occuparsene, invece, sarà una cabina di regia guidata direttamente dalla Presidenza del Consiglio – e il Parlamento muto, manco un ruolo consultivo. Il Parlamento, inoltre, non potrà mettere bocca nella trattativa tra Stato e singole Regioni su quali competenze verranno trasferite dallo Stato centrale alla periferia; il risultato di questa trattativa, inoltre, non potrà essere sottoposto a referendum e sarà, sostanzialmente, irreversibile: non male per una leader politica che, ancora nel 2017, tuonava enfaticamente contro l’idea delle piccole patrie (ed era già un tentativo di mediazione, diciamo).

Giorgiona mentre diventa svendipartia

Solo 2 anni prima, infatti, era stata decisamente più perentoria: “Le Regioni andrebbero abolite” aveva affermato; voleva ancora costruire i Fratelli d’Italia. Ora, evidentemente, quelli di mezza Italia le bastano e avanzano; d’altronde, la guerra senza frontiere di Giorgiona la svendipatria al Mezzogiorno era iniziata subito dal primo giorno del suo insediamento: il primo decreto in assoluto varato dal suo governo, infatti, aveva l’obiettivo nientepopodimeno di smantellare l’Agenzia per la Coesione, e cioè l’agenzia che si doveva occupare dei fondi comunitari per tutto il Mezzogiorno; non esattamente il momento migliore, diciamo. In ballo, infatti, c’era la partita del PNRR: i collaboratori dell’agenzia avrebbero dovuto fare i salti mortali per elaborare la relazione che dovrebbe certificare il rispetto della clausola del PNRR che imponeva di destinare il 40% delle risorse al Mezzogiorno; Giorgiona ci ha investito così tanto che s’è addirittura completamente dimenticata di rinnovargli i contratti di lavoro. Risultato: a 18 mesi di distanza, la relazione ancora non c’è. Accidenti a questi maledetti parassiti che, per lavorare, vogliono addirittura sapere se gli darai o meno uno stipendio. Probabilmente, comunque, non è stata semplicemente una svista: nel frattempo il governo Meloni, infatti, stava lavorando alla sua proposta di revisione del piano; prevedeva un taglio complessivo per 15,9 miliardi. La metà, 7,6, erano destinati al Sud – dalla riqualificazione delle periferie alla riconversione dell’ILVA – ma era solo l’antipasto: dopo anni e anni di intoppi burocratici, da pochissimo avevano preso il via le 6 ZES del meridione, le Zone Economiche Speciali individuate nelle aree portuali del Mezzogiorno che, finalmente, stavano riuscendo a intercettare qualche investimento. Giorgiona e Fitto allora che fanno? Le sciolgono e creano la ZES unica, totalmente gestita da un’unica struttura insediata a Roma, una sessantina di persone in tutto che devono gestire tutte le autorizzazioni alle nuove imprese; anche qui, risultato: da sei mesi le ZES sono completamente ferme.
Ma il vero capolavoro arriva con la manovra di bilancio: è la scure che si è abbattuta sul fondo perequativo infrastrutturale del quale abbiamo già parlato in dettaglio in un video precedente. “Tagliati 3,7 miliardi di euro destinati al Sud” titolava ieri Il Domani; “Salvini sceglie il ponte e abbandona le scuole”: il riferimento è al famoso fondo perequativo infrastrutturale. Aveva in dotazione 4,6 miliardi per cosucce da niente come strade, rete idrica e trasporti; era Stato varato nel 2009 nientepopodimeno che da Roberto Calderoli, una mancetta per convincere gli alleati meridionali a ingoiare la pillola del federalismo fiscale: peccato che per oltre 10 anni non sia mai arrivato il decreto attuativo. Per vederlo ritirare fuori si è dovuto aspettare Giuseppe Conte, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo e il: i fondi sono comunque rimasti lì bloccati altri 3 anni e, visto che erano bloccati, ora il governo ha deciso di ridurli ad appena 900 milioni.
La scure che si è abbattuta su uno dei pochissimi – e del tutto inadeguati – strumenti contro il dualismo Nord – Sud rimasti a disposizione dello Stato è una specie di anteprima di quello che accadrà su scala incommensurabilmente superiore con l’autonomia differenziata, a prescindere dalle retorica sui LEP; e così, passo dopo passo, lontano dagli occhi e dal cuore del popolo italiano, in mezzo a una montagna di tecnicismi e di burocratese buoni solo per stordire l’opinione pubblica, ecco che si procede inesorabilmente verso quella che Gianfranco Viesti definisce, appunto, la secessione dei ricchi e non è una semplice boutade: se in 70 anni di Stato centralista – con punte di interventismo che hanno rasentato spesso una forma ibrida di socialismo – il dualismo dell’economia e della società italiana non è stato superato, la costituzionalizzazione del fatto che chi più ha più deve avere e gli altri possono accompagnare solo rischia di rendere l’unità dello Stato italiano qualcosa di totalmente anacronistico e a rimetterci, paradossalmente, potrebbero non essere soltanto gli abitanti del Mezzogiorno; l’autonomia differenziata, infatti, va a braccetto con un processo di ulteriore smantellamento dei pochi spazi democratici rimasti e con il ritorno ad un sorta di feudalesimo con i governatori delle Regioni, dove il presidenzialismo c’è già e gli organi elettivi contano meno di zero – nella veste di feudatari – e al centro la Giorgiona nazionale che una riforma in senso presidenzialista dello Stato, invece, la richiede a gran voce per compensare il fatto di essersi ridotta a fare da zerbino a Washington e Bruxelles autonominandosi uoma sola al comando del protettorato italiano.

