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Rimbambiden benedice la Le Pen e affida alla destra reazionaria il compito di svendere l’Europa

Oohhh, ora sì! Ne sentivamo veramente il bisogno! Come titolava a 6 colonne Libero ieri, finalmente Nasce la nuova destra: “Salvini e Le Pen” riporta la testata di Angelucci, il KingMaker della destra arraffona e svendipatria italiana, “rompono con i tedeschi di AfD, rimuovendo l’ultimo ostacolo per la formazione di una grande alleanza anti-sinistra che punti a governare l’Europa”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso delle tensioni fra ultradestra italiana e francese e quella tedesca in ascesa sarebbe stata nientepopodimeno che l’intervista pubblicata sabato scorso su La Repubblichina all’uomo indicato dall’AfD come il suo candidato alla presidenza della commissione europea, Maximilian Krah: “Non dirò mai che chi aveva un uniforme delle SS era automaticamente un criminale” aveva affermato. Non aspettavano altro: nell’arco di poche ore, Rassemblement National della Le Pen ha annunciato ufficialmente di aver tagliato definitivamente i ponti con l’AfD e che nel parlamento che verrà ridisegnato con le elezioni europee del 9 giugno non siederà più nello stesso gruppo parlamentare degli ex amici tedeschi; e, subito dopo, immancabilmente gli ha fatto eco la Lega di Matteo Salvini.
E’ l’esito scontato, anche se probabilmente più rapido e repentino del previsto, delle parole pronunciate la settimana scorsa dal portavoce delle oligarchie euroatlantiche, il presidente del parlamento europeo in carica Charles Michel, che avevamo già riportato in quest’altro video qua: “Nei partiti che vengono definiti di estrema destra” aveva dichiarato “vi sono personalità con cui si può collaborare”; il parametro da adottare per fare la selezione alla porta ovviamente non ha niente a che vedere con il nazifascismo e le SS che, anzi, negli ultimi due anni sono stati ripetutamente sdoganati tra leggende metropolitane sui lettori di Kant e vecchi stragisti antisemiti salutati come eroi della patria in giro per i parlamenti dell’Occidente collettivo. Quella è semplicemente la scusa: una trappola ben architettata che hanno teso all’impresentabile Maximilian Krah e nella quale, da sprovveduto quale è, è precipitato serenamente senza rendersene minimamente conto. Il discrimine vero, ovviamente, è tutt’altro e l’aveva sottolineato esplicitamente Michel stesso: l’importante, aveva affermato, è che siano “pronti a collaborare per sostenere l’Ucraina, e a rendere l’Ue più forte” che, tradotto, significa “che siano schierati dalla parte giusta nella guerra che l’imperialismo ha dichiarato ai paesi sovrani di tutto il mondo e che siano pronti a rinunciare ancora di più alla sovranità dei rispettivi paesi (dove – nonostante tutto – vigono ancora sistemi almeno parzialmente democratici) per trasferire ancora più potere a una struttura sovranazionale completamente post democratica come l’Unione europea e mettere, così, definitivamente al sicuro l’adesione all’agenda ultra-atlantista senza rischiare che venga messa almeno parzialmente in discussione dal voto popolare”; due paletti che l’AfD, al momento, non sembra essere troppo propensa a rispettare.

