A.A.A. solidarietà cercasi
Citata e abbandonata a più riprese nella storia del pensiero, continua a indicare una pratica combattente, capace di plasmare le interconnessioni del mondo multipolare verso uno sbocco rivoluzionario.
9 maggio 1950. Per salutare la nascita della nuova creatura europea chiamata CECA, il padre fondatore Robert Schuman pronuncia queste parole:
“L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto.”
Ne è passata di acqua sotto i ponti di Bruxelles, eppure il continuo richiamo alla solidarietà tra i paesi europei non si è mai sopito, tanto da essere chiamato in causa nel Trattato dell’Unione Europea, nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e persino nel preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali.
Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti come la solidarietà tanto evidenziata sulla carta si sia spesso trasformata in lettera morta, se non nel suo contrario: il processo di costruzione europeo, che pareva a tutti una strada spianata, si è rivelato un ottovolante con le politiche del Vecchio Continente sospese tra contraddizioni economiche, politiche neoliberiste, conflittualità vecchie e nuove tra blocchi contrapposti. Tanto che qualche maligno potrebbe trovare un nesso tra lo svuotamento della solidarietà europea e l’uso del tutto arbitrario e spregiudicato della parola stessa come slogan.
A poche ore dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, ad esempio, Ursula Von der Leyen si è precipitata su Twitter a garantire la solidarietà dell’intera Unione per Israele:
Seguendo a ruota, manco a dirlo, le posizioni (ora molto più sfumate), della Casa Bianca:
“Il presidente Biden ha parlato questa mattina con il primo ministro israeliano Netanyahu. Il Presidente ha espresso ancora una volta profonda solidarietà per tutti i dispersi, i feriti e gli uccisi e ha garantito il suo pieno sostegno al governo e al popolo di Israele di fronte a un attacco senza precedenti e spaventoso da parte dei terroristi di Hamas”. – Washington, 8 ott. (Adnkronos)
Sembra il destino funesto della solidarietà: diventare un po’ come il prezzemolo; un termine vuoto o quantomeno ambiguo, privo di riferimento e interesse politico, come “amicizia”, “fratellanza” o “sistema internazionale basato sulle regole”.
E’ per solidarietà che si pagano le tasse, che si aiuta il prossimo, che si danno soldi ai bisognosi o che si aiutano i paesi “sottosviluppati” a “svilupparsi”, ovviamente sempre e solo nelle modalità decise a tavolino dal Nord Globale. Ma c’è forse qualcosa di più: perché la solidarietà come pratica concreta sembra ancora possedere una forza dirompente. Ne sono un esempio le centinaia di migliaia di persone scese in piazza in tutte le città del Vecchio Continente, questa volta per il popolo palestinese. Persino da noi, noti vassalli di Washington, si è mosso qualcosa. A Roma, per esempio, dove
“I collettivi di Osa – Opposizione studentesca d’alternativa, Zaum e Cambiare Rotta, protestano contro la riunione straordinaria del senato accademico dedicato a una risoluzione di condanna agli attacchi di Hamas e in difesa di Israele. “Rettrice, non te la faremo passare questa”, hanno urlato i manifestanti nei megafoni indirizzandosi ad Antonella Polimeni. “Rettrice, stiamo arrivando”. I collettivi hanno provato a entrare negli uffici del Rettorato durante la riunione straordinaria del senato accademico ma sono stati bloccati dagli agenti. Poi è stato scandito il coro ‘Palestina libera’ ed è stato esposto uno striscione ‘Con la Resistenza fino alla vittoria’. Gli studenti pro-Hamas protestano contro una mozione che sosterrebbe ‘la brutalità di Israele contro il popolo palestinese che da decenni massacra donne, bambini, famiglie e distrugge case'”. (Roma, 10 ott. – Il Tempo)
Esiste persino una giornata del calendario, il 29 novembre, che l’ONU, nota organizzazione filo-Hamas e filo-putiniana, dedica ogni anno alla “Solidarietà con il Popolo Palestinese”.
Stessa parola d’ordine, solidarietà, con risultati diversi: se il coro di solidarietà per Israele, inteso come “sostegno incondizionato” whatever it takes, ha ricevuto pronta eco e diffusione in tutte le testate mainstream, le manifestazioni solidali con la causa palestinese si sono prese le manganellate (virtuali o reali) da parte di quel circo mediatico per il quale uno stato terrorista e suprematista, solo in quanto “democratico”, diventa un baluardo della libertà nel Mondo.
Se possiede il potere di far mobilitare le coscienze di mezzo globo, allora, la solidarietà non è un concetto vuoto o superfluo, ma denota una pratica importante e potenzialmente incisiva per i sempre più fragili equilibri del Nord Globale, afflitto da sempre più contraddizioni in ambito politico, economico e sociale.
Tuttavia, un conto è incontrare la solidarietà nel quotidiano, altro è indagarla nelle sue radici storiche come concetto. E’ a quest’opera di scavo che Alessandro Volpe si è cimentato col suo saggio Solidarietà. Filosofia di un’idea sociale, nel tentativo di abbozzarne una sorta di genealogia per mettere a fuoco le sue radici combattenti.