Tutte forme di concentrazione del potere nelle mani di pochissimi che non rispondono esclusivamente alle ambizioni personali dei singoli protagonisti, ma più generalmente alla necessità – appunto – di ridurre ogni spazio di democrazia residua in questa fase terminale di lotta di classe dall’alto contro il basso, con tutte le contraddizioni e i conflitti che necessariamente si porta dietro e che richiedono il rafforzamento della logica dell’uomo solo al comando: l’ambizione dei governatori di essere promossi allo status di reggenti del loro feudo spiega inoltre un altro fatto piuttosto pittoresco: vi siete chiesti, infatti, per caso com’è che mentre il Nord e il governo centrale dichiarano guerra al Mezzogiorno, i governatori del Sud non ci trovano niente da ridire? Il punto, molto banalmente, è che essere Re del regno di stocazzo è comunque meglio di essere semplicemente a capo di una macchina amministrativa un po’ scassata; insomma, i governatori del Sud stanno barattando l’interesse delle loro Regioni per un po’ di potere personale in più che in sistemi elettorali dove il voto clientelare ha un peso specifico gigantesco – perché i pochi soldi pubblici che rimangono sono sostanzialmente l’unica torta da spartirsi – è la migliore garanzia possibile di poter perpetrare il proprio regno il più a lungo possibile. Insomma: l’autonomia differenziata altro non è che un patto segreto e sottratto al dibattito parlamentare tra tutte le élite compradore del paese che, di fronte a una torta sempre più piccola, non trovano niente di meglio da fare che sbattere fuori dalla sala da pranzo tutti i cittadini per dividersi tra loro e solo tra loro pure le briciole. E’ arrivata l’ora di riprenderci tutt’ chell che è ‘o nuost; per farlo, servono tante cose: il conflitto sociale, un sindacato, un partito, ma prima di tutto ci serve un vero e proprio media indipendente ma di parte, quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Calderoli

ARIDATECE L’ACCIAIO DI STATO – perchè lo scandalo Ex Ilva dimostra che i privati non servono

Carissimi ottoliner, anche oggi abbiamo un altro scoop incredibile: l’ex ILVA è nella merda. E’ veramente una notizia incredibile: cioè, per rimediare ai terribili sprechi dei carrozzoni pubblici, negli ultimi 30 anni abbiamo dato le chiavi di casa della siderurgia italiana al meglio del meglio della grande imprenditoria privata, sempre così smart e meritocratica, e non è servito a una seganiente. Il modo in cui, negli anni, c’è stata raccontata la vicenda dell’ILVA sarebbe una vera barzelletta se non fosse una gigantesca tragedia, doppia, anzi tripla: una tragedia per i 20 mila lavoratori coinvolti direttamente, tra Acciaierie d’Italia e indotto, un’altra per tutta la popolazione che vive nei paraggi, decimata da tumori e leucemie che non sono il frutto del destino cinico e baro ma di un vero e proprio furto ad opera di una manciata di oligarchi, e un’altra ancora per l’intera economia italiana che si condanna ancora una volta al declino, all’irrilevanza e alla sudditanza.