Maximilian Krah

Ed ecco quindi, casualmente, che arriva il casus belli e l’opportunità per fare, come titolava il suo editoriale di ieri sempre su Libero Mario Sechi, “la mossa giusta per contare di più” che, sostanzialmente, significa fare a livello europeo quello che Giorgia lamadrecristiana ha già portato a termine nel laboratorio politico italiano: sostituirsi alla sinistra ZTL come la fazione del partito unico della guerra e degli affari più affidabile agli occhi dell’imperialismo a guida USA e delle sue oligarchie in questa lunga stagione di guerra totale contro il resto del mondo. Ma prima di provare a capire cosa significa e cosa può comportare questo epocale spostamento del baricentro politico dell’intero vecchio continente, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra di guerra (quella contro la dittatura degli algoritmi) e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutte le nostre pagine social e attivare tutte le notifiche; un’operazione che a voi costa pochi secondi di tempo, ma che per noi può fare davvero la differenza e aiutarci a costruire un vero e proprio media che, invece di fare da cassa di risonanza alle boiate della sinistra ZTL e della destra svendipatria, dà voce agli interessi del 99%.
“La mossa di Le Pen e Salvini è giusta” scrive Mario Sechi nel suo editoriale di ieri che trasuda entusiasmo da tutti i pori: “è un’opportunità, tutta da costruire e con poco tempo per spiegarla. Il risultato lo vedremo presto: siamo nella fase in cui si fanno le scommesse, siamo tra il razionale e l’irrazionale. E’ il fascino del voto, fate il vostro gioco” (Mario Sechi, Libero). La quantità di fuffa messa sul tavolo dai pennivendoli della destra fintosovranista per cercare di dare una qualche forma di nobiltà alle spericolate acrobazie politiche che sta cercando di compiere per accreditarsi come il più fedele dei cani da guardia dell’impero agli occhi del padrone di Washington, ricorda i tempi migliori delle supercazzole di Vendola e Bertinotti; ci manca giusto la mossa del cavallo e abbiamo fatto l’en plein. Un parallelismo che non dovrebbe sorprendere troppo, tutto sommato: proprio come allora, infatti, la sinistra cosiddetta radicale si doveva inventare teorie astruse per giustificare il sostegno a governi che, con la loro foga riformatrice in chiave ferocemente neoliberista, ne contraddicevano alla radice la stessa ragion d’essere; ora la mission impossible di dover giustificare – a suon di parabole e frasi ad effetto – il sostegno a un’ipotesi di governo in netto contrasto con l’euroscetticismo e il Pivot to Russia professato fino ad oggi, tocca alla destra fintosovranista e svendipatria.
Come sottolineiamo continuamente, nell’ambito dell’imperialismo unitario, tanto nel centro imperiale USA quanto – a maggior ragione – nella periferia europea, non c’è nessunissima alternativa concreta di governo che possa essere espressa dalle urne; lo stato profondo dell’imperialismo unitario ha optato, per ragioni strutturali che ci sforziamo continuamente di sviscerare, per una guerra totale contro il resto del mondo e le elezioni non possono che essere una sorta di concorso interno al partito unico della guerra e degli affari per decidere quale fazione dovrà governare questa lunga e travagliata fase. Di default, il referente più accreditato sarebbe quel guazzabuglio della maggioranza Ursula, un’accozzaglia talmente informe da garantire che non venga mai messo in discussione il pilota automatico che guida la politica della colonia europea; il vecchio e paludato establishment, con il suo sterminato curriculum in tema di utilizzo di doppi standard, presenta inoltre anche l’innegabile vantaggio di conoscere il galateo e di avere un volto presentabile, requisito piuttosto utile per poter continuare a ricorrere alla barzelletta dello scontro tra società aperte e responsabili, da un lato, e sconsiderati e feroci regimi autoritari dall’altro. Fino ad oggi, questa favoletta per analfoliberali ha sempre rappresentato un potente dispositivo egemonico che faceva credere a una parte consistente di popolazione che anche se era chiamata a sopportare giganteschi sacrifici (mentre le sue élite economiche non facevano che arricchirsi) alla fine, perlomeno, era per una buona causa; ma questo dispositivo egemonico – e, cioè, questo artificio retorico che fa credere a chi è bastonato che, alla fine, sia per il suo bene – nonostante tutti gli sforzi della propaganda, mano a mano che le bastonate diventavano più forti non ha fatto che perdere il suo appeal. Ma non solo: per quanto, con ogni probabilità, del tutto velleitarie nel cuore stesso della sinistra delle ZTL, mano a mano che la totale subordinazione all’agenda delle oligarchie USA ne faceva precipitare i consensi si sono cominciate a vedere alcune crepe.
