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La Cina si sta preparando per dichiarare guerra all’Occidente?

Quante probabilità ci sono che la Cina inizi una guerra? A lanciare l’allarme su Foreign Policy sono Michael Beckley della prestigiosa Università di Tufts, nei sobborghi di Boston, e Hal Brands, professore di relazioni internazionali alla John Hopkins University, un esempio da manuale del rovesciamento totale della realtà che alberga nelle menti distorte dei suprematisti liberaloidi; i due ricercatori denunciano come in alcuni ambienti accademici USA prevalga spesso una certa ingenuità: “Alcuni studiosi” sottolineano “sostengono che il pericolo sarebbe gestibile se solo Washington evitasse di provocare Pechino. Altri” continuano “ricordano come la Cina non abbia più avviato una guerra di invasione da quella con il Vietnam del ‘79, che durò appena tre settimane”. “Ma tutta questa fiducia” ci mettono in guardia “riteniamo che sia pericolosamente mal riposta”. I due ricercatori ci ricordano come storici e scienziati politici abbiano individuato, in particolare, 4 fattori che determinano la propensione alle avventure belliche di un paese e “se si considerano questi quattro fattori” allertano “diventa chiaro che molte delle condizioni che un tempo hanno favorito un’ascesa pacifica, oggi potrebbero invece incoraggiare una discesa violenta”. Ah beh, certo, la famosa discesa cinese, un tracollo proprio. Si parte benissimo, diciamo, e si procede meglio: gli autori, infatti, sottolineano come “il fatto che Pechino si sia astenuta da grandi guerre – mentre gli Stati Uniti ne hanno combattute diverse – ha permesso ai funzionari cinesi di affermare che il loro Paese sta seguendo un percorso unico e pacifico verso il potere globale”. Cioè, pensa te quanto so’ manipolatori questi cinesi: al solo scopo di farci credere che sono pacifici e che non vogliono la guerra, per farci abbassare la guardia e coglierci di sorpresa effettivamente non fanno guerre. Geniale! Tipo la storia di Kubrik che aveva il compito di simulare per la NASA l’allunaggio, ma era così meticoloso che, per simularlo, è andato a girarlo direttamente sulla Luna; ma tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare e, da qui in poi, il fuffometro è tutto in crescendo.

