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GAZA E IL TABU’ DEL 7 OTTOBRE – Perché la propaganda continua a mentire sull’attacco di Hamas

“Il massacro del 7 ottobre come la Shoah”: così titolava la sua ennesima, lunga sbrodolata inconcludente Fiamma Nirenstein qualche giorno fa su Il Giornale; “non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 ottobre scorso” scriveva nell’articolo. “Ambedue” continuava “sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno a uno, bambini, genitori, nonni” anche se – concedeva – “con dimensioni diverse”. Meno male, dai… qualche differenzina ce la vede pure lei. E’ già qualcosa.
Imporre all’opinione pubblica una ricostruzione di quanto accaduto il 7 ottobre la più drammatica e inquietante possibile è una parte essenziale del meccanismo genocida messo in moto da Israele; per giustificare lo sterminio indiscriminato di migliaia di bambini indifesi e il perseguimento della soluzione finale attraverso la pulizia etnica, il mito fondativo deve essere solido, indiscutibile, sconvolgente. Ma siamo davvero proprio sicuri che c’abbiano detto tutta la verità, nient’altro che la verità?

Ehud Olmert

“Comunque vada, Hamas ha riportato una vittoria”: a dirlo non è qualche leader dell’asse della resistenza, ma nientepopodimeno che un ex premier israeliano di persona personalmente. Il riferimento, ovviamente, è all’esito della trattativa sullo scambio di prigionieri e a pronunciarsi è Ehud Olmert che così, a occhio, sa di cosa parla: sindaco di Gerusalemme durante la seconda intifada di inizi anni 2000 e a capo del governo durante l’operazione Piombo Fuso che, come oggi, si poneva l’obiettivo dichiarato di annichilire Hamas, di scambi di prigionieri se ne intende. Era stata proprio una faccenda di prigionieri, infatti, nel 2006 a dare il via all’operazione Piombo Fuso; ad essere rapito, in quel caso era stato, il giovane carrista franco – israeliano Shalit Gilad. Verrà rilasciato solo 5 anni dopo, in cambio della bellezza di 1.027 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane; per l’entità sionista, non esattamente un trionfo, diciamo. Ma cosa c’entra tutto questo con la ricostruzione dei fatti del 7 ottobre?
C’entra, c’entra. L’operazione diluvio di Al-Aqsa infatti, con ogni probabilità, aveva sostanzialmente due obiettivi: il primo, di carattere politico, consisteva nel riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla questione nazionale palestinese che, fino ad allora, ci si illudeva fosse ormai sostanzialmente risolta con una vittoria schiacciante dell’occupazione israeliana; il secondo, di carattere strettamente militare, consisteva – appunto – nel fare incetta di prigionieri da barattare con la liberazione del maggior numero possibile di palestinesi detenuti, appunto, nelle carceri israeliane, a partire dai 700 minori e dagli oltre mille che non sono mai stati sottoposti a un processo e vivono nel limbo di quel crimine conclamato che è la detenzione amministrativa. Ed è proprio la dottrina elaborata dalle forze armate israeliane per impedire alle forze della resistenza di catturare prigionieri e ricattare Tel Aviv che sta alla base di tutto quello che ancora non torna nelle ricostruzioni ufficiali della propaganda giustificazionista del genocidio su quanto realmente avvenuto il 7 ottobre, un giallo in tre atti.
Il primo: siamo sul valico di Erez, che non è solo – semplicemente – la principale porta d’ingresso per il carcere a cielo aperto di Gaza, ma anche il principale avamposto militare e la sede dell’amministrazione civile del carceriere e il primo obiettivo del diluvio di Al-Aqsa. I militanti della resistenza attaccano le infrastrutture militari del varco a partire dalle prime ore dell’alba; poco dopo entrano in scena gli Apache delle forze armate israeliane, armati di missili Hellfire, che bombardano a tappeto. Bisogna imporre la ritirata alla resistenza e impedirle di fare prigionieri, a costo di causare vittime anche tra gli israeliani. Non è una scelta estemporanea: è una procedura formale adottata dalle forze armate israeliane sin dal lontano 1986. Si chiama Direttiva Annibale – dal nome del generale cartaginese che si avvelenò piuttosto che essere catturato dai romani – e che prevede che “Il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze” (Eyal Weizman, Goldsmith College di Londra), ed è la chiave di volta per provare a capire cos’è successo, da lì in poi, in quella drammatica giornata.
E siamo al secondo atto del nostro giallo: la location, a questo giro, è il kibbutz di Be’eri, ad appena 5 chilometri dal confine; con un bilancio di oltre 100 vittime, è il luogo di uno dei massacri che ha destato più indignazione in assoluto, ma su chi abbia ucciso chi ci sono più dubbi di quanto non si voglia far trapelare. Pochi giorni dopo gli avvenimenti, infatti, una delle pochissime sopravvissute, Yasmin Porat, aveva rilasciato un’intervista a una radio israeliana: dichiarava di essere stata rinchiusa in una stanza con altri 12 prigionieri, controllati a vista da una quarantina di membri della resistenza. “Ci hanno trattato molto umanamente” ha dichiarato; “eravamo spaventati a morte e hanno provato a tranquillizzarci. Il loro obiettivo era rapirci e portarci a Gaza, non ucciderci”. Esattamente quello che le forze armate israeliane avevano il mandato di evitare con ogni mezzo necessario, ed ecco così che, quando arrivano nel villaggio, inizia uno scontro violentissimo: uno dei rapitori prende Yasmin ed esce allo scoperto, usandola come scudo umano; la donna grida ai soldati israeliani di fermare il fuoco, senza risultati. Attorno a sé vede corpi di persone morte ovunque: “Erano stati uccisi dai terroristi?” chiede l’intervistatore: “No” risponde Yasmin “sono stati uccisi dal fuoco incrociato”. “Quindi potrebbero essere stati uccisi dalle nostre forze di sicurezza?” chiede l’intervistatore: “Senza dubbio” risponde Yasmin.