Il primo ministro socialdemocratico tedesco, ad esempio, spinto dai malumori crescenti di una fetta consistente della sua borghesia nazionale, prima ha opposto qualche flebilissima resistenza all’invio delle armi più distruttive in Ucraina – dai Leopard ai Taurus – e poi ha anche abbozzato qualche forma di dialogo con il nemico pubblico numero 1, la Repubblica Popolare Cinese; qualche mal di pancia, poi, è emerso per il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini palestinesi perpetrato dal regime fasciosionista di Tel Aviv: prima, in particolare, da parte del governo di centrosinistra spagnolo e poi, addirittura, dall’amministrazione del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron che, giusto ieri, ha espresso il suo sostegno alla richiesta da parte del procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aja di un mandato di cattura per Bibi Sterminator Netanyahu e il suo fedele ministro dello sterminio, Yoav Gallant. Ma soprattutto – come abbiamo sottolineato a più riprese – nel caso specifico di Macron, questo sussulto di dignità sulla questione genocidio non è un episodio isolato: il protagonismo degli ultimi mesi del sempre pimpantissimo Manuelino, infatti, non è passato certo inosservato; in principio furono le parole che Manuelino pronunciò nel viaggio di ritorno dalla Cina, quando Manuelino si azzardò a sottolineare che “Per troppo tempo l’Europa” non avrebbe perseguito con sufficiente convinzione la strada per la costruzione di una sua “autonomia strategica”, che non dovremmo farci coinvolgere “in una logica di blocco contro blocco“ e che non dovevamo lasciarci coinvolgere in scenari di “crisi che non sono nostre”, alludendo chiaramente alle tensioni nel Pacifico e nello Stretto di Taiwan. Poi c’è stata la sparata sull’invio di truppe in Ucraina, che in molti hanno letto come un atto di fedeltà suprema alla guerra USA contro la Russia, ma in realtà, molto probabilmente, anche qui la realtà è decisamente più complessa: dopo essere stato – in assoluto – il paese europeo che ha mandato meno aiuti a Kiev, la fuga in avanti sull’invio di truppe, in realtà, poteva anche essere letta come un tentativo di forzare la creazione di una difesa comune europea con la Francia e il suo ombrello nucleare al centro e in grado di garantire, appunto, una certa autonomia strategica. Dopo ancora è arrivato il famoso rapporto di Enrico Baionetta Letta, uomo legato a doppio filo alle élite d’oltralpe che, sostanzialmente, invocava la creazione di un monopolio finanziario privato autonomo europeo, ovviamente a guida francese; traiettoria che, subito dopo, il sempre pimpantissimo Manuelino ha ribadito aprendo all’ipotesi di operazioni di fusione e acquisizione tra grandi banche europee con un occhio di riguardo, in particolare, a operazioni che vedano coinvolti gruppi spagnoli e francesi.
Intendiamoci: non si tratta certo di atti di insubordinazione sovranista all’imperialismo unitario. Lo schema all’interno del quale si muove Macron è comunque sempre quello della globalizzazione neoliberista e della finanziarizzazione spinta dell’economia a favore delle oligarchie transnazionali; e infatti il suo nuovo protagonismo ha trovato grande risalto nella grande stampa finanziaria internazionale che gli ha dedicato prime pagine su prime pagine, da Bloomberg all’Economist, che oltre ad aver sottolineato più volte tutte le sue perplessità nei confronti della svolta neoprotezionista degli Stati Uniti, ricordiamo essere anche legata a doppio filo proprio alla finanza francese in quanto di proprietà della Exor della famiglia Agnelli/Elkann, tra i principali azionisti – tra l’altro – della ormai sostanzialmente francese Stellantis. Ciononostante, appunto, segnala una qualche ripresa della volontà di grandeur francese e, in continuità con il gaullismo (che, comunque, rappresenta una componente importante dello stato profondo francese), anche di volontà – appunto – di ritagliarsi un posto al sole in un sistema imperialistico riformato e non completamente appiattito sulle esigenze di Washington e di Wall Street. Ora, intendiamoci, si tratta chiaramente, in buona parte, di ambizioni velleitarie: ciononostante, per una Washington che comunque – nonostante il suo fondamentalismo eccezionalista – non può non riconoscere il progressivo declino del sistema superimperialista incentrato sul suo dominio, sicuramente rappresentano motivo di più di qualche preoccupazione, soprattutto in prospettiva; l’attivismo del sempre pimpantissimo Manuelino, infatti, può anche essere letto come la necessità di costruire una exit strategy sostenibile per le sue oligarchie nazionali – e non solo nel caso il gigantesco schema Ponzi che è l’economia ultra-finanziarizzata degli USA (e che sta in piedi se e solo se nessuno riesce a mettere in discussione l’egemonia globale del dollaro) a un certo punto dovesse crollare: d’altronde, per capire che aleggi questo retropensiero basta guardare al cambio repentino di una rivista come Limes che, ormai, parla di fine dell’impero USA in termini quasi più perentori di quanto non facciamo noi e che, non a caso, è degli stessi proprietari dell’Economist.

