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Autore: OttolinaTV

[LIVE LA BOLLA] La nostra Russia, Con Francesco Dall’Aglio e Marco Bordoni

Ospiti Francesco “Il Bulgaro” Dall’Aglio per il nostro consueto aggiornamento sulla guerra Russo/Ucraina e Marco Bordoni autore del blog “La mia Russia” che ci farà una panoramica sulla politica interna Russa dell’era di Putin.

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Italianieuropei alla prova dei BRICS

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico

D’Alema dichiara guerra agli Usa”, “la Repubblica”.

D’Alema fa l’antiamericano sull’Ucraina, si crede Bufalo Bill, ma ricorda Scialpi” “Linkiesta”.

D’Alema si riscopre comunista ed esalta Cina e Russia” “Il giornale”.

Ma cosa ha mai fatto Massimo D’Alema per meritarsi tutti gli strali e le maledizioni della stampa italiana?

Il casus belli sono gli articoli contenuti in “Brics, l’alba di un nuovo ordine internazionale”, l’ultimo numero della rivista Italianieuropei da lui diretta che ha commesso il più grave dei delitti possibili: lesa miestatis nei confronti della narrazione suprematista occidentale e degli interessi geopolitici americani.

Ingolositi dalla gravità del delitto e dalla ferocia del linciaggio, ci siamo dunque avventurati nella lettura della rivista, e confermiamo che l’ira dei giornali è ben giustificata: gli articoli in questione infatti, sono un insieme di serie e pragmatiche analisi geopolitiche fatta da autorevoli ex diplomatici e scienziati della politica.

Insomma, un concentrato di tutto ciò oggi l’informazione non può proprio sopportare.

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico e questo sia aldilà della dicotomia hollywoodiana buoni contro malvagi, sia sottolineando le numerosissime contraddizioni dei BRICS e in generale di tutti quei paesi che stanno mettendo in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare.

Per fare un esempio, nell’articolo di Paolo Guerrieri, insegnante alla “Paris School of International Affairs”, si legge:“Per aumentare il loro peso a livello internazionale, i BRICS dovranno innanzi tutto risolvere una serie di contraddizioni. L’eterogeneità politica ed economica al loro interno, il disaccordo sull’allargamento e su temi politici fondamentali quali la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’aspra disputa territoriale tuttora non sanata tra Cina e India, rappresentano altrettanti seri ostacoli alla continua cooperazione e rafforzamento dei BRICS”.

Insomma, non proprio un’invettiva di un fanatico anti-atlantista. Ma andiamo con ordine. La rivista è composta da due parti, la prima dedicata all’allargamento e al rafforzarsi dei Brics, e la seconda, che oggi lasciamo volentieri da parte, dedicata alla figura di Silvio Berlusconi.

Nell’introduzione, firmata Redazione e con tutta probabilità scritta dallo stesso D’Alema, si fa un riassunto generale e sostanzialmente diplomatico dei temi trattati da questo numero: si parla dell’allargamento dei Brics, si evidenzia come in Italia e in Europa non esista alcun dibattito strategico su questi temi, si condanna fermamente l’invasione russa in Ucraina e si ricorda come agli occhi del resto mondo il tentativo occidentale di imbrigliare questi fenomeni nella retorica da guerra fredda democrazie vs tirannie, è destinato a fallire.

La maggior parte dell’umanità” recita l’Introduzione “rifiuta di allinearsi alla posizione americana e dell’Occidente […] vi è una amplissima e non infondata convinzione che nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei principi del diritto internazionale il mondo occidentale sia tutt’altro che coerente e applichi standard molto diversi a seconda degli interessi che ha in diverse aree del mondo. Non è facile smentire la fondatezza di queste convinzioni, cui si aggiunge l’idea che oggi né l’Europa né gli Stati Uniti facciano nulla per cercare di fermare il conflitto e creare le condizioni per una pace sostenibile tra Ucraina e Russia.”

La parte più importante di questa introduzione è forse la parte finale, in cui si auspica come nel nuovo mondo multipolare che si sta prefigurando, l’Europa in forza della sua cultura e tradizione rappresenti un ponte tra i diversi poli, capace di creare un equilibrio internazionale più giusto e ragionevole. Questa considerazione è cruciale, perché ci ricorda come noi, da Italiani ed europei, dovremmo approcciarci a queste analisi e in generale a questi cambiamenti geopolitici: non ci deve infatti interessare un’astratta ridefinizione di chi sono i buoni o i cattivi della comunità internazionale, né capire se essere filo americani o anti americani, filo russi o filo cinesi, ma solo comprendere il contesto in cui viviamo, guardare agli interessi delle nostre comunità nazionali ed europee, e agire con lo scopo di riconquistare tutta la libertà, il benessere, e il potere che abbiamo perso.

Le analisi geopolitiche disincantate sono preziose proprio per questo, ci aiutano a scrollarci di dosso la mentalità da tifoserie di provincia e capire come perseguire meglio i nostri interessi in un dato contesto internazionale. Ed è esattamente per questo che un’informazione di propaganda come la nostra continuerà a delegittimarle e a fare loro la guerra. Andando avanti, troviamo articoli di approfondimento su India, Brasile, Africa e il loro ruolo nei Brics, mentre le analisi di più ampio respiro sono quelle Marco Carnelos ex ambasciatore in Iraq e inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, e Alberto Bradanini, ex-diplomatico e presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Nell’articolo Il mondo della contrapposizione tra Global Rest e Global West, Carnelos scrive che le interminabili guerre statunitensi in Medio Oriente e la crisi finanziaria del 2008 hanno inflitto un duro colpo alla credibilità globale degli Stati Uniti, e che il conflitto in Ucraina ha svolto in questo senso un ruolo di spartiacque nella storia avendo avuto implicazioni che sono andate ben oltre le storiche recriminazioni tra Mosca e Kiev. Quella che si profila, è una disarticolazione tra quella parte di umanità, il Global West che per cinquecento anni ha dominato il sistema internazionale, e il resto del mondo, il Global Rest, che si sta oggi organizzando in istituzioni separate come i Brics, i quali contano già diciannove membri e molti altri aderiranno, la Shanghai Cooperation Organization (SCO), e l’EurAsian Economic Union (EAEU). Ridurre questa competizione alle semplicistiche dicotomie democrazia/autocrazia, libertà/tirannia, bene/male, sarebbe, scrive l’ex ambasciatore “un evocativo strumento retorico fondato sul consueto e ben collaudato metodo di governare attraverso la paura, e un’abile scorciatoia.” . A questo proposito, basti ricordare che Brasile e India sono la prima e terza democrazia del mondo e che oggi le principali minacce alle democrazie occidentali vengono tutte dall’interno e non dall’esterno. Prima di tutto dalle politiche neoliberiste, che stanno trasformando le nostre socialdemocrazie in oligarchie finanziarie mascherate, e poi da problemi di ordine sociale e culturale: negli Stati Uniti ad esempio “il maggior numero di americani uccisi ogni anno in conflitti a fuoco avviene per mano di altri americani ossessionati dal possesso di armi da fuoco, e che, con il 5% della popolazione mondiale, il paese consuma l’80% degli oppiacei prodotti in tutto il pianeta. Il semplice buon senso leggerebbe questi due dati – ma se ne potrebbero citare molti altri – come un irreversibile segnale di decadenza, ma i poderosi apparati mediatici occidentali sono concentrati altrove.”.

Infine, l’articolo di Albero Bradanini Multilateralismo, de-occidentalizzazione e bi-globalizzazioneè quello forse più deciso nel prendere posizione contro il vecchio ordine unipolare. “Il paradiso dei ricchi” scrive Bradanini citando Victor Hugo “è fatto dell’inferno dei poveri”.

Quella a cui stiamo assistendo sarebbe “una campagna storica per la riconquista di sovranità e indipendenza d’azione, presupposto strutturale affinché anche i popoli oppressi possano generare benessere e contenere la bulimia d’arricchimento infinito delle oligarchie globaliste. È dunque intuibile la ragione per la quale tale disegno è avversato dal corporativismo militarizzato dell’impero atlantico”.

E per una buona volta, scrive Bardanini, i nord americani dovranno “accettare di tornare ad essere un paese normale, non la sola nazione indispensabile al mondo”.

