NON CON I MIEI SOLDI: boicottare Israele per impedire il genocidio
Fino a un mese, fa la lotta per l’indipendenza del popolo palestinese era una lotta finita, kaputt, morta e sepolta; oggi le strade di tutto il mondo sono invase da un oceano di umanità che torna a sventolare la bandiera palestinese non solo per non essere complici di un genocidio, ma come simbolo universale dell’eterna lotta degli oppressi contro gli oppressori. Purtroppo però il genocidio del popolo palestinese è solo un pezzo di una guerra molto più generale, e in guerra la testimonianza non basta: per ottenere qualcosa bisogna colpire direttamente gli interessi più profondi. Per fortuna, per capire come si fa non c’è bisogno di inventarsi nulla di particolarmente nuovo: basta ricordarsi la nostra storia. La ricetta l’hanno scritta nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: si chiama boicottaggio. “Popolo britannico” recitava lo storico appello “non vi chiediamo niente di speciale. Vi chiediamo solamente di ritirare il vostro sostegno al regime di apartheid smettendo di comprare prodotti sudafricani”. Tra alti e bassi, per arrivare alla vittoria occorreranno la bellezza di 35 anni.
Non c’è un minuto da perdere: con questo video ci rivolgiamo a tutte le realtà che come noi, giorno dopo giorno, in piena libertà e autonomia, qualsiasi sia il loro punto di vista, combattono la loro battaglia contro la dittatura del pensiero unico e contro la lotta senza quartiere che le oligarchie finanziarie del nord globale hanno ingaggiato contro tutto il resto del mondo. E’ arrivato il momento di lanciare lo stesso appello che gli esuli sudafricani lanciarono ai cittadini britannici e che, dopo 35 anni di peripezie, li portò finalmente alla liberazione. Dobbiamo convincere insieme tutte le persone, che hanno imparato ad apprezzarci per il lavoro che ognuno a modo suo fa ogni giorno per creare una frattura nella narrazione dominante, che è arrivato il momento di ritirare il nostro sostegno al nuovo apartheid e al genocidio smettendo non solo di comprare prodotti israeliani, ma anche i prodotti di tutte quelle aziende che per due lire, di fronte a un genocidio, preferiscono girare la testa dall’altra parte e continuano a fare affari con Israele. Ci state?
Nel silenzio assordante dei media che da settimane se ne inventano di tutti i colori per giustificare il genocidio e la pulizia etnica in corso a Gaza, decine di milioni di persone continuano a riempire giorno dopo giorno strade e piazze di tutto il pianeta per esprimere la loro solidarietà al popolo palestinese e la loro opposizione al sostegno incondizionato al genocidio espresso dai loro governi.
Da Stoccolma, Sidney, New York, Barcellona, Parigi, Dublino e Berlino, nonostante manifestare contro il genocidio fosse vietato e, alla fine, sono state arrestate quasi 200 persone:
Sempre a New York, giovedì scorso, in 500 hanno improvvisato un sit in direttamente dentro il congresso USA per chiedere una risoluzione per il cessate il fuoco immediato. Li hanno accusati di essere antisemiti. Erano tutti ebrei.
E questa è la mappa in tempo reale che Al Jazeera sta tenendo delle principali proteste al mondo:
In queste ore drammatiche, durante le quali qualsiasi persona che abbia conservato un minimo di umanità si sente squarciata dentro dal senso di impotenza di fronte a ingiustizie così colossali e abominevoli e totalmente isolata di fronte a governi e media mainstream che inneggiano con gioia allo sterminio di massa, alla pulizia etnica e al genocidio, queste gigantesche maree di umanità varia che, da giorni e giorni, invadono le nostre strade sono un’incredibile boccata di ossigeno. Purtroppo, però, rischiano anche di non essere altro che un lenitivo per noi che stiamo dalla parte giusta del mondo; il punto col quale facciamo ancora troppa fatica a fare i conti fino in fondo è che, anche se non ne siamo ancora molto consapevoli, siamo in guerra e – ammesso e non concesso che quelle nelle quali viviamo siano mai state democrazie, in particolare negli ultimi 30 anni – di sicuro hanno definitivamente smesso di esserlo da quando siamo in guerra. Equesto sarebbe davvero il caso ce lo mettessimo tutti in testa per bene: in un paese in guerra di spazio per la democrazia non ce n’è, anche se è una guerra un po’ atipica, ibrida, asimmetrica, inedita.