Emmanuel Macron

Mettere fine a questo rinnovato protagonismo di Macron e smorzare le ambizioni indipendentiste francesi è quindi, con ogni probabilità, uno degli obiettivi di Washington; ed ecco così che, improvvisamente, la Le Pen – contro la quale per decenni tutto l’establishment europeo, al momento della bisogna, si è sempre compattato senza sbavature – magicamente diventa potabile. Per diventarlo, ovviamente, ha dovuto superare alcune prove di fedeltà: la prima risale ormai a un paio di mesi fa, quando la Marine ha spiazzato tutti annunciando il suo “appoggio incondizionato all’eroica resistenza ucraina”; un cambio di atteggiamento che però da solo, ovviamente, non poteva bastare. Bisognava che Marine ricalcasse la traiettoria già intrapresa dalla prima della classe del trasformismo della destra fintosovranista europea, la nostra Giorgia Nazionale, e che tagliasse in modo eclatante i ponti con quelle forze che ai dictat di Washington continuano ostentatamente a non volersi sottomettere, a partire, appunto, dall’AfD.
L’AfD, infatti, rappresenta per Washington uno dei principali spauracchi politici del vecchio continente e, da un certo punto di vista, è anche un bene, perché se è vero che ai tempi del declino dell’impero il fintoliberalismo globalista è il nemico principale, i danni che può fare una forza politica che non ha fatto nemmeno i conti col nazifascismo in una Germania in crisi e sotto attacco economico come tra le due guerre mondiali sono sinceramente incalcolabili. Ma, ovviamente, non è questa cautela a muovere i leader del mondo libero; d’altronde, il nazifascismo – in soldoni – altro non è che l’espressione più feroce delle logiche comuni a tutte le forze imperialiste e, al netto dei deliri ideologici, deve il suo sovrappiù di ferocia, in buona misura, al fatto di essersi fatto strada quando le altre potenze si erano già spartite il pianeta. Alla Germania e ai suoi alleati allora non rimaneva che trasformare in loro colonie il mondo slavo che però, rispetto a un qualsiasi paese africano o dell’estremo Oriente, aveva due svantaggi: il primo era che ci assomigliano un po’ di più; e quindi per noi che, volenti o nolenti, siamo ancora comunque profondamente razzisti, vedere le stesse identiche violenze che gli altri hanno perpetrato contro popoli non bianchi, di default ci fa più impressione. Il secondo è che erano armati (altrimenti li avevano già colonizzati) e quindi il tentativo di conquista coloniale, da un semplice massacro di popoli considerati inferiori, si è trasformato in una guerra di dimensioni spaventose. E, tra l’altro, oggi il sacrificio di quelle popolazioni noi manco lo riconosciamo: facciamo finta che a combattere e vincere la guerra siano stati gli USA e celebriamo solo le vittime che ci tornano più comode – che tra l’altro, a ben vedere, a livello ideologico (che conta il giusto, ma qualcosa pur sempre conta) è anche il motivo per cui ai postfascisti de noantri (a partire dalle bimbe di Benito come La Russa & company) la svolta filoatlantista, che d’altronde ha radici piuttosto lontane, non è che sia costata poi tanto. Dalla parte dell’imperialismo più feroce erano allora e dalla parte dell’imperialismo più feroce stanno oggi; tutto sommato, da questo punto di vista, so’ pure coerenti (anche quando, magicamente, superano in filosionismo i colleghi della sinistra ZTL).
Il superomismo amorale ti fa anche cambiare idea su chi è da considerare umano e chi, invece, appartiene agli untermensch. Il problema di fondo con l’AfD – come, a suo tempo, fu anche con la Lega che, per essere ammessa nella compagine di governo, ha visto il compagno Adolfo Urso recarsi di persona a Washington per fornire personalmente la garanzia che, al momento del bisogno, si sarebbero comunque sempre schierati dalla parte dell’imperialismo – è che rappresenta un blocco sociale che, strutturalmente, dalla guerra delle oligarchie contro la Russia e contro l’economia europea ha tutto da perdere e che è ben disposta a scendere a patti con i protagonisti del nuovo ordine multipolare pur di continuare a difendere l’economia reale tedesca; fatti fuori loro, gli altri partiti dell’ultradestra europea si sono guadagnati la benedizione di Washington che, in un’ipotetica nuova maggioranza politica fondata sull’alleanza tra l’ultradestra e la destra conservatrice dei popolari, vede alcuni vantaggi importanti. In primis, il fatto che, mano a mano che il declino dell’impero continuerà a far sentire i suoi effetti, anche le garanzie prettamente formali delle democrazie liberali cominceranno ad essere percepite come troppo vincolanti per il ricorso alla forza bruta contro i sempre crescenti malumori delle masse popolari; insomma: ci sarà da menare forte e la destra destra potrebbe risultare meglio attrezzata.
Il punto è come pensiamo di organizzarci noi per reagire, senza cadere di nuovo nella trappola della sinistra delle ZTL che utilizza questi timori (che, più che legittimi, a questo punto sono doverosi) per portare avanti la stessa identica agenda fondata su guerra e rapina, solo magari con qualche nozione di galateo in più. Quello che, di sicuro, ci serve come il pane è un vero e proprio media che sia in grado di contrastare la propaganda che ci rifilano per giustificare questa discesa verso gli inferi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Chi è Sahra Wagenknecht? La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