Per concludere, voglio precisare che nessuno di OttolinaTv si sognerebbe mai di fare l’apologia di D’Alema nè della sua carriera politica, infarcita di ipocrisie e ambiguità e macchiata per sempre dall’appoggio da presidente del consiglio ai bombardamenti NATO in Serbia.

Ma visto che la verità ha la testa più dura della menzogna e che c’è bisogno di tutte le forze e intelligenze possibili, la speranza è che Italianieuropei possa davvero continuare su questa linea editoriale.

E chi non aderisce è Vittorio Parsi

L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

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e chi non aderisce è Bill Gates

Come ti destabilizzo una potenza nucleare: lo scandalo del golpe filo USA in Pakistan

Il sud globale avanza compatto giorno dopo giorno e minaccia il vecchio ordine globale, ma le defezioni non mancano e tra queste ce n’è una in particolare che preoccupa Mosca e Pechino: il Pakistan, una defezione eccellente, quinta potenza demografica mondiale e uno dei 9 stati al mondo a possedere l’atomica.

La variabile pakistana è una gigantesca spina nel fianco al processo di integrazione del super-continente eurasiatico e a Pechino lo sanno bene, e non a caso è il singolo paese ad aver ricevuto in assoluto più quattrini per investimenti di ogni genere nell’ambito della nuova via della seta; un’influenza crescente, che sembrava aver aperto al Pakistan una gigantesca finestra di opportunità in direzione finalmente di uno sviluppo economico impetuoso e sostenibile, e dell’emancipazione dal giogo statunitense; un processo di portata storica, che si è tradotto nell’ascesa inarrestabile dell’ex campione di cricket Imran Khan e del suo Movimento per la Giustizia del Pakistan, sfociata nel dicembre del 2018 nella sua nomina a primo ministro.

Unico vero oppositore alla partecipazione del suo paese nella disastrosa guerra in Afghanistan, e leader incontrastato del movimento che si opponeva agli attacchi criminali dei droni USA in territorio pakistano, Imran Khan è probabilmente il primo leader nazionale da qualche decennio a questa parte a non essere emanazione più o meno diretta delle gerarchie militari legate a doppio filo a Washington; una vera luce di speranza per l’affermazione dell’indipendenza e della sovranità del Pakistan che infatti è stata colta con incredibile entusiasmo, sopratutto dalle fasce più giovani della popolazione.

Già nel 2014 un sondaggio di YouGov incoronava Imran Khan “persona più ammirata in assoluto del Pakistan”, e addirittura dodicesimo a livello globale; poi è arrivata la guerra in Ucraina, e contro l’idea eretica di Khan di mantenere il Pakistan in una posizione di netta neutralità, tutta la popolarità possibile immaginabile non bastava più.

Nell’aprile del 2022 Imran Khan viene repentinamente spodestato attraverso un voto di sfiducia del parlamento; da allora lui, il suo movimento, e chiunque abbia manifestato disappunto nei confronti dell’ennesimo golpe bianco condotto contro gli interessi e i sentimenti popolari, sono stati ferocemente repressi tra pestaggi, esecuzioni, processi farsa e arresti sommari.

Ed è così che oggi il Pakistan si trova travolto da una crisi economica, politica e istituzionale senza precedenti, e indovinate un po’ per merito di chi?

E’ il 7 marzo 2022. L’allora ambasciatore pakistano negli USA, Asad Majeed Khan, incontra alcuni alti funzionari del dipartimento di stato USA: tra loro, Donald Lu, responsabile dell’ufficio per gli affari del centro e del sud asiatico. Questo fa infuriare gli USA che, abituati a “dare il Pakistan per scontato”, si sentono beffati.

Sotto la guida autorevole di Imran Khan, infatti, il Pakistan, come d’altronde la quasi totalità dei paesi del sud globale, ha deciso di non volersi schierare nella guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina

Su cosa si siano detti esattamente durante quell’incontro, è stata fatta a lungo ogni sorta di speculazione; quello che sappiamo con certezza invece è che un mese dopo il parlamento sfiducerà Khan, rimuovendolo dal potere.

Sappiamo anche che pochi giorni prima di quell’incontro, il 2 marzo, Donald Lu aveva tenuto un’audizione presso il comitato per le relazioni estere del senato USA, che voleva

avere notizie più dettagliate sulla neutralità che India, Pakistan e Sri Lanka avevano deciso di mantenere nel contesto del conflitto ucraino. In particolare, erano imbufaliti dal fatto che il Pakistan, in occasione del voto presso l’ONU della risoluzione di condanna nei confronti della Russia, avesse optato per l’astensione, e sappiamo anche che il giorno prima del fatidico incontro, Imran Khan era intervenuto durante una manifestazione.

Alcuni ambasciatori occidentali in Pakistan avevano provato a fare esplicitamente pressione su Khan affinché rimettesse in discussione la sua neutralità dopo l’astensione all’ONU: gli scrissero proprio una letterina, come quella della trojkaa Berlusconi: “gentile alunno, abbiamo notato che all’ONU non hai votato come ti avevamo chiesto. Eh eh eh, non si fa, birichino.”

Non andò proprio benissimo: “che cosa pensate di noi?”, tuonò Khan di fronte a una folla oceanica, “che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiedete?”

Ovviamente, chiunque abbia anche solo sommessamente insinuato il dubbio che dietro la defenestrazione del primo presidente pakistano a non essere emanazione diretta di servizi ed esercito filooccidentali, è stato prontamente accusato di essere un utile idiota della pervasiva propaganda putiniana

Forse, però, si è trattato di un giudizio un po’ affrettato. Questa estate infatti, The Intercept – la testata USA fondata da Glenn Greenwald e diventata famosa per i leak del caso Snowden – è entrata in possesso del cablo che riassume il contenuto di quel fatidico incontro; l’esistenza di un documento che provava oltre ogni ragionevole dubbio l’ingerenza USA negli affari interni del Pakistan era stata annunciata subito dopo il colpo di stato da Imran Khan stesso.

Gli USA però hanno sempre negato pubblicamente e sfacciatamente in almeno 4 occasioni diverse: “non è altro che propaganda, e disinformazione”, dicevano, un po’ come quando David Puente fa i suoi ridicoli fact checking con il contesto mancante.

Ecco, ora il contesto c’è: secondo il documento del quale The Intercept è entrato in possesso grazie a una fonte anonima interna alle forze armate pakistane, durante il fatidico incontro Donald Lu avrebbe sottolineato come “qui negli USA, come in Europa, siamo molto preoccupati dalle motivazioni che hanno spinto il Pakistan ad assumere una tale posizione aggressivamente neutrale”. Fate attenzione alle parole, che a volte svelano mondi inesplorati: “aggressivamente neutrale” è illuminante perché svela l’essenza del suprematismo delle potenze imperialiste: “come osate voi selvaggi avere posizioni diverse da quelle indicate dalla superiore civiltà dell’uomo bianco?”

Quando Imarn Khan chiede “pensate che siamo schiavi?”, la risposta è molto semplice: come diceva Salvini, “ah no? non posso?”

Ma la ramanzina suprematista è solo l’antipasto: “penso che se riuscirete a sfiduciare il Primo Ministro”, avrebbe affermato Lu, “a Washington vi perdoneranno”.

Anche qua si vede Washington che, dall’alto della sua benevolenza, è pronta a perdonare lo schiavo ribelle. “Altrimenti”, avrebbe sottolineato Lu, “Penso che sarà dura andare avanti”.

Lu avrebbe poi continuato a sottolineare che, nel caso Imran Khan fosse rimasto al suo posto, il Pakistan inevitabilmente sarebbe stato isolato non solo dagli USA, ma anche da tutti i vassalli europei ed asiatici.

Come riporta lucidamente il sempre ottimo Andrew Korybko, “anche se non lo ha detto direttamente”, Lu “ha lasciato intendere molto chiaramente che i benefici che le élite militari e politiche ricevono dall’Occidente sarebbero stati tagliati, per non parlare dei disordini socio-politici che sarebbero necessariamente seguiti al possibile collasso dell’economia. Ciò è stato sufficiente per convincere i vertici militari e l’opposizione a unirsi per rimuovere Imran Khan”.

Di fronte a questa prima pistola fumante, la replica del portavoce del dipartimento di stato USA Matthew Miller suona un po’ stonata: “Niente in questi presunti commenti”, ha dichiarato, “mostra che gli Stati Uniti abbiano preso posizione su chi dovrebbe essere il leader del Pakistan”.