Max Blumenthal

Ma è solo la punta dell’iceberg: come riporta un giornalista del media israeliano i24 “Case piccole e pittoresche sono state bombardate o distrutte” e “prati ben tenuti sono stati divelti dalle tracce di un veicolo blindato, forse un carro armato”. Ancora, dopo 11 giorni dall’attacco, in mezzo alle macerie di una casa sono stati ritrovati i corpi di una madre e di suo figlio e – sostiene Max Blumethal in un lungo articolo pubblicato su GrayZone – “Gran parte dei bombardamenti a Be’eri sono stati effettuati da equipaggi di carri armati israeliani”. Tuval Escapa è uno dei responsabili della squadra incaricata di garantire la sicurezza del kibbutz Be’eri; durante l’attacco, avrebbe improvvisato una specie di linea diretta per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano, ma non è andata come sperava: “I comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”, e a effettuare i bombardamenti non sarebbero stati solo i carri armati.
E qui siamo al terzo atto del giallo: la location, questa volta, è l’ormai tristemente arcinoto festival di musica elettronica Nova, a pochi chilometri dal kibbutz; secondo Blumenthal, è qui che gli Apache delle forze armate israeliane armati di missili Hellfire avrebbero concentrato la loro potenza di fuoco nel tentativo di impedire alle auto dei membri della resistenza – che, con ogni probabilità, stavano trasportando anche prigionieri da portare a Gaza – di portare a termine la loro missione e che, sottolinea la stessa stampa israeliana, è molto probabile non fosse stata poi neanche più di tanto programmata: “Tra i funzionari della sicurezza” riporta infatti Haaretz “in molti sostengono che i terroristi che hanno compiuto il massacro del 7 ottobre non sapevano in anticipo del festival”. Blumethal riporta un’intervista a un pilota di uno di questi elicotteri Apache presenti nell’area, rilasciata al notiziario israeliano Mako: il pilota avrebbe ammesso di non avere la minima idea di quali fossero i veicoli che potevano trasportare prigionieri israeliani, ma di aver comunque ricevuto l’ordine di aprire il fuoco lo stesso. Blumenthal riporta anche un articolo del quotidiano israeliano Yeditoh Aharanoth dove si sottolineava come “i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile”, “E così” commenta Blumenthal “senza alcuna intelligenza o capacità di distinguere tra palestinesi e israeliani, i piloti hanno scatenato una furia di colpi di cannoni e missili sulle aree israeliane sottostanti”. “Le forze di sicurezza israeliane” continua Blumethal “hanno anche aperto il fuoco su israeliani in fuga che hanno scambiato per uomini armati di Hamas. Una residente di Ashkelon di nome Danielle Rachiel ha descritto di essere stata quasi uccisa dopo essere fuggita dal festival musicale Nova: “Quando abbiamo raggiunto la rotonda, abbiamo visto le forze di sicurezza israeliane!” Rachel ha ricordato; “Abbiamo tenuto la testa bassa [perché] sapevamo automaticamente che avrebbero sospettato di noi, a bordo di una piccola macchina scassata… dalla stessa direzione da cui provenivano i terroristi. Le nostre forze allora hanno iniziato a spararci, mandando in frantumi i finestrini”.
Per quanto fondate principalmente su articoli apparsi sui media israeliani, Haaretz ha subito etichettato le ricostruzioni di Blumenthal come “tesi cospirazioniste”, che è l’etichetta che ormai si affibbia con una certa facilità a qualsiasi cosa metta in questione la narrazione dominante, fino a quando però – pochi giorni dopo – Haaretz stesso non ha dato la notizia di un rapporto della polizia che confermerebbe che i partecipanti al festival sono stati uccisi – almeno in parte – proprio dall’esercito israeliano: “Secondo una fonte della polizia” scrive Haaretz “un elicottero da combattimento dell’IDF avrebbe sparato ai terroristi e apparentemente avrebbe colpito anche alcuni dei ragazzi che stavano partecipando al festival”; “Quello che abbiamo visto qui era una Direttiva Annibale di massa” avrebbe dichiarato il pilota di uno degli elicotteri Apache ad Haaretz. Il punto, però, è che a questo giro la Direttiva Annibale avrebbe ampliato a dismisura il numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ma senza ottenere grossi risultati: la resistenza palestinese è rientrata a Gaza col più grande bottino di prigionieri della storia del conflitto, e così oggi si ritrova in mano una potente arma di ricatto. “Questa tregua permetterà ad Hamas di riorganizzarsi” ammette Olmert nell’intervista al Fatto Quotidiano, ma “è un rischio che dobbiamo correre per forza”.