Maischberger – 2023-02-08

Uno spettro si aggira per l’Europa!
È lo spettro del rossobrunismo ed ha un aspetto terrificante, il suo: si chiama Sarah Wagenknecht ed ha causato un vero e proprio terremoto in quel che rimane della così detta sinistra radicale europea.
Per la prima volta dai tempi della riunificazione tedesca, infatti, la scorsa settimana un partito ha proclamato il proprio autoscioglimento al Bundestag. Il partito in questione è Die Linke, un partito di sinistra radicale di cui Sarah Wagenknecht faceva parte e da cui in questi giorni ha annunciato la scissione insieme a un nutrito gruppo di parlamentari. Il nuovo partito si chiamerà Alleanza Sahra Wagenknecht, e il motivo della scissione è che agli occhi della Wagenknecht Die linke da forza radicale si è trasformata nell’ennesima variante di quella sinistra liberista e anti-popolare che anche noi in Italia, purtroppo, conosciamo molto bene.
Ma se anche potrebbe sembrare l’ennesima inutile scissione a sinistra e l’ennesimo partitino personalistico destinato sparire in poco tempo, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

Innanzitutto, la Wagenknecht è dei uno dei personaggi pubblici più conosciuti in Germania, il suo libro “critica alla sinistra neo-liberale” è stato per anni un best-seller, e secondo un sondaggio del periodico Frankfurt Allgemeine Zeitung il 27% dei tedeschi non escluderebbe di votare il suo nuovo partito.
Inoltre, l’attuale coalizione di sinistra che governa la Germania è forse uno dei più grandi fallimenti politici degli ultimi decenni, avendo spinto il paese sull’orlo della recessione a causa di una politica estera suicida, e avendo così trasformato l’AFD, il principale partito dell’estrema destra tedesca, e di gran lunga il primo partito in molti dei laender economicamente più arretrati. La sinistra liberal e alla moda insomma, in questi anni di governo del paese ha sfoggiato senza ritegno tutte le proprie ipocrisie, contraddizioni, e soprattutto incapacità di perseguire l’interesse nazionale e popolare, aprendo finalmente gli occhi a molti elettori e forse lo spazio ad un soggetto politico nuovo. La cosa sorprendente però, è che alcune delle persone interessate alla proposta politica della Wagenknecht sembrerebbero proprio molti degli attuali elettori dell’AFD.