Michael Beckley

Il primo dei famosi 4 fattori presi in considerazione, infatti, sono le contese territoriali coi vicini: in tutte le controversie, affermano i due ricercatori, “la Cina sta diventando sempre meno incline al compromesso e alla risoluzione pacifica di quanto non lo sia stata in passato, rendendo la politica estera un gioco a somma zero”. Eh già: i cinesi sono talmente aggressive che se dopo 50 anni che sostieni formalmente la politica di Una Sola Cina, per la prima volta nella storia approvi un pacchetto di aiuti militari diretti (come ha fatto in agosto Biden) contraddicendoti in maniera plateale, se la prendono pure, come se la prendono anche quando ti fai consegnare un’intera fetta di territorio filippino per metterci un’altra sfilata di missili puntati direttamente contro di loro. Eh, ma quanto so’ suscettibili però, eh? Si vede proprio che non fanno altro che cercare un pretesto per incazzarsi, un po’ come Putin che si lamenta dell’espansione della NATO contro le promesse che – come dicono i nostri amici analfoliberali‘ndo sta scritta sta promessa, eh? Metti il link!
Il secondo fattore preso in considerazione, comunque, è ancora meglio: “Le dittature personaliste” sostengono infatti gli autori “hanno più del doppio delle probabilità di scatenare guerre rispetto alle democrazie, e anche alle autocrazie, dove comunque il potere è detenuto in molte mani. I dittatori” infatti, continuano “iniziano più guerre, perché sono meno esposti ai costi del conflitto: negli ultimi 100 anni, i dittatori che hanno perso le guerre sono caduti dal potere solo il 30% delle volte”; precedenti particolarmente allarmanti, ovviamente, perché – manco a dirlo – “Xi ha trasformato la Cina in una dittatura personalista particolarmente incline a disastrosi errori di calcolo e guerre costose”. Insomma: la Cina, nonostante 1,5 miliardi di abitanti, la più grande potenza produttiva del pianeta e un partito con 100 milioni di iscritti sarebbe, in realtà, dominata da un uomo solo al comando che, senza nessun contro – potere e senza nessun bisogno di mediare con chicchessia, potrebbe tranquillamente svegliarsi la mattina e decidere di bombardare un paese a caso giusto per ammazzare un po’ la noia, e senza rischiare nulla manco in casa di sconfitta; d’altronde, mica so’ occidentali bianchi quelli. Je poi fa’ quello che te pare, mica se n’accorgono: ed è esattamente quello che fa Xi il sadico, dai “brutali lockdown anti – covid ai campi di concentramento in Xinjiang”. Dal vademecum delle puttanate sinofobe degli analfoliberali manca giusto la carne di cane. Tutte “forme di aggressione interna” sostengono gli autori, che “dovrebbero renderci molto nervosi per l’aggressione esterna che potrebbe verificarsi”. Ovviamente, e fortunatamente, questa storia dell’uomo solo al comando è una barzelletta in ogni stato moderno con una certa complessità; figurarsi in un vero e proprio continente come la Cina dove i centri di potere – sia pubblici che privati – sono infiniti, dove ci sono aziende di Stato che sono Stati dentro lo Stato con fatturati che si avvicinano al PIL di interi paesi e dove vige un federalismo molto spinto, con le singole regioni che gestiscono direttamente una fetta enorme delle loro entrate fiscali che autonomia differenziata scansate proprio. Ma questi sono tutti distinguo da professoroni che non possono intralciare i deliri del pragmatismo guerrafondaio di un vero cowboy che si rispetti. Purtroppo, comunque, la lista dei fattori che fanno suonare l’allarme rosso nei confronti della Cina non è ancora finita.
E il terzo fattore, tutto sommato, ha anche un che di ragionevole: “L’equilibrio militare in Asia” ricordano infatti gli autori “si sta modificando in modi che potrebbero rendere Pechino pericolosamente ottimista sull’esito della guerra”. Oh, lo vedi? Anche due propagandisti suprematisti, dai e dai qualcosa di sensato riescono a dirlo: avranno realizzato che mentre prendi gli schiaffi in Ucraina e mentre sei diventato incredibilmente vulnerabile anche in Medio Oriente – che fino a ieri trattavi come terra di scorribande senza rischiare nessuna ritorsione – che tu possa reggere un terzo fronte nel Pacifico non è molto credibile. Macché; con un virtuosismo da manuale, dopo poche righe ecco che ribaltano di nuovo completamente la frittata: “Un punto di vista” affermano così a caso, senza senso, a un certo punto – infatti “è che la guerra della Russia in Ucraina renda meno probabili altre guerre di aggressione”. Il fatto sarebbe, sostengono gli autori, che questa guerra dimostrerebbe “quanto le guerre di aggressione possono ritorcersi contro” e così “dall’indecente furto di terre da parte di Putin” continuano “la Cina sta imparando lezioni importanti”. Tipo? Secondo gli autori, Pechino starebbe imparando:
UNO: “quanto possa essere difficile la conquista contro un difensore impegnato”;
DUE: “quanto le forze armate autocratiche possano sottoperformare in combattimento”;
TRE: “quanto sia abile l’intelligence statunitense nell’individuare piani di predazione” e
QUATTRO: “quanto duramente il mondo democratico possa penalizzare i paesi che sfidano le norme dell’ordine liberale”.