Verissimo. Mostrano solo chi gli USA hanno imposto non lo fosse: nella scelta dello zerbino più adatto – va riconosciuto – lasciano piena libertà ai servizi e alle forze armate pakistane.

D’altronde sono schiavisti, ma pur sempre illuminati. Esattamente il giorno dopo il fatidico incontro, l’opposizione diligentemente fa la prima mossa per arrivare al voto di sfiducia.

Non c’hanno manco dormito sopra: gli USA ordinano e loro eseguono con zelo.

A partire dal 2020, Imran Khan aveva accampato ogni genere di scusa per rinviare il rinnovo dell’accordo di partnership militare con gli USA, avviato15 anni prima; pochi mesi dopo la sua defenestrazione, il parlamento ha approvato in fretta e furia un nuova partnership con Washington che prevede “esercitazioni congiunte, operazioni, addestramento, e scambio di armamenti”, ma il nodo principale era la posizione sull’Ucraina.

Il cambiamento d’aria si era cominciato a sentire già alcuni giorni prima del golpe bianco, quando l’allora capo delle forze armate Qamar Bajwa aveva deciso di rompere con la neutralità professata da Imran Khan e aveva rilasciato una dichiarazione pubblica dove definiva apertamente quella russa una vera e propria invasione, ma era solo l’antipasto.

A luglio il ministro degli esteri ucraino effettua un importante viaggio di stato a Islamabad che viene pubblicizzato come incentrato su temi quali il commercio, l’istruzione e le questioni ambientali ma poco dopo, in rete, cominciano a circolare immagini provenienti dal fronte di proiettili e munizioni prodotti in Pakistan, che – da questo punto di vista – ha un’industria bellica di tutto rispetto. All’inizio del 2023 GeoNews, un importante canale youtube pakistano, pubblica un’intervista a un funzionario dell’Unione Europea di istanza ad Islamabad, che ammette che il Pakistan sta fornendo assistenza militare all’Ucraina.

Ovviamente tutti smentiscono categoricamente, ma è il segreto di pulcinella che oggi possiamo svelare con sicurezza: a permettercelo è di nuovo un’altra importante inchiesta di The Intercept, che sempre grazie a fonti anonime interne alle forze armate pakistane, è entrata in possesso di una mole importante di documenti che dimostrerebbero come il Pakistan abbia venduto equipaggiamento militare, e in particolare munizioni, agli USA da destinare all’Ucraina, per un valore di poco meno di 1 miliardo di dollari.

Ma come hanno fatto gli USA a convincere i pakistani a fare questa svolta a 360 gradi? “Semplice”, sostiene The Intercept, “con i quattrini del fondo monetario internazionale”.

Però il Pakistan, ormai da qualche anno, è attraversato da una crisi economica devastante, con un debito estero fuori controllo che drena tutte le risorse del paese, mentre la crescita arranca.

Per mettere una toppa, a partire dal 2019, Imran Khan ha cercato di aprire una trattativa col fondo monetario internazionale per ristrutturare il debito: come sempre, il fondo ha chiesto una serie di riforme di carattere neoliberista, cioè le consuete vecchie condizioni che impongono da decenni a qualsiasi paese debitore. Con la retorica dell’apertura ai mercati, impongono la solita ricetta “lacrime e sangue”, utile solo a liberare nuovi spazi per l’abituale shopping a prezzi di saldo di interi pezzi dell’economia nazionale da parte delle oligarchie finanziarie.

Il risultato è immancabilmente lo stesso: l’economia, invece di ripartire, sprofonda in una crisi ancora più grave, che rende il ripagamento del debito sempre più inverosimile, e costringe i paesi più poveri a uno stato di perenne dipendenza dai loro creditori; è il meccanismo standard attraverso il quale il fondo monetario si è dimostrato essere il più efficace tra gli strumenti in mano a Washington per imporre la sua globalizzazione neoliberista in tutto il pianeta, e al quale anche i governi più titubanti sono spesso ancora costretti a ricorrere per tentare di rinviare almeno temporaneamente il deafult.

Un ricatto nel quale è caduto lo stesso Imran Khan, che a partire dal 2019 ha ceduto all’esigenza di introdurre alcune di queste fantomatiche riforme. Ovviamente, le conseguenze economiche sono state disastrose, ma – oltre al danno – anche a questo giro è arrivata pure la beffa, e alla fine il fondo monetario si è rifiutato di concedere il tanto atteso nuovo prestito. Indovinate un po’ invece quand’è che hanno deciso di concederlo?

Esatto. Poco dopo il golpe bianco dettato dagli USA e la decisione di rinnegare la neutralità, ecco che magicamente viene concesso il prestito.

Ovviamente, anche stavolta sono state introdotte misure draconiane di sudditanza ai dictat dell’agenda neoliberista, a partire da un repentino aumento del 50% al tetto imposto ai prezzi dei prodotti energetici; ma secondo The Intercept, a fare la differenza sarebbe stato proprio l’accordo per la fornitura di munizioni da spedire in Ucraina, siglato il quale gli USA si sarebbero mossi con tutti gli strumenti a loro disposizione per convincere il fondo monetario a rivedere la sua posizione. Un piano perfetto e una grande vittoria strategica per gli USA che così rimettono le mani dentro la marmellata del paese che forse più di ogni altro è essenziale per la realizzazione della nuova via della seta e per l’integrazione del super-continente eurasiatico.

Peccato che questa vittoria stia costando molto cara. Forse troppo: come ricorda giustamente The Intercept, “Mentre sui media andava in scena il dramma del cablo fantasma, per le strade l’esercito pakistano lanciava un attacco senza precedenti alla società civile pakistana per mettere a tacere qualunque dissenso e libertà di espressione esistessero in precedenza nel paese

Negli ultimi mesi”, continua l’articolo, “il governo guidato dai militari ha represso non solo i dissidenti ma anche i presunti responsabili della fuga di notizie all’interno delle sue stesse istituzioni, approvando una legge che autorizza perquisizioni senza mandato e lunghe pene detentive per tutti gli informatori

Tra i vari arresti sommari senza mandato, anche quello della nota avvocata per i diritti umani, nonché figlia dell’ex ministro per i diritti umani durante il governo Khan, Imaan Zainab Mazari: stava guidando una serie di proteste per chiedere un’azione immediata contro le esecuzioni extragiudiziali e la sparizione forzata di migliaia di persone innocenti nelle cosiddette “operazioni antiterrorismo” dell’esercito nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KP).

Peccato che, venendo arrestata illegalmente da un alleato dell’occidente e non da quei cattivoni degli iraniani, dalle nostre parti non abbia scatenato poi chissà che ondata di indignazione.

L’ondata repressiva poi ha riguardato in particolar modo la stampa indipendente: “La repressione della stampa pakistana, un tempo turbolenta, ha preso una piega particolarmente cupa”, scrive The Intercept. “Arshad Sharif, un importante giornalista pakistano fuggito dal paese, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Nairobi lo scorso ottobre in circostanze ancora controverse. Un altro noto giornalista, Imran Riaz Khan, è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un aeroporto lo scorso maggio e da allora non è più stato visto” e i golpisti avrebbero addirittura intimato a tutti i media del paese di evitare anche solo di citare di sfuggita il nome stesso di Imran Khan.

Nel frattempo, migliaia di suoi sostenitori sono stati incarcerati e il suo processo si è trasformato in una vera e propria farsa, con l’obiettivo palese di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni che – secondo tutti i sondaggi – lo vedrebbero di gran lunga favorito.

Questi attacchi radicali alla democrazia”, scrive ancora The Intercept, “sono passati in gran parte inosservati da parte dei funzionari statunitensi. Alla fine di luglio il capo del comando centrale degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, ha visitato il Pakistan, poi ha rilasciato una dichiarazione affermando che la sua visita era stata incentrata sul “rafforzamento delle relazioni tra militari”, senza fare menzione della situazione politica in Pakistan. E quando quest’estate il deputato USA Greg Casar ha tentato di aggiungere una misura al National Defense Authorization Act che ordinava al Dipartimento di Stato di esaminare il declino democratico in Pakistan, gli è stato addirittura negato il voto alla Camera”.