Ma non è una novità.

Una delle accuse che le sono state più spesso rivolte in questi anni infatti, appunto, è quella di rosso-brunismo, a causa delle sue posizioni sovraniste, del suo scetticismo su alcune politiche ambientaliste e alla sua posizione decisamente conservatrice relativamente alle politiche migratorie.
Ma quale è quindi la vera linea politica della Wagenknecht? E perché le sue proposte si pongono perfettamente agli antipodi rispetto a quelle della “sinistra della ZTL”?

“Il rappresentante della sinistra alla moda è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa. Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’ dell’immigrazione e delle minoranze sessuali. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese. Non può – né desidera – essere definito un “socialista”: semmai un liberale di sinistra.”

Nel suo libro “Critica alla sinistra neo-liberale”, uscito nel 2021 e pubblicato in Italia da Fazi editore, la Wagenknecht condensa il proprio manifesto politico e dipinge un ritratto realistico della sinistra occidentale degli ultimi decenni. Ad esser sinceri il titolo italiano non rende giustizia all’originale tedesco, che sarebbe Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “i presuntuosi”, con riferimento all’atteggiamento presuntuoso ed elitario dell’elettore medio della sinistra liberale.

«“Sinistra”, scrive Wagenknecht “era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra”, prosegue la Wagenknecht, “voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Nel complesso”, conclude la Wagenknecht, “una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati».

Ma oggi le cose sono evidentemente cambiate. L’autrice individua il punto di svolta nella cosiddetta “terza via” di Clinton, Blair e Schröder, che diede inizio alla seconda ondata di riforme economiche neoliberali dopo quella di Reagan e di Thatcher, e che trovò come sappiamo illustri imitatori anche nella sinistra italiana. Se un tempo al centro dell’interesse dei partiti di sinistra c’erano i problemi sociali ed economici da cui lo Stato aveva il dovere di emancipare la maggioranza della popolazione, oggi per la “sinistra alla moda” come la chiama Wgenknecht, sembra che i problemi fondamentali delle persone comuni non riguardino la sicurezza sociale e la povertà, ma bensì questioni come gli stili di vita, le abitudini di consumo, e i giudizi morali sul comportamento individuale. Problemi insomma più facilmente risolvibili con qualche lezione di bon ton e qualche appuntamento dall’armocromista piuttosto che con nuove politiche sociali ed economiche. Frutto di questo approccio ai problemi secondo Wagenknecht sono due distinti cambi di linea politica: il primo è lo spostamento dal campo dei diritti sociali a quello dei diritti civili e, più di recente, della salvaguardia ambientale; il secondo è la sostanziale adesione all’identificazione concettuale e politica, prima solo della destra, tra politiche economiche neoliberiste e l’idea di “progresso”.

Altro aspetto distintivo della sinistra alla moda, scrive la Wagenknecht, è quello di risultare ipocrita e poco simpatica, e questo perché: “pur sostenendo una società aperta e tollerante, mostra di solito nei confronti di opinioni diverse dalle proprie un’incredibile intolleranza”.

E Di questo atteggiamento intollerante e presuntuoso la stessa Wagenknecht ci offre diversi esempi che ci ricordano le etichette dispregiative e gli slogan a cui anche noi in Italia siamo purtroppo abituati. «Chi si aspetta che il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna e la protegga dal dumping internazionale e da altre conseguenze negative della globalizzazione – un principio, questo, che per la sinistra tradizionale sarebbe stato ovvio – viene oggi etichettato come nazionalsociale” (L’insulto corrispettivo di “sovranista” in Italia) E «chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a un’imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo».
Come ci viene ripetuto continuamente in Italia, chi desidera che l’immigrazione sia regolamentata è un razzista, chi ritiene che il Trattato di Maastricht e la moneta unica abbia in gran parte danneggiato i lavoratori e la nostra economia è un “nostalgico della liretta”, chi ritiene che lo Stato debba recuperare alcune prerogative fondamentali è una persona fuori dal tempo che non ha capito che siamo nell’epoca della globalizzazione. Come ricorda anche Vladimiro Giacchè nell’Introduzione al libro, tra gli aspetti importanti di questo saggio c’è poi il coraggio di mettere direttamente in questione valori fondamentali della sinistra alla moda come l’individualismo e il cosmopolitismo.