Non è un caso, ad esempio, che i riferimenti alla solidarietà spuntino agli albori della Rivoluzione Francese, come evoluzione dell’idea di fraternità. Prima della presa della Bastiglia, infatti:
“le parole liberté e egalité erano accompagnate solo da ‘Unité indivisible de la République’ e dal monito ‘ou la mort’ – ‘o la morte’ – più tardi rimosso perché troppo legato agli anni del Terrore”, mentre la “fraternité era intesa in termini sociali come la realizzazione della libertà politica di tutti i cittadini”.
Dal concetto di fratellanza, alla base tanto della concezione di solidarietà cristiana quanto, per il rimando ai legami di sangue, della solidarietà di matrice nazionalista ed etnica, emerge un’idea di rapporto che va oltre il riconoscimento dell’altro come “fratello”: la solidarietà si configura come pratica inserita in un sistema di interdipendenza sociale e di lotta per il riconoscimento dei propri interessi e obiettivi, che attecchisce sulle condizioni materiali di lavoro dei singoli.
Il primo a tratteggiare compiutamente questa nuova concezione di solidarietà nella società otto-novecentesca è stato Émile Durkheim, per il quale il tratto distintivo di questo nuovo contesto socio-produttivo figlio delle due rivoluzioni industriali è proprio l’inevitabile interdipendenza tra individui che si concepiscono sempre più liberi e autonomi rispetto alle situazioni passate. Una condizione paradossale, sulla quale il noto antropologo si arrovellava senza sosta:
“Come avviene che, diventando più autonomo, l’uomo dipenda più strettamente dalla società? Come può allo stesso tempo individualizzarsi ed essere sempre più vincolato ai legami di solidarietà?”
un quesito a cui Durkheim risponde, nella lettura di Habermas, che ci troviamo di fronte a:
“una nuova forma di solidarietà che non è più garantita da un consenso di valore precedente, ma deve essere realizzata in cooperazione grazie agli sforzi individuali. Al posto di un’integrazione sociale attraverso la fede, abbiamo un’integrazione sociale attraverso la cooperazione.”
La solidarietà come concetto socialmente determinato attraversa quindi delle fasi alterne, sempre al centro delle riflessioni dei pensatori più diversi: da Proudhon a Weber, da Scheler all’anarchico Kropotkin.
E’ con lo sviluppo teorico del socialismo, però, che la solidarietà traghettata nel Novecento inizia a rivestire un ruolo importantissimo non solo come sistema di mutuo riconoscimento, appoggio e consapevolezza della classe lavoratrice, ma soprattutto come guida del blocco delle classi subalterne per soppiantare quelle dominanti. Come attestato in un celebre saggio del 1919 del filosofo György Lukács:
“La solidarietà propagandata dai più grandi filosofi della borghesia come ideale sociale irraggiungibile esiste realmente nella coscienza di classe, negli interessi di classe del proletariato. Nella storia del mondo, la vocazione del proletariato si rivela nel fatto che la realizzazione dei suoi interessi di classe porta con sé la liberazione sociale del genere umano.”
Proprio dal solco della tradizione socialista e rivoluzionaria si aggiunge quindi un tassello fondamentale per definire la solidarietà, che Alessandro Volpe sintetizza lucidamente come:
“Una relazione simmetrica di mutuo supporto e condivisione del rischio, basata sul riconoscimento di una causa comune.”
Lungi dall’essere un ideale astratto di mutuo aiuto tra individui, che prescinde da qualsiasi collocazione socio-economica, e quindi dal riconoscimento della condizione di interdipendenza (e di dominio/sottomissione) tra soggetti, la solidarietà si realizza come pratica combattente. Praticarla non significa perciò agire nel solo rispetto della libertà altrui, seguendo la massima liberale “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, ma riconoscere pari dignità agli interessi dell’altro e impegnarsi con l’altro nella realizzazione di un obiettivo comune.
Che si parli di una battaglia inter-statale per uno sviluppo sostenibile, di scioperare per un salario dignitoso con altri lavoratori o di sostenere come privati cittadini o associazioni il riconoscimento del popolo palestinese o kurdo, è la causa comune che dà senso e direzione alla pratica solidale.
Un semplice aiuto economico o materiale nei confronti di chi è in posizione di bisogno, ad esempio, non va confuso con un atto solidale.
Manca, infatti, il riconoscimento del bisognoso come nostro “pari” e la condivisione di una causa (e dei rischi connessi al suo perseguimento).
Che si sviluppi tra singoli cittadini, tra soggetti politici o associativi, tra classi o tra interi Paesi, la solidarietà appare un motore imprescindibile per richiamare l’attenzione sulle contraddizioni del sistema economico-sociale; e in questa prospettiva si può capire come, viceversa, banalizzarne la portata o utilizzarne il concetto come “prezzemolo retorico” buono per tutti i contesti, diventi una strategia mediatica effcace per soffocare il suo afflato rivoluzionario. Viviamo in un mondo globalizzato e multipolare, dove è sempre più stretta ed esplicita l’interdipendenza tra singoli cittadini, stati sovrani emergenti, popoli in cerca di un riconoscimento per troppo tempo negato dalla gerontocrazia suprematista occidentale; dove le “sovrastrutture” di giustizia internazionale apparentemente neutrali celano a fatica lo squilibrio di potere in favore del Nord Globale; dove anche i paesi dell’UE condividono una storia ma non una vera causa comune; in questo mondo, affermare la solidarietà come pratica politica e sociale non è un optional, ma una tappa strategica obbligata.