L’ILVA e le sue emissioni

La storia di odio e amore tra Taranto e l’acciaio ha inizio ormai oltre 60 anni fa e – al netto di tutte le contraddizioni – vista con gli occhi di oggi sembra una storia di fantascienza e odora di socialismo da mille miglia di distanza: il più grande e moderno impianto siderurgico dell’intero vecchio continente nel cuore di una delle aree più arretrate in assoluto di tutto il vecchio continente; una vittoria storica della sinistra democristiana di Fanfani, delle sinistre e del sindacato contro il grande capitale privato – da FIAT a Falck – che quel polo l’avrebbero voluto privato e a Vado Ligure perché, nella logica capitalistica di allora, i soldi dovevano essere investiti solo laddove c’erano già abbastanza soldi e gli altri dovevano accompagnare solo.
l’ILVA di Taranto è una vera e propria eresia, una delle massime espressioni dello stato sviluppista che la controrivoluzione neoliberista ha smantellato, lasciandoci tutti con le pezze al culo; i primi anni dell’allora Italsider sono una specie di piccolo sogno idilliaco del migliore socialismo reale: l’acciaieria, tra lavoro diretto e indotto, garantisce un lavoro sicuro e un tenore di vita dignitoso a oltre 40 mila famiglie, più di quante ve ne siano complessivamente in città e, soprattutto, garantisce all’Italia tutto l’acciaio che serve per sostenere quell’incredibile miracolo economico che ha trasformato l’intero paese nell’arco di meno di trent’anni. Ma le belle storie, purtroppo, durano sempre troppo poco.
Quindi, riassumendo, lo Stato ha fatto un gigantesco investimento per portare sviluppo economico in un’area del paese che il capitale privato schifava completamente; ha permesso a tutto il paese di crescere a ritmi cinesi anche alle aziende private che avevano l’opportunità di comprare tutto l’acciaio di qualità che gli serviva a prezzi d’occasione. Poi il ciclo dell’acciaio è entrato in crisi per fattori che non c’entravano niente con la gestione pubblica, e la gestione pubblica non solo ha tenuto botta, ma ha pure continuato a investire; poi il ciclo dell’acciaio ha cambiato corso, ma purtroppo ha cambiato ciclo pure la politica: alla democrazia moderna fondata su sviluppo e redistribuzione è subentrata la dittatura neoliberale fondata sul furto di ricchezza da parte di un manipolo di oligarchi. E così dopo aver assorbito perdite per anni, quando c’era da passare all’incasso quell’incasso si decide di regalarlo tutto a una famiglia di prenditori, e a rimetterci non è solo il sistema paese in generale ma, molto in concreto, le persone che l’acciaieria ce l’hanno come vicina di casa perché, nonostante l’azienda macinasse fatturati, gli investimenti per adeguarsi alle leggi ambientali che mano a mano venivano fuori non ci sono mai stati. Chiara la differenza? Anche l’Italsider – come si chiamava quando era ancora pubblica – inquinava, non emetteva fiorellini, ma all’epoca le leggi non c’erano e non gliene fregava un cazzo a nessuno. E quando le leggi sono continuate a non esserci ma a qualcuno un po’ più sveglio è cominciato a fregargliene qualcosa, non c’erano i quattrini perché il mercato mondiale dell’acciaio era in crisi nera. Quando da pubblica è diventata privata, invece, c’erano sia le leggi che i quattrini ma, appunto, era privata e i privati i quattrini se li intascano e le leggi le aggirano, soprattutto se lo Stato è connivente.