Hal Brands

Cioè, dopo due anni pieni di schiaffi a due mani dati con nonchalance dalla Russia a tutta la NATO messa insieme nella guerra per procura in Ucraina, questi vogliono trarre insegnamenti su come affrontare la Cina partendo dal presupposto che l’Ucraina ha vinto la guerra: bene, ma non benissimo, diciamo. Ma soprattutto, qui oltre a un’overdose di pensiero magico, non si capisce proprio manco la logica: cioè, da un lato dici che la Cina potrebbe essere spinta a gettare il cuore oltre l’ostacolo dal fatto che i rapporti di forza sembrano avvantaggiarla un po’ e poi, nel periodo dopo, dici che dalla guerra in Ucraina dovrebbero aver imparato che quando un uomo con gli occhi a mandorla si trova di fronte a un marine, l’uomo con gli occhi a mandorla è un uomo morto. Prodigi dell’analfoliberalismo suprematista.
Ma la vera chicca arriva alla fine: “Le grandi potenze” scrivono infatti i nostri due autori “diventano bellicose quando temono il futuro declino”. Dai, dai che dicono una roba sensata! Quando “la concorrenza geopolitica si fa feroce e spietata” continuano “le nazioni difendono nervosamente la loro ricchezza relativa e il loro potere”; “pesantemente armata, ma sempre più ansiosa” insistono “una grande potenza sull’orlo del declino sarà ansiosa, persino disperata, e tenderà a respingere le tendenze sfavorevoli con ogni mezzo necessario”. Oh, ecco: finalmente parlano della sindrome da declino degli USA. Bravi! Ah, no? Cioè, quando dicono potenza in declino pesantemente armata in preda al panico non si riferiscono a Washington? Eh, voi pensavate ci fosse una soglia minima di dignità anche per gli accademici suprematisti, eh? Macché; qui siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro: secondo gli autori, gli esempi di queste forze in declino in preda alla disperazione sarebbero, infatti, nientepopodimeno che “la Germania nazista, l’impero giapponese e la Russia di Putin”. Ora, si può buttare a ridere – che ridere non fa mai male, ma (Imprecazioni, ndr), questi insegnano in università con rette da 100 mila euro l’anno e non pubblicano sul Foglio o fanno le dirette sul canale di Ivan Grieco, ma pubblicano articoli sulla più autorevole rivista di politica internazionale del pianeta e affermano serenamente che quando la Germania nazista è entrata in guerra era una potenza in declino, e pure il Giappone: cioè, due paesi all’apice della loro potenza politica, economica e militare dichiarano guerra al resto del mondo per conquistarlo e assoggettarlo, e secondo loro sono potenze in declino. Cioè, ci si può anche ridere, ma quando l’intera élite intellettuale di un paese che, da solo, spende in armi più di tutti gli altri messi insieme non capisce un cazzo a questi livelli, non so quanto ci sia da ridere ecco, soprattutto quando dalla storia passano all’attualità: “Man mano che le prospettive militari a breve termine della Cina migliorano” scrivono infatti i ricercatori “le sue prospettive economiche a lungo termine si stanno oscurando” e questa, sottolineano “è una combinazione che in passato, spesso, ha reso le potenze revisioniste più violente”.
Un’analisi completamente scollegata dalla realtà ed estremamente pericolosa perché da questo punto di vista – dal momento che, senza nessuna motivazione plausibile, pensi che la Cina sia in declino – non solo crei allarmismo ingiustificato perché, appunto, sostieni che le rimane solo da lanciare una guerra disperata, ma ti fai anche un viaggio totalmente strampalato su cosa dovresti fare per ridurre i rischi, un trip delirante che, infatti, arriva subito: “I requisiti per frustrare l’ottimismo della Cina sull’esito di un’eventuale guerra” sostengono i due autori “sono abbastanza semplici”; si comincia con “una Taiwan irta di missili antinave, mine marine, difese aeree mobili e altre capacità economiche ma letali”, si prosegue poi con un bel “esercito americano in grado di utilizzare droni, sottomarini, aerei furtivi e quantità prodigiose di capacità di attacco a lungo raggio per portare una potenza di fuoco decisiva nel Pacifico occidentale”, si passa poi a “accordi con alleati e partner che danno alle forze statunitensi l’accesso a più basi nella regione e minacciano di coinvolgere altri paesi nella lotta contro Pechino” e si finisce con “una coalizione globale di paesi che può colpire l’economia cinese con sanzioni e soffocare il suo commercio transoceanico”. “Washington e i suoi amici” ammettono gli autori “stanno già portando avanti ognuna di queste iniziative. Ma” lamentano “non si stanno muovendo con la velocità, le risorse o l’urgenza necessarie per superare la minaccia militare cinese in rapida maturazione”. Insomma: partendo da un’analisi storica completamente strampalata e da un’analisi economica che non sta né in cielo né in terra, i nostri autori arrivano alle considerazioni di un Edward Luttwack qualsiasi: sono selvaggi, bombardiamoli; almeno Luttwack, però, per dire ‘ste cose mica studia. Passa da un buffet all’altro: se devi dire solo puttanate, almeno goditela, diciamo; imparate da Zio Silvio così almeno, quando – a questo giro – i vostri deliri si paleseranno per le gigantesche cazzate che sono, potrete dire che almeno ve la siete spassata.