Wagenknecht osserva infatti che: «con questi valori si può sottrarre legittimità tanto a una concezione dello Stato sociale elaborata entro i confini dello Stato nazionale, quanto a una concezione repubblicana della democrazia. Ricorrendo a questo canone di valori, è possibile inserire il liberismo economico, la globalizzazione e lo smantellamento delle infrastrutture sociali in una narrazione che li fa apparire alla stregua di cambiamenti progressisti: una narrazione che parla di superamento dell’isolamento nazionalista, dell’ottusità provinciale e di un opprimente senso della comunità, una narrazione a favore dell’apertura al mondo, dell’emancipazione individuale e della realizzazione di sé».

Naturalmente, questa mutazione antropologica delle sinistre occidentali non poteva che spianare la vittoria delle destre più reazionarie proprio tra gli strati più disagiati della popolazione. Questi elettori vedono nella retorica e nelle politiche della sinistra alla moda un duplice attacco nei propri confronti: un attacco ai loro diritti sociali, in quanto viene descritta come modernizzazione progressista proprio la distruzione di quello stato sociale che dava loro benessere e la sicurezza; ma al tempo stesso un attacco ai loro valori e al modo in cui vivono, costantemente delegittimato moralmente e squalificato come retrogrado.
Insomma, conclude la Wagenknecht, possiamo tranquillamente dire che i partiti di sinistra occidentale oggi non rappresentino più gli interessi degli ultimi e dei più svantaggiati, ma anzi quelli di una up-middle class metropolitana che anche attraverso la sua sostanziale egemonia negli apparati mediatici e culturali combatte ogni giorno con gli artigli per conservare i propri privilegi e contemporaneamente affossare, come fisiologico in ogni lotta di classe, le condizioni di vita delle classi sociali inferiori.
Eppure, nonostante tutto questo, i rappresentanti della sinistra alla moda non sembrano proprio capacitarsi di come mai non vengano più votati nelle provincie e nelle periferie, o meglio, lo hanno capito. Il motivo è che essendo i poveri (detto tra noi) un pò ignoranti e retrogradi, non sono nemmeno in grado poverini di capire quali sono o loro veri interessi, e così si lasciano facilmente abbindolare da quei rozzi populisti e sovranisti. Insomma, se il popolino fosse un tantino più illuminato e moralmente progredito, immediatamente capirebbe che i populisti stanno parlando alla loro pancia e non alla loro testa, che la realtà è più complessa di come sembra, e che costruire ponti è sempre molto più saggio che costruire muri.

La seconda parte del libro della Wagenknecht è dedicata invece alla sua proposta politica.

Ovviamente qui ci limitiamo a richiamare i punti più interessanti, non potendo analizzare tutto nel dettaglio né discutere alcune delle sue teorie più controverse sul clima e sull’immigrazione. Uno dei motivi per i quali molti ex elettori di sinistra hanno cominciato a votare a destra, riflette la Wagenknecht, è che una certa destra sociale anche se quasi sempre solo a parole, ha continuato a fare riferimento a concetti come comunità, nazione, e difesa senza e senza ma dei propri cittadini, che invece la sinistra alla moda ha sostanzialmente abbandonato in nome del liberismo economico, del cosmopolitismo, dell’individualismo. La sinistra del futuro quindi, riallacciandosi alla propria tradizione socialista, dovrà recuperare questi valori, che non sono valori retrogradi o identitari, ma anzi possiedono una forte carica democratica e di emancipazione umana e materiale.

“Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?”