Ehud Barak

Attenzione, però, a non cedere ai sentimentalismi: posizioni come queste non rappresentano, come si sente spesso sostenere, una fazione più moderata e dialogante all’interno dell’establishment israeliano. Per entrambi, il fine rimane esattamente lo stesso: la distruzione di una prospettiva nazionale per il popolo palestinese che presuppone l’annichilimento della resistenza, che oggi è guidata da Hamas, che quindi va annientata. Whatever it takes. Il più grande rimpianto di Olmert, infatti, è ai tempi di Piombo Fuso aver fatto solo un decimo dei morti fatti in questo ultimo mese e mezzo, e di aver lasciato il lavoro a metà: “In quel frangente” riflette nostalgico Olmert “non avevo più la forza di proseguire fino all’annichilimento di Hamas”, ma “se potessi tornare indietro, farei l’opposto: terrei duro”. Ma contro chi? Chi è che lo spinse a demordere? Olmert è chiaro: furono “l’allora ministro della Difesa Ehud Barak e il capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi”. Ci risiamo: i vertici militari che spingono alla prudenza e alla mediazione la politica sono di animo gentile? Macché: semplicemente, a differenza di Olmert, sanno di cosa parlano. Il punto infatti è che, allora come oggi, dal punto di vista militare gli obiettivi che rimpiange Olmert e che oggi rivendica Netanyahu – molto semplicemente – non sono raggiungibili.
Un film che abbiamo, in qualche modo, visto in Ucraina: la politica si nutre di pensiero magico, spera di ottenere risultati militari oggettivamente non raggiungibili, li persegue per un po’ di tempo sulla pelle dei soldati ucraini come dei bambini palestinesi e alla fine, quando il fallimento diventa palese anche ai lettori de la Repubblichina o del Giornale, ecco che arriva l’editoriale di turno che ribalta la realtà e dipinge la sconfitta come una vittoria. Gli innumerevoli motivi per i quali l’annichilimento di Hamas è una chimera li ricorda magistralmente, in un lungo articolo di ieri su Foreign Affairs, Audrey Kurth Cronin, direttrice del prestigioso Carnegie Mellon Institute for Strategy and Technology: “Il vantaggio asimmetrico di Hamas” si intitola. “Gli Stati e gli eserciti tradizionali” ricorda la Cronin “hanno sempre penato parecchio nel tentativo di sconfiggere i gruppi terroristici, ma la guerra tra Israele e Hamas dimostra perché oggi è diventato quasi impossibile”; “molti progressi tecnologici” ricostruisce la Cronin “hanno portato benefici sproporzionati ai gruppi terroristici” tanto che la Cronin attribuisce la nascita stessa del terrorismo proprio a una novità tecnologica: la dinamite.
Era il 1867; fino ad allora “i proiettili che usano polvere da sparo, come le granate, erano delicati e pesanti. La dinamite invece si nasconde facilmente sotto i vestiti e può essere accesa rapidamente e lanciata agilmente contro un bersaglio. Il risultato fu un’ondata di azioni terroristiche portate avanti da piccoli gruppi e da singoli individui, compreso l’assassinio con la dinamite nel 1881 dello zar russo Alessandro II”. La seconda tappa di questa avvincente cronistoria delle azioni terroristiche arriva nel 1947 con l’introduzione dell’AK-47, che “cambiò di nuovo l’equazione a favore degli attori non statali”; “Le statistiche parlano chiaro” sottolinea la Cronin: “tra il 1775 e il 1945 gli insorti hanno vinto contro gli eserciti statali circa il 25% delle volte. Dal 1945 questa cifra è balzata a circa il 40%. E gran parte di questo cambiamento può essere attribuito all’introduzione e alla diffusione globale dell’AK-47”.