Chi l’avrebbe mai detto? Quando in ballo ci sono gli interessi strategici, la retorica sullo scontro di civiltà tra democrazie illuminate e regimi totalitari passa inspiegabilmente in secondo piano.

A noi non rimane che l’antidoto di raccontare le cose per come sono, e non per come le vedono sotto acido gli hooligan del liberalismo immaginario. Se anche tu credi sia importante continuare a farlo, sempre meglio e sempre di più, diccelo con qualche eurino: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU )

E chi non aderisce è David Parenzo

CONTRO IL FEMMINISMO LIBERALE: Cosa è e perché abbiamo bisogno di un Femminismo per il 99%

Argentina, Marzo 2015.

Contro il dilagare di femminicidi e la violenze sulle donne nasce il movimento Non Una Di Meno, ispirato dai versi della poetessa messicana Susana Chávez, vittima essa stessa di femminicidio: “Né una donna in meno, né una morta in più”.

Da lì in avanti l’onda femminista travolgerà rapidamente l’intera America latina, per poi lambire il Vecchio continente, fino addirittura alla Polonia, dove nel 2016, grazie ad oceaniche proteste di piazza, viene bloccata una proposta di legge per vietare le interruzioni di gravidanza anche in caso di gravi malformazioni del feto. 

Sempre nel 2016 Non Una Di Meno sbarca anche in Italia, dove però non si limita a fare proprie le battaglie del collettivo argentino, ma le integra con nuovi strumenti interpretativi, a partire dal concetto di intersezionalità.

Il concetto di intersezionalità era stato introdotto per la prima volta nell’ormai lontano 1989 dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere “i diversi modi in cui la razza e il genere interagiscono per determinare le molteplici esperienze delle donne nere sul terreno del lavoro”.

Riadattato, viene esteso a sostanzialmente tutte le contraddizioni che attraversano le nostre società: di razza, di genere, ma anche di classe, di religione e addirittura anagrafiche. L’idea è che scopo dell’analisi non sia più stabilire una gerarchia tra questi piani diversi, ma indagarne le interazioni, mettendo tutto sullo stesso piano e riconoscendone ad ognuna pari dignità.

L’anno dopo, il 2017, negli USA è l’anno del Me Too, movimento che denuncia molestie e abusi sessuali e che prende nome dall’hashtag diventato virale dopo le accuse da parte di alcune attrici di Hollywood contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein.

Sempre nel 2017, secondo la Merriam-Webster, lo Zingarelli statunitense, femminismo è la parola dell’anno. Il termine, infatti, ha visto esplodere l’interesse da parte del pubblico (+70% rispetto al 2016) ed è stato il più cercato nel web in concomitanza con fatti di cronaca e notizie giornalistiche.

La parola “femminismo” è diventata trend topic associato a serie e film, come “The Handmaid’s Tale”, che raffigura un Nordamerica distopico dove l’infertilità è capillare e le donne fertili divengono incubatrici per ricche coppie sterili, o “Wonder Woman”, il primo film su un supereroe diretto da una donna e con una visione del mondo scevra da pregiudizi sui ruoli di genere.

Insomma: un fenomeno politico, sociale e culturale di dimensioni gigantesche, che chi vuole capire cosa gli succede attorno non può esimersi da studiare e indagare a fondo.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori, e questo è il nuovo episodio di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo dei limiti e delle contraddizioni del femminismo liberale, e dell’urgenza, al contrario, di un femminismo per il 99%.

Femminismo per il 99%”, proprio così si intitola il libro manifesto del 2019 firmato da Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser.

L’obiettivo è quello che la Fraser aveva annunciato già 6 anni prima in un celebre articolo pubblicato sul Guardian. “Come il femminismo è diventato l’ancella del capitalismo. E come riappropriarsene”, era il titolo.

Come femminista”, scriveva allora Fraser, “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente”, riflette però Fraser, “ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. In particolare”, sottolinea, la nostra critica del sessismo”, sembra che oggi venga utilizzata per giustificare “nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

Una volta”, specifica Fraser, “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi”, conclude amaramente, “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la “cura” e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare “il successo individuale e la meritocrazia”. Ma com’è potuto accadere? Per capirlo, sostiene Fraser, bisogna ampliare lo sguardo, e affrontare il nodo del “paradigma capitalista, che, sostiene, nel tempo “ha cambiato completamente rotta”.

Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra”, scrive Fraser, “ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista”.

Chi segue Ottolina sa che sul “disorganizzato” non siamo molto d’accordo, che il capitalismo neoliberista è più organizzato e pianificato che mai, solo che il pianificatore invece che gli Stati sono diventati direttamente le oligarchie finanziarie. 

Ma l’intuizione di Fraser rimane potentissima. “La seconda ondata del femminismo”, scrive, “è emersa come critica al capitalismo di prima maniera”, proprio mentre quel paradigma si era ormai trasformato in qualcosa di ancora più feroce e pervasivo.

E paradossalmente, di questo nuovo capitalismo più feroce e pervasivo, invece, il femminismo, è diventato addirittura “ancella”, fedele servitore. La trasfigurazione non poteva essere più radicale. Da componente essenziale della battaglia generale per l’uguaglianza, il femminismo si è così trasformato in battaglia per le “pari opportunità di dominio”. 

Ed ecco così che “in nome del femminismo”, si arriva a chiedere “alle persone comuni di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un drone di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli in una gabbia al confine col Messico”. (Femminismo per il 99%. Un manifesto).

Per contrastare una deriva così radicale, sostiene Fraser, qualche critica puntuale qua e là non può bastare. C’è bisogno di intraprendere una battaglia intellettuale e culturale a tutto tondo, in grado di riconsegnarci strumenti di indagine adeguati per svelare il funzionamento concreto di questo nuovo capitalismo, e come questo funzionamento impatta direttamente anche sulle questioni di genere. 

Un obiettivo ambizioso, che sta alla base dell’ultima fondamentale opera  di Fraser, “Capitalismo Cannibale – come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta”.

Sulla scorta delle riflessioni di Marx e del marxismo, sostiene Fraser, abbiamo imparato a mettere a fuoco il capitalismo come sistema economico basato sulla merce e quindi sulla mercificazione del lavoro salariato fondata su un rapporto di dominio produttivo: il capitalista domina e sfrutta, il lavoratore è costretto a vendere la propria umanità sul mercato “per essere apprezzato al suo giusto valore”.

Marx, ribadisce Fraser, ha avuto il merito di essere sceso al di sotto del livello fenomenico dello scambio mercantile, rilevando che al cuore del capitalismo vi sono le imprese, cioè delle organizzazioni gerarchiche nelle quali chi mette il capitale domina e tutti gli altri sono dominati. Ma i rapporti di produzione, fondati sullo sfruttamento di molti da parte di pochi, sono solo una parte del quadro complessivo.

Perché oltre alla dimensione economica-produttiva ci sono altri rapporti di dominio che quello sfruttamento lo rendono possibile e senza i quali l’intera macchina non potrebbe funzionare. “Il capitalismo”, sottolinea lucidamente Fraser, “non è un’economia, ma un tipo di società caratterizzata da un’area di attività e relazioni economizzate distinta e delimitata da altre zone non-economizzate, da cui la prima dipende senza riconoscerle”.

La sfera della politica internazionale, ad esempio, che è caratterizzata da rapporti di dominio di tipo neocoloniale da parte del Nord Globale nei confronti del resto del mondo; o la sfera della politica, dove gli spazi di decisione e deliberazione democratica vengono sempre più ristretti e marginalizzati a favore del potere decisionale delle élites politico-finanziarie; o ancora, la sfera dell’ambiente, inteso come insieme di natura non-umana e che viene utilizzato come fucina inesauribile di risorse e sottoposto a uno sfruttamento sempre più brutale; e per finire, ovviamente, la sfera della “cura, ovvero tutto quel lavoro non retribuito senza il quale si incepperebbe tutto e che ricade quasi interamente sulle spalle del genere femminile.

Il lavoro salariato”, scrive Fraser infatti, “non potrebbe esistere in assenza del lavoro casalingo, dell’accudimento e dell’istruzione dei figli, della cura affettiva e di una miriade di altre attività che contribuiscono a creare nuove generazioni di lavoratori, a sostenere quelli esistenti e a mantenere legami sociali e visioni condivise” (Capitalismo cannibale).