Emilio Riva

E qui lo Stato ai Riva gli ha sempre steso tappeti rossi, a partire dal nostro Silvione nazionale, che il patron dell’ILVA – noto falco liberista – premiava lautamente con donazioni al partito: 245 mila euro solo nel 2007, anche se va detto che 100 mila euro, giusto per cadere sempre in piedi, li aveva dati anche al PD di Bersani, e la cosa più brutta è che so pure pochi; la sudditanza agli interessi privati questi te la garantiscono pure gratis, tutto sommato, e non è che dovessero chiedere l’impossibile, eh? Bastava copiare: 10 anni prima infatti, per fare un esempio, a Duisburg la ThyssenKrupp era stata costretta a trasferire tutti i forni a coke, che trasformano il carbon fossile nel combustibile per gli altiforni, lontano dalla città; costo dell’operazione 800 milioni, tutti a carico dell’azienda. Ma non solo: il governo regionale, infatti, impone all’azienda anche di fare tutti gli interventi necessari per risolvere il problema del benzopirene, che è il principale responsabile dei tumori; tutti problemi che a Taranto oltre 20 anni dopo sono ancora lì, dopo anni e anni di cassa integrazione a spese dello Stato e una quantità di vittime da crimine di guerra.
Ciononostante, quando alla fine i Riva se ne sono dovuti andare per l’intervento della magistratura, al governo mica hanno detto “rega’, amo fatto ‘na cazzata” e sono tornati sui loro passi: macché. Hanno rilanciato, e l’ILVA l’hanno data a un’azienda che ha interessi di ogni genere tranne che rilanciare la siderurgia italiana; un’azienda che ha il cuore in India e la sede centrale in Lussemburgo: il suo capo si chiama Lakshmi Mittal, famoso per il braccino corto negli investimenti e per la manica larga nei matrimoni dei figli; sommando, tutti e tre gli sarebbero costati circa 150 milioni di dollari, più di quanto abbia mai investito a Taranto per risolvere la questione ambientale e quindi, a cascata, anche quella produttiva. Doveva riportare Taranto a 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno: nel 2023 si è fermato abbondantemente a meno di 4. Forse una soluzione potrebbe essere mandare quelli che si sono succeduti al governo in questi 12 anni a lavorare un po’ agli altiforni e gli operai dell’ex ILVA mandarli a Palazzo Chigi; sembra abbiano le idee più chiare: quando circa un anno fa sono stati chiamati a esprimersi sull’ipotesi nazionalizzazione non hanno avuto molti dubbi: hanno votato a favore 98 su 100.
Adolfo Urso, che ieri si è presentato al Senato cercando di passare come uno che era stato nominato poche ore prima, aveva qualche dubbio in più. Durante tutto questo anno il governo è rimasto a guardare impassibile mentre Arcelor Mittal accumulava bollette energetiche non pagate per 300 milioni, e non si capisce bene quanti debiti con i fornitori dell’indotto che, fino a ieri, sono rimasti in piedi solo grazie ai soldi anticipati dalle banche a fronte delle fatture da riscuotere da Acciaierie d’Italia (che però ora sono considerate carta straccia) e gli anticipi non arrivano più, e a rischiare lo stipendio sono circa in 3000. Nonostante l’attività ridotta, i livelli di benzene rilevati dall’ARPA sono fuori controllo e la sicurezza sul lavoro è al limite per la mancata manutenzione; e ora che solo per tirare avanti la carretta ci vogliono subito 320 milioni e, fra poco, un altro miliardo, ecco che – finalmente – fuori tempo massimo il governo si sveglia. La proposta di Arcelor Mittal è esilarante: sostanzialmente chiede al governo di metterci tutti i soldi lui, di tornare ad essere azionista di maggioranza, ma di lasciare a Arcelor Mittal il 50% del diritto di voto; un affarone!