Ma il vero e proprio nemico politico del pensiero liberista di destra e di sinistra, è secondo la Wagenknecht lo Stato nazionale. Secondo la retorica della destra liberista, che combatte ogni giorno e senza ipocrisie contro la redistribuzione della ricchezza e a favore delle oligarchie finanziare, lo Stato deve essere abbattuto in quanto il welfare sarebbe troppo costoso, la burocrazia limiterebbe la libera impresa, e la gestione privata dei servizi sarebbe ontologicamente più efficiente di quella pubblica. La variante di sinistra a questo attacco allo Stato invece, consiste nel rappresentare lo Stato nazionale:«non solo come obsoleto, ma addirittura come pericoloso, ovvero potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Per questo i contributi del liberalismo di sinistra sul tema culminano quasi sempre con l’avvertimento che non ci deve essere un ritorno allo Stato nazionale, come se esso facesse parte del passato e noi vivessimo già in un mondo transnazionale».
In Italia, dove l’esterofilismo snob della elite di sinistra ha ormai raggiunto livelli surreali, va di moda dire che per loro limiti ontologici gli italiani non sarebbero in grado di governarsi da soli, e che quindi dovremmo immediatamente cedere quanti più poteri e sovranità possibile ai tecnici dell’Unione europea, i quali non essendo stati eletti non sarebbero populisti e saprebbero sicuramente tutelare meglio di noi il nostro interesse. Ma al di là di questa parentesi un pò folkloristica e tornando al testo della Wagenknecht, all’autrice l’idea che l’UE possa sostituire le democrazie nazionali appare invece una pericolosa illusione.

I diritti attribuiti al Parlamento europeo infatti non solo sono ben poco rilevanti, ma funzionano oggi da malcelata copertura a una deterritorializzazione delle decisioni politiche a vantaggio di poteri sovranazionali opachi e sostanzialmente privi di legittimazione democratica.

«Il progressivo scivolamento delle competenze decisionali dal piano nazionale più controllabile ed esposto alla sorveglianza pubblica” scrive Wagenkncht “a quello internazionale, poco trasparente e facilmente manovrabile da banche e grandi imprese, significa allora soprattutto una cosa: la politica perde il suo fondamento democratico».

Alla pericolosa utopia europeista, per la quale per incanto i 27 Stati membri a suon di pacche sulle spalle si unificheranno in un grande abbraccio democratico e fraterno, Wagenknecht contrappone allora un’altra prospettiva: «il livello più alto in cui potranno esistere istituzioni, che si occupino del commercio e della soluzione di problemi condivisi e siano controllate in modo democratico, non sarà in tempi brevi né l’Europa né il mondo. Sarà, invece, il tanto vituperato e troppo precocemente dato per morto Stato nazionale. Esso rappresenta al momento l’unico strumento a disposizione per tenere sotto controllo i mercati, garantire l’uguaglianza sociale e liberare determinati ambiti dalla logica commerciale. È quindi possibile ottenere maggiore democrazia e sicurezza sociale non limitando, bensì accrescendo la sovranità degli Stati nazionali».

Per concludere, vorrei fare infine un accenno alla politica estera.

In questi anni la Wagenknecht ha spesso preso posizione contro le politiche americaniste del proprio paese, soprattutto durante la guerra in Ucraina e riguardo alle suicide sanzioni economiche imposte alla Russia. Ma sia nel suo libro che nelle sue ultime dichiarazioni la questione della vitale lotta di indipendenza tedesca dagli Usa non viene affrontata abbastanza, e questo nonostante sia assolutamente evidente come tutte le derive della sinistra europea che lei dice di combattere siano una chiara importazione dei valori e del modello culturale del partito democratico americano. In generale, credo si possa però dire che la descrizione della Wagenknecht della sinistra alla moda sia giusta e calzante, e che la sua proposta politica sia interessante in moltissimi aspetti anche se decisamente discutibile in altri.

E se anche tu ti auguri che anche in Italia possano affermarsi nuovi soggetti politici liberi dalle maglie ideologiche collaborazioniste, abbiamo bisogno di un media libero e indipendente che combatta l’egemonia culturale della sinistra alla moda

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