Dalla sfera della produzione, magistralmente descritta ormai oltre un secolo e mezzo fa da Marx, Fraser così si allarga a quella della ri-produzione: “L’attività socio-riproduttiva”, scrive Fraser, “è assolutamente necessaria per l’esistenza del lavoro salariato, per l’accumulazione di plusvalore e per il funzionamento del capitalismo in quanto tale”.

Sebbene l’economia capitalistica non riconosca alle attività di sostentamento, di cura e di interazione che producono e mantengono i legami sociali alcun valore monetario e le tratti come se fossero gratuite, in realtà ne è totalmente dipendente. L’occultamento del ruolo essenziale di tutte queste attività è in larga parte dovuto al loro essere state forzatamente relegate in una sfera privata, distinta dalla sfera economica e sociale propriamente detta.

La lunga battaglia che ha attraversato il XX secolo è consistita in buona parte invece proprio nel loro riconoscimento e nella rivendicazione che a farsene carico fosse sempre di più lo stato, attraverso la fornitura di quelli che oggi chiamiamo servizi pubblici essenziali: dall’istruzione alla sanità.

In questo modo queste attività uscivano dalla sfera privata, senza però essere trasformate in merce.

La controrivoluzione neoliberista in buona parte consiste proprio nel riportare indietro le lancette della storia che marciavano spedite verso la sempre crescente soddisfazione di questi bisogni primari da parte della collettività e delle sue istituzioni.

Tutto quello che è cura, cessa così di essere riconosciuto nel suo valore sociale di precondizione essenziale alla produzione stessa, e da responsabilità collettiva torna ad essere responsabilità privata.

Ed è proprio nelle modalità in cui avviene questa ri-privatizzazione di queste funzioni sociali essenziali che si gioca tutto lo scontro di facciata tra le due facce della stessa medaglia del dominio capitalistico contemporaneo, quella fintamente progressista, e quella realmente reazionaria: dove quella reazionaria mira semplicemente a ristabilire le vecchie gerarchie in ambito domestico, con la donna che torna all’acquaio, quella fintamente progressista mira a trasformare anche queste funzioni ri-privatizzate in merce, con donne e uomini che molto progressivamente e senza discriminazioni si devono spaccare la schiena entrambi 12 ore al giorno per affidare la cura dei loro cari a qualche azienda privata, possibilmente di proprietà di qualche fondo speculativo.

Il femminismo liberale, in sostanza, è proprio per questo che si batte ed è per questo che trova nel grande capitale all’affannosa ricerca di nuovi spazi dove essere impiegato in modo profittevole e garantito uno sponsor entusiasta. Ed ecco così spiegato, continua Fraser, come una parte del movimento femminista sia diventato “ancella del capitale”: concentrandosi solo su una delle sfere del dominio (quello della discriminazione di genere), ha spalancato la porta ad altre forme ancora più feroci.

E, sostiene Fraser, tutto sommato anche insostenibili.

Da un lato”, scrive infatti Fraser, “la produzione economica capitalista non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta a un’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare proprio i processi e le capacità riproduttive di cui il capitale e noi tutti abbiamo bisogno”.

L’effetto”, sottolinea Fraser, “è quello di mettere periodicamente a rischio le necessarie condizioni sociali dell’economia capitalistica stessa”.

Per farci capire meglio questa contraddizione, Fraser ci fa pure, diciamo così, un disegnino. L’uroboro infatti è un simbolo rappresentante un serpente o un drago che si morde la coda.

Distruggendo le proprie condizioni di possibilità”, sostiene Fraser, “la dinamica di accumulazione del capitale imita l’uroboro e si mangia la sua stessa coda”.

Capita la minaccia, però, ora occorre trovare anche il rimedio. E il rimedio, secondo Fraser, si chiama Socialismo. Però, precisa, un Socialismo del XXI secolo

Per la filosofa, infatti, il socialismo del XXI secolo “Deve de-istituzionalizzare le molteplici tendenze alla crisi: non «solo» quella economica e finanziaria, ma anche quella ecologica, quella socio-riproduttiva e quella politica.

Occorre quindi andare oltre la sola prospettiva economica e smascherare in un colpo solo l’ideologia del capitale, che separa le sfere del sociale, occultando la loro importanza come precondizioni per lo sfruttamento economico, ma anche quella di un certo socialismo, che si concentra solo sulle aree di crisi economiche, trascurando le altre.

La proposta di Fraser è di invertire il rapporto gerarchico tra economia e politica: “Un socialismo per il XXI secolo deve democratizzare il processo di progettazione istituzionale, rendendo il contenuto e la portata dei diversi ambiti sociali una questione politica. In breve”, scrive, “ciò che il capitalismo ha deciso per noi alle nostre spalle dovrebbe essere scelto da noi attraverso un processo decisionale collettivo e democratico”.

L’autrice immagina un sistema decisionale in cui il mercato e la proprietà privata non svolgano più un ruolo di direzione. “Qualsiasi cosa venga deciso”, scrive, “dovrà essere fornito per effetto di un diritto e non solo sulla base della capacità di pagare

Non si tratta di disconoscere o mortificare aprioristicamente il mercato come strumento per la corretta allocazione delle risorse, anzi: “Una volta che il vertice e la base saranno socializzati e de-mercificati”, sottolinea infatti Fraser, “la funzione e il ruolo dei mercati nel mezzo si trasformeranno” e in questa “zona intermedia”, sarà possibile sperimentare liberamente tra diverse alternative. Accanto a forme cooperative o autogestite, anche i mercati potranno trovare un loro spazio, mettendosi a questo punto a disposizione dell’interesse generale, e non in contrapposizione ad esso.

Da questo punto di vista, il femminismo della Fraser, appunto, non è altro che un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che sempre di più vede contrapposte le ristrettissime oligarchie del nord globale a tutto il resto del pianeta.

Un femminismo, appunto, per il 99%

Per chi vuole approfondire, come sempre, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 27 Settembre a partire dalle 21 in diretta su OttolinaTV.

Oltre alla solita crew di Ottosofia, stasera saranno con noi, Anna Cavaliere, ricercatrice di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Salerno, e Luca Baccelli, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Camerino.

Nel frattempo, se anche tu sei convinto che per contrastare lo strapotere mediatico delle oligarchie e dell’1% servirebbe come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99, aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Chiara Ferragni.

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Matteo Renzi.


Giorgio Napolitano: il “comunista preferito” di Washington che odiava la democrazia

1975, tre tra le più prestigiose università degli USA decidono di invitare un importante dirigente del Partito Comunista Italiano per un ciclo di conferenze.

Apriti cielo: in quegli anni, infatti, il Partito Comunista Italiano stava attraversando una fase di espansione incredibile, che alle elezioni politiche dell’anno successivo lo portò a conquistare oltre il 34% dei consensi, con una crescita rispetto alle elezioni precedenti di quasi 10 punti percentuali.

Ma non solo: dopo il tragico esito dell’incredibile avventura dell’Unione Popolare in Cile sotto la guida di Salvador Allende, il PCI di Berlinguer da un paio di anni aveva sposato la strategia del così detto “compromesso storico” e l’eventualità dell’ingresso del PCI in un Governo di unità popolare si faceva giorno dopo giorno più verosimile.

L’avanzata del PCI in Italia”, dichiarerà trent’anni dopo in un intervista a La Stampa l’ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner, “era la questione più grave che ci trovavamo ad affrontare in Europa”. Ed ecco così che un altro ambasciatore, quel John Volpe che si era già contraddistinto per aver nominato quel criminale “uomo dell’anno” nel 1973, il banchiere mafioso e piduista Michele Sindona, taglia la testa al toro e decide di non concedere il visto al dirigente comunista. Ma era solo il primo capitolo di una storia lunga e tortuosa.

Tre anni dopo, marzo 1978

Aldo Moro, il principale alleato di Berlinguer nell’attuazione della strategia del “compromesso storico” , viene rapito in modo rocambolesco dalle Brigate Rosse. Nel frattempo all’ambasciata USA, Gardner era subentrato a Volpe e appena un mese dopo il rapimento, il visto che a quel dirigente comunista tre anni prima era stato solennemente negato, magicamente viene concesso. Era la prima volta per un comunista dal 1952.