Edward Luttwak (quasi)

Sfortunatamente per i nostri due autori, l’idea strampalata del declino economico cinese non poteva arrivare in un momento meno adatto; due giorni fa, infatti, il Fondo Monetario Internazionale – che non è esattamente un braccio della propaganda di Pechino – ha ribadito, numeri alla mano, l’ovvio che ormai sfugge solo a Rampini e a Scacciavillani: “Anche quest’anno” ha affermato Steven Barnett al China Daily “la Cina offrirà il contributo di gran lunga maggiore alla crescita globale con oltre un quarto della crescita stessa” e fino a qui, diciamo – a parte chi legge Rampini – lo sapevamo. La cosa importante, invece, è che sempre il Fondo Monetario sottolinei quanto questo risultato sia straordinario e dimostri tutta la resilienza dell’economia cinese, dal momento che avviene non solo mentre la crescita globale va a rilento – e quindi la situazione economica generale non è delle migliori – ma, in particolare, mentre due degli elementi fondamentali dell’economia cinese sono in profonda crisi: il mercato immobiliare e l’export. Non è un risultato da poco: la Cina, in 30 anni, si è trasformata da un paese agricolo fatto di contadini che vivono in campagna, in una potenza industriale fatta di operai che vivono nelle città: questo, che è in assoluto e di gran lunga il più grande processo di urbanizzazione della storia dell’umanità – e che ho descritto in dettaglio nel mio CEMENTO ROSSO, il secolo cinese, mattone dopo mattone (che, per inciso, è il primo e unico mio libro, visto il clamoroso fallimento editoriale) – ha rappresentato, ovviamente, una componente gigantesca del miracolo economico cinese; ora quella spinta propulsiva è arrivata al capolinea, e alla crescita cinese manca un tassello enorme. Molte altre economie sono andate gambe all’aria per molto, ma molto meno: la Cina, invece, è continuata a crescere anche quest’anno del 5,2% e, secondo l’IMF, anche il prossimo anno – di poco meno, e senza mettere in campo chissà che incentivi, eh? Al contrario del 2008 – e al contrario degli USA, infatti – la Cina, a questo giro, ha deciso di non schiacciare troppo sull’acceleratore degli interventi anticiclici finanziati a debito, ma quello che ha ancora più del miracoloso è che tutto questo avveniva mentre anche la seconda componente storica del miracolo cinese subiva una contrazione piuttosto significativa: parliamo delle esportazioni, che hanno subito una battuta d’arresto non solo e non tanto per la guerra commerciale combattuta a suon di retorica su decoupling e reshoring – che è più fuffa propagandistica che altro – ma soprattutto perché, appunto, i mercati più ricchi dove i cinesi vendevano un sacco di roba (a partire dall’eurozona) sono tutti più o meno in recessione a parte gli USA, dove però la crescita è tutta a debito ed è dovuta agli investimenti privati sostenuti dai soldi pubblici. Insomma: per essere in declino non male, diciamo; per 30 anni fondi il tuo miracolo su due gambe, fai un incidente, te le tronchi tutte e due eppure cominci ad andare in meta. Non so quante volte sia successo in passato, sinceramente; come sia possibile, l’ha spiegato in modo piuttosto convincente in un recente articolo Richard Baldwin, professore di Economia Internazionale alla Business School di Losanna – come l’IMF, non esattamente una bimba di Xi, diciamo – ma a differenza di Rampini e dei due prof di Foreign Policy, evidentemente, manco uno che vive in un mondo parallelo tutto suo. “Non sono un esperto di Cina” esordisce Baldwin “ma durante il lavoro in corso sulle interruzioni della catena di approvvigionamento globale, non ho potuto fare a meno di riflettere su un fatto evidente che però non credo sia così ampiamente noto come dovrebbe essere: la Cina oggi è l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”. Baldwin sottolinea, infatti, come la Cina rappresenti oggi una quota di produzione manifatturiera superiore alla somma dei successivi 10 paesi, dagli Stati Uniti al Giappone, per arrivare al Regno Unito, una cosa mai vista e che, sottolinea Baldwin, è avvenuta con una rapidità senza precedenti: “L’ultima volta che il re della collina manifatturiera è stato spodestato dal trono” scrive Baldwin “è stato quando gli Stati Uniti hanno superato il Regno Unito poco prima della Prima Guerra Mondiale. Un passaggio di consegne che è durato poco meno di un secolo. Il passaggio tra Cina e Stati Uniti invece ha richiesto meno di 20 anni. L’industrializzazione della Cina, in breve” conclude Baldwin “non può essere paragonata a nessun altro evento del passato”.