Fortunatamente, però, per i popoli un modo per farsi sentire c’è sempre; il disfattismo non è altro che una delle tante cazzate che ci hanno lasciato in eredità 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di ideologia del thatcheriano “There is no alternative”. I disfattisti provano a spacciare le loro sentenze da bacio perugina letto al contrario come il frutto di un lucido cinismo che ha il coraggio di guardare dritta negli occhi la realtà, ma in realtà nel disfattismo non c’è proprio niente di lucido perché, molto banalmente, la realtà si può sempre modificare. Ma per farlo, appunto, serve lucidità, serve pragmatismo. Come sottolinea lucidamente Shahid Bolsen di Middle Nation “esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive”. Le proteste meramente dimostrative non vanno sminuite: hanno anche loro una loro importanza, come quelle di questi giorni in solidarietà alla Palestina e contro il genocidio. “Esprimere sostegno per la Palestina e condanna per il genocidio è importante” sottolinea Bolsen “sopratutto in Occidente, dove semplicemente stanno cercando di eliminare del tutto la questione palestinese dal dibattito pubblico, e stanno cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella del regime sionista”. Ma se vogliamo andare oltre la mera testimonianza e dare un contributo reale per ostacolare il genocidio, bisogna inventarsi qualcosa di diverso. E visto che i governi in guerra orecchie per sentire non ne hanno, forse sarebbe il caso di rivolgersi a qualcun altro: “affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive” suggerisce Bolsen “è necessario che si focalizzino sul settore privato”. Insomma: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. BDS. Per chi si occupa di cose palestinesi da un po’ non suona certo nuova: è una campagna nata ormai 18 anni fa – nel 2005 – quando, dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sudafrica, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Nei successivi 15 anni, ogni volta che si azzardavano a sottolineare che l’occupazione sionista era un regime di apartheid, venivano immediatamente accusati di antisemitismo ma, come si dice, “prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci” e così, finalmente, da un paio di anni parlare di apartheid non è più tabù. Ma, vinta la battaglia culturale per definire il regime esattamente per quello che è, ora però rimane ancora da combattere da capo la battaglia che anche in Sudafrica all’apartheid mise fine. Come ha scritto Omar Barghouti, che della campagna BDS è stato uno dei fondatori e tutt’oggi ne è una delle voci più autorevoli, “la campagna di boicottaggio non è mai stata così importante come oggi”. Certo, una campagna vecchia 18 anni sembra difficile trasformarla di nuovo in uno strumento all’altezza delle sfide di oggi; in realtà però la storia ci racconta una cosa diversa.
Il movimento per il boicottaggio del regime di apartheid sudafricano, infatti, nacque per mano di Nelson Mandela e una manciata di altri militanti in esilio a Londra addirittura nel lontano 1959. Per cantare vittoria dovettero attendere altri 35 anni, 35 anni di lotte, di sofferenze inenarrabili e di gesti eroici, ma anche di intelligenza tattica e di pragmatismo: non si tratta di gettare generosamente il cuore oltre l’ostacolo. Si tratta di darsi obiettivi ragionevoli e di perseguirli con lucidità. Un pezzo importante di lavoro nel tempo è stato fatto, e basta visitare i siti italiano e internazionale della campagna BDS per avere un primo cassetto degli attrezzi. Un vademecum molto pratico di cose da fare, poi, ce lo fornisce proprio Shahid Bolsen: trovate il suo intervento integrale doppiato in italiano da noi apposta per l’occasione sul nostro canale You Tube:
Ma sopratutto, ribadisco, qui a giocare un ruolo di primo piano dovremmo essere proprio noi, quella selva di canali, influencer e content creator nati apposta per rompere il monopolio della propaganda liberaloide e imperiale, a prescindere da tutte le differenze: parliamoci, organizziamoci, coordiniamoci, dimostriamo che fuori dalla bolla dorata del mainstream un’altra informazione è possibile. Un’informazione che è al servizio dei diritti dei popoli, invece di una fabbrica di fake news per giustificare il genocidio