Quel dirigente comunista si chiamava Giorgio Napolitano, “il mio comunista preferito”, come lo definiva il compagno Henry Kissinger, dall’alto dei suoi 100 e passa anni di crimini di guerra di ogni specie.

Miglioristi”, li chiamavano: erano quella corrente del PCI che aveva rinunciato all’idea di distruggere il capitalismo e tutto sommato anche a riformarlo. Che comunque riformarlo, quando ancora la sinistra non si era completamente bevuta il cervello, significava sempre volerlo trasformare alla radice, solo più gradualmente, e senza ricorrere alla violenza. I miglioristi invece facevano un passo oltre: il capitalismo volevano solo “migliorarlo”.

Ma il punto ovviamente è: migliorarlo per chi? Un indizio significativo risale al 1976, al Governo c’era Giulio Andreotti. Un “Governo di solidarietà nazionale”, veniva definito. Ma Napolitano aveva un modo di intendere la solidarietà tutto suo. Secondo la sua tesi, bisognava si tutelare l’ “interesse generale”, ma a pagare il conto dovevano essere solo gli operai. Per superare la crisi, era la proposta del Peggiore, non c’è niente di meglio che abbassare lo stipendio di chi lavora.

Avvocato agnelli, la scongiuro, non sia timido, la vedo in difficoltà, mi trattenga un pezzo di stipendio. poi se le avanza del tempo gradirei anche mi infilasse una bella scopa su per il culo così le dò una bella ramazzatina alla stanza”. così si sarebbe dovuto esprimere il militante comunista ideale secondo Re Giorgio. Nel tempo “migliorista” diventò poi sostanzialmente sinonimo di moderato e realista. Ma forse è solo un grosso equivoco, di quelli in cui cade spesso quell’ “estremismo, malattia infantile del comunismo” che già Lenin ebbe modo di redarguire ferocemente. Moderazione e realismo infatti non sono altro che attitudini necessarie per chiunque veda nella politica, nella lotta per la conquista del potere e nel suo esercizio strumenti per cambiare concretamente in profondità l’esistente, senza cedere alla tentazione infruttuosa se non addirittura del tutto controproducente dello slancio ideale fine a se stesso. Ma nell’azione di Napolitano non c’è mai stato assolutamente niente di moderato. Il suo disprezzo per ogni forma di democrazia fu sempre contrassegnato da un fervore ideologico vicino al messianesimo. Da questo punto di vista, la militanza comunista di Napolitano non fu che un gigantesco equivoco. Acriticamente fedele ai dictat sovietici quando l’influenza sovietica nel pianeta era in rapida ascesa, nella formula dittatura del proletariato, si riconosceva solo in uno dei due termini…e non era proletariato.

Ed ecco così che quando l’Unione Sovietica alla fine crollò, per Giorgio fu una vera e propria liberazione. Ora il mondo aveva un unico padrone chiaro, le oligarchie statunitensi e il governo di Washington forgiato a loro immagine e somiglianza. Finalmente Napolitano poteva mettersi al servizio di una vera dittatura globale, che però non si ponesse l’obiettivo, per quanto contraddittorio, dell’emancipazione dei subalterni. Interpretò questa era di neodispotismo con malcelata ferocia. superando a destra qualsiasi forza politica nazionale, che anche quando interpretava un’agenda reazionaria, doveva perlomeno sempre fare un po’ di conti con il consenso e con l’interesse Nazionale. Come quando Berlusconi tentò timidamente per la prima volta nella storia della seconda Repubblica di mantenere le distanze da Washington, cercando di rimanere ai margini dell’intervento in Libia. La cronaca racconta che Napolitano lo dissuase, ma è decisamente un eufemismo. Ed è proprio il rapporto ambivalente con Berlusconi e il Berlusconismo a gettare luce sull’idea perversa del potere che permeava l’azione di Napolitano che, infatti, a lungo assecondò in ogni modo tutte le peggiori nefandezze del Governo Berlusconi. Fino a quando un bel giorno non decise di rendersi complice di un vero e proprie golpe bianco per escluderlo dai giochi per sempre.

IV Governo Berlusconi – Attribuzione: Quirinale.it

Schizofrenia? Assolutamente no.

Semplicemente, nel frattempo, era intervenuto un potere di ordine superiore. Da questo punto di vista Re Giorgio, in realtà, Re non lo è mai stato più di tanto. Intendiamoci, il modo autoritario con il quale ha interpretato il suo doppio mandato da Presidente [della Repubblica, ndr] profuma di eversione da mille miglia di distanza, come d’altronde il tentativo di riforma costituzionale dettato da Napolitano e poi naufragato grazie all’antipatia viscerale che suscitava Matteo Shish Renzi.

Ma il punto è un altro.

Totalmente insensibile a ogni istanza popolare e anche ai timidi tentativi da parte del nostro Paese di ritagliarsi una qualche forma di autonomia, più che un Re, Napolitano ricordava un amministratore delegato, pronto a ricorrere ai tatticismi più subdoli pur di assecondare i desiderata di un potere superiore. Quando quel potere superiore non era incarnato fisicamente da qualcuno, subentrava la subalternità fideistica a un principio ordinatore di carattere sostanzialmente religioso: il vincolo esterno.

Se fosse stata una ragazzina delle medie, Napolitano con le immagini del vincolo esterno ritratto in pose ammiccanti c’avrebbe tappezzato la cameretta.

Il contenuto di quel vincolo esterno tutto sommato era abbastanza secondario. Era l’esistenza del vincolo esterno in se, come principio astratto, ad affascinare Napolitano. Un Vincolo Esterno da assumere sempre e comunque come dato naturale, che permette di mettere un freno a ogni istanza di democratizzazione, e impedire così l’irruzione nelle sfere del potere del volgo e dei suoi inaffidabili leader politici a digiuno di galateo.

Un pensiero elitario”, sintetizza efficacemente Salvatore Cannavò su “il fatto quotidiano”, “degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è sempre appartenuto nonostante la lunga militanza nel PCI che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia”. Un pensiero elitario che ancora più che nella repulsione epidermica per ogni forma di movimento quando era ancora tra le fila del PCI, si palesò in tutta la sua portata con l’emergere dei 5 stelle. Dopo averci consegnato via golpe bianco alla macelleria sociale del governo Monti, in assoluto il peggior della seconda repubblica, Napolitano è stato costretto controvoglia a concederci il voto. Gli italiani hanno votato chiaramente per un ruolo di primo piano dei 5 stelle, che da niente hanno raccolto oltre il 25% dei consensi, ma Napolitano c’ha consegnato a due Governi a guida PD, Letta prima e Renzi poi. In questo modo comunque, ha definitivamente distrutto il peggior partito della fintasinistra neoliberista del continente. Insomma, ha fatto anche cose buone, ma solo quando non erano volute. Ma ancor più che al “miglior liberal-conservatorismo europeo”, l’avversione atavica di Napolitano all’irruzione del volgo nelle stanze del potere e a ogni forma di democratizzazione dell’ordine sia Nazionale che ancor più di quello internazionale, spiega la profonda affinità manifestata in più di un’occasione da Henry Kissinger. Come quando, nel 2015, volle consegnarli personalmente il premio che porta il suo nome e che è destinato alle “personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici”. Kissinger infatti è stato per eccellenza l’uomo delle trame segrete e dei cambi di regime manu militari per imporre su scala globale la controrivoluzione neoliberista nella sua accezione più estrema e feroce, come con Pinochet in Cile. Una controrivoluzione che ha significato molte cose, ma più di ogni altra, l’utilizzo dell’idea di un fantomatico vincolo esterno imposto da mercati immaginari per reagire alla crescita del potere dei subalterni e distruggere così l’idea stessa di democrazia moderna, com’era stata sancita nelle Costituzioni post seconda guerra mondiale. Non a caso Napolitano fu a lungo il più acerrimo dei nemici di Enrico Berlinguer, il leader politico italiano che probabilmente più di ogni altro comprese l’essenza dell’Unione Popolare di Allende e fece sua quella profonda riflessione sul nesso tra democrazia, sovranità popolare e nuovo ordine multipolare che sola avrebbe potuto rappresentare una risposta adeguata alla controrivoluzione neoliberista incombente.