Richard Baldwin

Contro questa ascesa impetuosa e inarrestabile, agli USA non rimane che buttarla tutta in un altro settore dove invece la superpotenza, almeno sulla carta, continuano a essere indiscutibilmente loro; esattamente come la Cina nella produzione di cose che rendono la nostra vita migliore, gli USA – infatti – primeggiano in cose che la nostra vita la annientano del tutto: la spesa militare di Washington è superiore alla somma delle spese militari dei 10 paesi successivi. La strada, quindi, sembra segnata: la Cina produce e ha bisogno di pace e di sicurezza nelle rotte commerciali per vendere, gli USA son buoni solo a spendere quattrini in armi di ogni genere e per arrestare il loro inarrestabile declino non hanno opzione migliore che scatenare la guerra. In realtà, però, Baldwin sottolinea due aspetti che complicano ulteriormente il quadro: il primo si chiama GGR, Gross Globalisation Ratio, che sta per rapporto lordo di globalizzazione ed è un indice che rappresenta la quota di produzione manifatturiera venduta all’estero; a differenza del PIL manifatturiero, che indica soltanto le vendite di beni finiti, include tutte le vendite di tutti i produttori presenti in Cina. “Durante la sua ascesa allo status di superpotenza manifatturiera” scrive Baldwin “il GGR della Cina è aumentato vertiginosamente, quasi raddoppiando”: tradotto, la Cina è diventata enormemente più dipendente dalle esportazioni ma, a differenza di quanto generalmente si pensi, questa impennata in realtà è sostanzialmente tutta concentrata tra il 1999 e il 2004; “quel periodo” sottolinea Baldwin, effettivamente “ha rappresentato lo straordinario effetto della globalizzazione, ed è probabilmente il motivo per cui così tanti pensano alla Cina come a un’economia incredibilmente dipendente dalle esportazioni”. “Ma la storia” continua Baldwin “non è finita nel 2004. Da allora infatti il GGR cinese è in costante calo. E nel 2020 è ritornato ai livelli del 1995”. Cosa significa? Molto semplicemente che “la produzione cinese non è più dipendente dalle esportazioni come molti potrebbero credere” e questo, continua Baldwin “sfata il mito secondo cui il successo della Cina può essere interamente attribuito alle esportazioni. A partire dal 2004 circa, piuttosto, la Cina è diventata sempre più il miglior cliente di se stessa”; tradotto: continuare a sperare che la Cina continui ad accettare ogni sorta di ritorsione commerciale da parte di chi non è in grado di competere sul piano produttivo perché è troppo dipendente dai nostri mercati e senza la domanda delle nostre economia decotte crollerebbe da un momento all’altro, potrebbe rivelarsi – e in parte si è già rivelato – puro wishful thinking. E non è tutto perché nel frattempo, invece, la dipendenza degli USA dai prodotti cinesi – compresi i semilavorati e tutta la componentistica – non ha fatto che aumentare a dismisura, mentre quella cinese nei confronti dei prodotti USA è leggermente, ma costantemente, diminuita. Insomma: “Nel suo documento di ricerca” scrive il sempre ottimo Ben Norton “Baldwin dimostra che gli USA sono molto più dipendenti dall’acquisto di manufatti cinesi di quanto la Cina dipenda dal mercato statunitense per vendere i propri prodotti”; “I politici che indulgono in chiacchiere sul disaccoppiamento dalla Cina” conclude Baldwin “avrebbero probabilmente bisogno di valutare con un po’ più di lucidità questi fatti oggettivi: il disaccoppiamento sarebbe difficile, lento, costoso e distruttivo, soprattutto per i produttori del G7”.
Insomma: per mesi si è parlato di quanto la Cina fosse ormai in una profonda crisi economica e di come, sostanzialmente, la tenevamo per le palle perché più era in crisi e più aveva bisogno dei nostri ricchi mercati per le sue merci; oggi scopriamo che non c’è nessuna crisi e che abbiamo più bisogno noi della Cina che lei di noi e che, anche a questo giro, andando dietro alla retorica bellicista USA non facciamo altro che darci l’ennesima martellata sui coglioni. Forse, e dico forse, avremmo bisogno di un media che non ci racconta fregnacce per convincerci a darci altre martellate sui coglioni; forse, e dico forse, avremmo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

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E chi non aderisce è Maurizio Belpietro.