Ora le rivoluzioni tecnologiche che rendono Hamas un nemico sostanzialmente impossibile da debellare sono parecchie: razzi Qassam auto – costruiti che, dai 15 chilometri di gittata che avevano nel 2005, ora ne hanno 250, i droni suicidi Zouari che evitano le difese aeree israeliane, i piccoli droni commerciali che trasportano granate o mitragliatrici da azionare a distanza, ma ancora la comunicazione social, che sta permettendo ad Hamas di contrastare efficacemente la propaganda sionista. E poi i tunnel, i benedetti tunnel di cui parliamo dall’inizio e che – anche se presi dall’entusiasmo verso la propaganda israeliana ogni tanto facciamo il tentativo di rimuovere – in realtà stanno sempre lì, e Israele non sa minimamente cosa farci. Ma a parte la tecnologia, sottolinea la Cronin, “Il più importante vantaggio asimmetrico di Hamas è di carattere strategico: lo sfruttamento della risposta di Israele al suo attacco. Poiché l’obiettivo dell’attacco di Hamas” continua la Cronin “era quello di provocare una reazione eccessiva e controproducente da parte di Israele, la risposta violenta dell’IDF ha infiammato l’opinione pubblica nella regione contro Israele esattamente come Hamas voleva”; “In parole povere” continua la Cronin “Israele ha abboccato rispondendo all’attacco di Hamas con la repressione violenta, un metodo di antiterrorismo popolare ma raramente efficace che funziona meglio quando i membri dei gruppi terroristici possono essere distinti e separati dalla popolazione civile: un compito impossibile a Gaza”.

Ebrahim Raisi

“Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi” ha ribadito ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi: “Ciò che ha fatto il regime sionista dimostra che è diventato disperato di fronte alla resistenza palestinese. Ma l’uccisione di donne e bambini non si traduce in vittoria” e, anzi “ha creato un’atmosfera senza precedenti di odio anti – sionista in tutto il mondo”. Pure in Vaticano: “Questa non è guerra” ha affermato papa Bergoglio, “è terrorismo”. Insomma, per dirla con la Cronin “Israele ha pochi modi per eliminare i vantaggi asimmetrici di Hamas. Il Paese non può invertire il cambiamento tecnologico o eliminare completamente la simpatia che attira la resistenza palestinese”. Per indebolire Hamas, l’unica arma a disposizione di Israele è la moderazione: “Dato che Hamas ha progettato il suo attacco per alimentare una reazione eccessiva da parte di Israele” conclude la Cronin “la cosa migliore che Israele può fare ora è rifiutarsi di fare il gioco di Hamas”.
Insomma: nel mondo suprematista c’è un gran dibattere sulle strategie più giuste per continuare il business as usual del colonialismo e dell’occupazione illegittima fondata sull’apartheid; abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio nuovo media che affermi ogni giorno che dopo il 7 ottobre non ci potrà mai più essere business as usual e che l’unico modo per sconfiggere la resistenza è eliminare la ferocia imperialista alla quale sta resistendo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fiamma Nirenstein