L’ex sede di Arcelor Mittal in Lussemburgo

Ora, io voglio essere ottimista e voglio pensare che non si arriverà a questo eccesso; quello che invece mi sento abbastanza sicuro di anticipare è che, anche a questo giro, il governo interverrà con i soldi dei cittadini, ma invece che usarli per ridare finalmente all’economia italiana acciaio di qualità e a prezzi ragionevoli per rilanciare l’industria, si limiterà ancora una volta a ripianare i buchi lasciati dai privati e, quando l’azienda tornerà ad essere remunerativa, a ridarla a qualche privato che la spolperà di nuovo nell’arco di qualche anno. E questa, tutto sommato, non è nemmeno l’ipotesi peggiore perché l’ipotesi peggiore è che proprio si rinunci all’acciaio di Taranto; d’altronde che te ne fai dell’acciaio quando puoi affittare il garage su airbnb e aprire la dodicesima gelateria artigianale della tua strada? Inoltre il problema della sicurezza della fornitura d’acciaio per l’industria nazionale potrebbe essere serenamente superato dagli eventi: come riportava Il Fatto Quotidiano ieri, i dati consolidati di novembre confermano un calo della produzione industriale per il decimo mese di fila e a prendere le mazzate più grosse è proprio il mezzogiorno che, a questo punto, dovrebbe davvero separarsi dal resto dell’Italia e fondare la prima repubblica autonoma fondata sui camerieri stagionali al nero.
D’altronde, la guerra di questo governo contro il Sud è ormai a tutto campo; dopo aver consegnato ai padroncini alla continua ricerca di gente disperata pronta ad accettare 5 euro all’ora al nero il trofeo dell’eliminazione del reddito di cittadinanza, finalmente hanno deciso di alzare ulteriormente l’asticella: “Tagliati 3,7 miliardi di euro destinati al Sud” titolava ieri Il Domani. “Salvini sceglie il ponte e abbandona le scuole”; il riferimento è al famoso fondo perequativo infrastrutturale: aveva in dotazione 4,6 miliardi per cosucce da niente come strade, rete idrica e trasporti. Era stato varato nel 2009 nientepopodimeno che da Roberto Calderoli: una mancetta per convincere gli alleati meridionali a ingoiare la pillola del federalismo fiscale. Peccato che, per oltre 10 anni, non sia mai arrivato il decreto attuativo; per vederlo ritirare fuori si è dovuto aspettare Giuseppe Conte, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo e il: i fondi sono comunque rimasti lì bloccati altri 3 anni e, visto che erano bloccati, ora il governo ha deciso di ridurli ad appena 900 milioni.
Comunque non vorrei sembrarvi troppo pessimista: ieri non ci sono state solo brutte notizie; ce ne sono state anche di pessime come quella che è arrivata da Trieste, dove è definitivamente saltato il tavolo delle trattative per la crisi della Wartsila, nel silenzio generale. Se n’è accorto solo Il Manifesto: “Wartsila se ne va: 300 a casa. Buio assoluto per l’indotto”; la produzione di motori marittimi verrà delocalizzata e non in Vietnam, ma in Finlandia. Che poi è strano: “Occupazione record, l’Italia cresce” titolava infatti entusiasta Il Giornanale mercoledì scorso; com’è possibile che qui chiude tutto e l’occupazione vola? Beh, come riporta – sempre con altrettanto entusiasmo – l’organo ufficiale dei trumpiani italiani La Verità “senza il reddito dei 5 stelle è caccia al lavoro, occupati cresciuti di mezzo milione”. Peccato però che occupati non significa anche pagati; ora voi pretendete troppo: come ricordava proprio mercoledì ancora l’ISTAT, infatti, 1,3 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 7,8 euro lordi e, addirittura, il 30% di chi ha un lavoro part time o a tempo determinato meno di 9,4 euro lordi. Per questi effettivamente l’acciaio non serve.
Ora, chi ci segue sa benissimo che siamo ossessionati dal realismo politico fino alla democristianaggite acuta; le paraculate dei neneisti non ci sono mai piaciute e nemmeno di chi la spara altissima sulla moglie ubriaca e la botte piena e poi, regolarmente, si ritrova cornuto e assetato, ma qui c’è poco da scegliere il male minore. Non ce n’è di male minore: vogliamo l’acciaio e lo vogliamo pulito: già i 20 mila posti di lavoro tra diretti e indotto in una realtà come quella di Taranto, ovviamente, dovrebbero valere più di qualsiasi restrizione di bilancio o fede ideologica, ma qui siamo ben oltre. I 20 mila posti di lavoro non sono manco l’aspetto più importante: l’aspetto più importante è che non esiste potenza industriale senza acciaio e non esiste democrazia moderna senza potenza industriale.
Contro la deriva di un paese fondato sulla pizza al taglio, le concessioni balneari in deroga e gli scantinati affittati su aribnb ci vuole una vera rivolta popolare e un vero e proprio media che sia in grado di darle voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Adolfo zerbino Urso