Una cosa sola va riconosciuta a Napolitano: uomo del novecento, e persona colta e raffinatissima, proprio come Kissinger, è stato un più che degno rappresentante di un lungo periodo storico durante il quale ancora anche nel nord globale chi puntava alle gestione del potere, per il potere, dedicava tutta la sua vita alla politica. Da questo punto di vista, e solo a questo, bene hanno fatto i politici e i pennivendoli di oggi a scriverne all’unisono e senza eccezioni una ridondante e stucchevole apologia. Se Napolitano è stato l’amministratore delegato della controrivoluzione neoliberista e tra l’altro anche negli anni della sua inarrestabile e trionfale avanzata, loro ne sono al massimo il personale delle pulizie, nella fase del suo plateale e catastrofico declino. Se al posto dei media di regime che di lavoro ramazzano le macerie lasciate dal disastro del neoliberismo credi anche tu ci sia bisogno del primo media che sta dalla parte del volgo che vuole entrare nella stanza dei bottoni, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Giorgio Napolitano








[Live] “L’umiliazione della NATO e il nuovo disordine globale”

“La Bolla” Puntata del 24/09/2023

Consueto appuntamento domenicale con “La Bolla” ospiti della serata: Francesco Dall’Aglio e Stefano Orsi (Analista Militare),il focus sarà sulla controffensiva Ucraina ed il possibile cambio di prospettiva dell’occidente sul conflitto.

Nazioni Unite: l’umiliazione di Biden e Zelensky e l’inarrestabile ascesa del Sud Globale

La sintesi dei primi due giorni dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite, sta tutta qui. Come sottolineava giustamente il Global Times alla vigilia dell’incontro: “Questo è l’anno dove finalmente a dettare l’agenda saranno i paesi del Sud Globale”. Un esito scontato.

Dall’ampliamento della Shanghai Cooperation Organization, al più che raddoppio dei BRICS, per finire con il G77 della scorsa settimana all’Havana, il sud del mondo ha deciso di spingere sull’acceleratore.

Ne ha dovuto prendere atto anche Joe Biden, unico leader dei membri permanenti del consiglio di sicurezza ad aver deciso di partecipare in prima persona all’evento ma che, a quanto pare, ha commesso qualche errore.

Di fronte a una platea che chiedeva impegni chiari per rilanciare il raggiungimento dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’assemblea ormai otto anni fa, Biden ha provato a fare il gioco delle tre carte.

Ha rivendicato la fine della morsa della fame per centinaia di milioni di disgraziati in tutto il mondo, pensando forse di avere di fronte un popolo di semianalfabeti come quelli che sta provando a convincere a rieleggerlo in patria fra qualche mese.

Purtroppo per lui, però, la platea sapeva benissimo di cosa stava parlando: se oggi nel mondo ci sono meno affamati di dieci anni fa, lo si deve solo ed esclusivamente alla Cina, che Biden vorrebbe cancellare dal pianeta.

Ma Biden non si è accontentato di questa ennesima figuretta.

Come fa sistematicamente da due anni a questa parte, ha cercato di trasformare l’ennesima occasione per affrontare i problemi che affliggono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nell’ennesimo palcoscenico per il solita vecchio remake hollywoodiano della guerra in Ucraina come scontro tra il bene e il male.

Ma come sottolinea giustamente sempre il Global Times: “Le infinite chiacchiere sulla guerra e le minacce palesi e nascoste rivolte ad altri paesi, costringendoli a schierarsi, sono l’ultima cosa che questi paesi vogliono sentire”.

Per averne la prova è bastato aspettare l’intervento in aula di Zelensky; più si affannava, e più la sala si svuotava. Ma com’è possibile che l’unica superpotenza del pianeta sia stata umiliata pure a casa sua?

25 settembre 2015

Dopo nove mesi di negoziati, tutti i centonovantatré membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottano all’unanimità la risoluzione intitolata “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”; un programma estremamente ambizioso, e iperdettagliato: 91 paragrafi, 17 obiettivi, 169 target.

Una roadmap per una redistribuzione della ricchezza su scala globale in senso radicalmente più egualitario, e per affrontare tutti insieme felicemente le principali sfide che affliggono l’umanità tutta, e che a otto anni di distanza si è dimostrata essere esattamente quello che i più scettici sostenevano sin dall’inizio: fuffa allo stato puro.

Una foglia di fico per continuare a coprire il sempre più drastico furto che un manipolo di paesi sviluppati, e le loro ristrettissime oligarchie, opera a danno del resto del pianeta.

Come ha sottolineato Lula: “I dieci miliardari più ricchi del pianeta detengono più ricchezza del 40% più povero dell’umanità”. Sette di loro, per capirci, hanno passaporto a stelle e strisce. “L’azione collettiva più ampia e ambiziosa delle Nazioni Unite mirata allo sviluppo – l’Agenda 2030 –”, ha tuonato Lula dal palco, “potrebbe trasformarsi nel suo più grande fallimento”. “Abbiamo raggiunto la metà del periodo di attuazione e siamo ancora lontani dagli obiettivi definiti”.

Ma questa è solo una parte della storia: due anni prima, infatti, durante una visita in Kazakistan, nella più totale disattenzione da parte del circo mediatico occidentale, Xi Jinping annunciava l’intenzione di avviare un gigantesco progetto per la costruzione di infrastrutture di trasporto e di comunicazione nel cuore del supercontinente eurasiatico; come ricorda l’Economist: “Un annuncio che venne recepito in occidente con ‘indifferenza e perplessità'”.

Il mese dopo Xi ci ribadisce, e se dal Kazakistan aveva parlato fondamentalmente di strade e ferrovie, dall’Indonesia a questo giro si concentra su porti e corridoi marittimi, ma anche a questo giro, nel centro dell’impero, politici e propagandisti continuano a fare orecchie da mercanti.

Dieci anni dopo, quel progetto accolto con indifferenza e perplessità ha portato a casa la bellezza di 3.100 progetti in 150 paesi diversi per una cifra complessiva che si aggira attorno ai mille miliardi di dollari. Tutti messi nell’economia reale.

Come dichiarò il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank nel 2016 durante la cerimonia di inaugurazione del suo istituto: “L’esperienza cinese dimostra che gli investimenti nelle infrastrutture aprono la strada a uno sviluppo economico-sociale su vasta scala e che la riduzione della povertà è una conseguenza naturale di ciò”.

Infatti, secondo le stime cinesi, la Belt and Road ad oggi non solo avrebbe creato direttamente quasi mezzo milioni di posti di lavoro, ma soprattutto avrebbe generato una ricchezza che ha permesso di elevare sopra la soglia della povertà assoluta la bellezza di quaranta milioni di esseri umani. Ed è solo l’inizio.

Dopo un relativo rallentamento delle cifre impiegate a partire dalla fine del decennio scorso e durante tutta l’emergenza pandemica, nella prima metà di quest’anno abbiamo assistito a una vistosa ripresa: oltre 43 miliardi di investimenti, contro i 35 dello stesso periodo l’anno scorso.

Ma non solo: l’approccio cinese sta cambiando alla radice l’approccio anche del resto del pianeta al tema degli aiuti allo sviluppo. Prima dell’arrivo dei cinesi, infatti, gli unici aiuti allo sviluppo che dal Nord Globale raggiungevano il sud del mondo erano una presa in giro.

In sostanza: si riempivano di quattrini le élite corrotte e conniventi di questi paesi in cambio di riforme di chiaro stampo neoliberale, che ovviamente non facevano che aumentare la dipendenza economica nei confronti dei paesi sviluppati, e impedivano così ogni alla radice ogni reale miglioramento della propria capacità produttiva.

Man mano che gli effetti benefici delle infrastrutture lungo la nuova Via della Seta cominciavano a svelarsi, i popoli del sud del mondo hanno cominciato a realizzare che un’alternativa c’è, hanno cominciato a chiedere a gran voce di perseguirla, e quando le élite non si sono adeguate perché una bella villa di sottobanco a Londra è meno impegnativa che ricostruire le precondizioni per lo sviluppo, hanno cominciato a cacciarle a suon di golpe patriottici come quelli a cui abbiamo assistito nel Sahel negli ultimi tempi.

Così, oggi, i tromboni del Nord Globale, se non vogliono perdere completamente ogni possibilità di influenza su questi paesi, sono costretti ad offrire qualcosa di simile a quello che offrono i cinesi. Di conseguenza, laddove si è imposta in un modo o nell’altro una classe dirigente minimamente autonoma, oggi può fare leva sulla competizione tra cinesi e resto del mondo per strappare l’offerta migliore. Si può, dunque, probabilmente per la prima volta nella storia, permettere di dire anche dei bei “no.

Ove mai le élite continuino a dire solo dei “” che magari gli garantirebbero di arricchirsi, o anche solo di rimanere al potere, ma senza migliorare minimamente le condizioni di vita della popolazione, rischierebbero grosso, perché da questo punto di vista il famoso adagio thatcheriano secondo il quale “there is no alternative”, non vale più. Oggi l’alternativa c’è e come, già solo questa è una svolta epocale.

Ovviamente l’Occidente collettivo fa fatica ad adeguarsi, e continua a sperare di rimpiazzare aiuti concreti allo sviluppo con un po’ di fuffa, facendo leva sulla potenza di fuoco della sua macchina propagandistica; un po’ come è successo al G20 con l’IMEC, l’India-Middle East-Europe Economic Corridor, che si è conquistato i titoloni di stampa e tg in tutto il Nord Globale come l’alternativa occidentale e democratica alla Via della Seta cinese, ma che l’occidente non è assolutamente in grado di portare a termine.

Come scrive, giustamente, l’ex ambasciatore indiano in Turchia Bhadrakumar, infatti: “L’unico modo per trasformare il sogno dell’IMEC in realtà è renderlo al contrario un progetto di connettività regionale inclusivo, e permettere che la Cina ne faccia parte. Questo però”, conclude sarcasticamente Bhadrakumar, “comporterebbe assumere che l’IMEC sia qualcosa di diverso da una semplice operazione propagandistica USA il cui unico obiettivo è permettere a Biden di presentarsi alle prossime elezioni con almeno una storia di successo nella sua altrimenti catastrofica politica estera”.

Ma il contributo che la Cina e la Via della Seta hanno già dato alla faticosa costruzione di un nuovo ordine multipolare non si limita alla rivoluzione nell’approccio agli aiuti allo sviluppo: la Via della Seta, in dieci anni, ha anche accelerato e di tanto lo spostamento di qualche migliaio di chilometri del baricentro del potere economico mondiale. “Mentre l’influenza americana diminuisce”, ammette infatti addirittura anche l’Economist, “le economie asiatiche si stanno integrando”.
Il lungo articolo ricorda come “settecento anni fa, le rotte commerciali marittime che si estendevano dalla costa del Giappone al Mar Rosso erano costellate di dau arabi, giunche cinesi e djong giavanesi, che trasportavano ceramiche, metalli preziosi e tessuti in tutta la regione” e di come questa “enorme rete commerciale intra-asiatica fu interrotta solo dall’arrivo di marinai dagli imperi europei in ascesa”. L’Economist puntualmente si dimentica di citare anche le armi e la ferocia del colonialismo dell’uomo bianco.

Il punto è che, riconosce sempre l’Economist, quella fitta rete commerciale intra-asiatica è tornata ad essere il centro del mondo. “Nel 1990, solo il 46% del commercio asiatico si svolgeva all’interno del continente”. Oggi siamo vicini al 60%. che è anche più o meno la percentuale degli investimenti esteri diretti nella regione detenuti da altri asiatici. Anche i prestiti bancari sono sempre più asiatici, a partire dalla spettacolare crescita della Commercial Bank of China, che “è più che raddoppiata dal 2012 ad oggi, raggiungendo quota 203 miliardi”.

“Nel 2011 i paesi più ricchi e più antichi dell’Asia avevano circa 329 miliardi di dollari investiti nelle economie più giovani e più povere di Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Malesia, Filippine e Tailandia. Un decennio più tardi quella cifra era salita a 698 miliardi di dollari”.
“Secondo un recente sondaggio”, continua l’Economist, “solo l’11% degli operatori economici asiatici considera ancora gli USA il potere economico più influente dell’Asia” e “uno studio pubblicato l’anno scorso suggerisce che il trattato siglato nel 2020 e denominato Regional Comprehensive Economic Partnership, comporterà un aumento consistente degli investimenti transfrontalieri nella regione”.

“Al contrario”, sottolinea sempre l’Economist, “a seguito dell’abbandono da parte dell’America dell’accordo commerciale di partenariato transpacifico nel 2017, ci sono poche possibilità che gli esportatori asiatici ottengano un maggiore accesso al mercato americano”. Questa integrazione lega profondamente la Cina e i paesi che guardano con favore al suo piano per un nuovo ordine multipolare, ai più fedeli alleati di Washington.

“Uno studio condotto dalla Banca asiatica di sviluppo nel 2021 ha concluso che le economie asiatiche sono ora più esposte alle ricadute degli shock economici dalla Cina piuttosto che dall’America”; tradotto: gli alleati USA subiscono più danni se va male l’economia cinese che non se va male quella USA.
Questo fenomeno, nonostante la retorica sul decoupling, mano a mano che la Cina crescerà economicamente, non farà che aumentare e nonostante l’imponente propaganda degli ultimi mesi, la potenza economica cinese continuerà a crescere, mentre quella occidentale continuerà a stagnare, nonostante la guerra tecnologica.

Come ha sottolineato l’ottimo Kishore Mahbubani su Foreign Policy, infatti: “Gli USA non possono arrestare la crescita cinese”. “La decisione dell’America di tentare di rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina”, scrive Mahbubani, “non è che il solito vecchio tentativo di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. La Cina moderna ha dimostrato molte volte che lo sviluppo tecnologico del Paese non può essere fermato”. Mahbubani ricorda come nel 1993 l’amministrazione Clinton cercò di restringere l’accesso dei cinesi alla tecnologia per i sistemi satellitari. Oggi la Cina ha 540 satelliti in orbita, ed è una vera superpotenza del settore.

Mahbubani ricorda anche di quando gli USA nel 1999 decisero di restringere l’accesso dei cinesi ai dati geospaziali del sistema GPS. Oggi il sistema BeiDou Global Navigation che la Cina è stata costretta a svilupparsi da sola è più avanzato di quello occidentale. Ora si gioca la partita dei microchip, ma paradossalmente potrebbe fare più male agli USA che alla Cina. La Cina, infatti, rappresenta oltre un terzo del mercato globale dei chip e senza il suo mercato le aziende USA saranno a corto di profitti da reinvestire in ricerca e sviluppo.

Che le élite che fondano la loro spropositata ricchezza siano pronte a tutto pur di non accettare il loro declino è comprensibile, ma che noi persone comuni continuiamo a farci corbellare da una manciata di analfoliberali che ci vogliono spacciare la loro feccia propagandistica per oro, invece, grida vendetta. E per vendicarci la cosa migliore che possiamo fare è costruirci un media tutto nostro che ci faccia uscire da questa bolla asfittica e anacronistica del suprematismo occidentale; per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno!

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…e chi non aderisce è Volodomyr Zelensky!

NONCIELODIKONO!!! USA: “Sul pallone spia avevano ragione i cinesi”. Ma i media censurano la notizia

Fermi tutti, fermi tutti, perché finalmente abbiamo le prove! L’informazione mainstream non è semplicemente propaganda!

Magari, quello sarebbe già buono.

È proprio una fabbrica di fake news.

Sfacciata, plateale.

Febbraio del 2023.

Tra i cieli del Montana, d’improvviso appare un gigantesco pallone gonfiabile bianco. La sentenza è unanime. Tutte le prime pagine dei giornali italiani titolano all’unisono nello stesso identico modo: un sofisticato pallone spia cinese ha provocato gli USA e ha invaso il loro spazio aereo. Per tre giorni non si è parlerà di altro; d’altronde, non era mica una cosa da niente.

Il pallone”, sentenziava Bretella Rampini, “di sicuro avrà raccolto una ricca messe di fotografie sorvolando una base di armi nucleari nel Montana”. DI SICURO, mica chiacchiere.

E ora facciamo un piccolo salto avanti nel tempo 

17 settembre

Il Generale Mark Milley è ospite al celebre programma domenicale della CBS.

Siamo piuttosto certi”, afferma il generale, “che il pallone non abbia raccolto nessuna informazione e che nessuna informazione sia stata trasmessa in Cina”.

In sala cade il gelo e pure nelle redazioni dei giornali italiane.

Come facciamo a riportare questa notizia senza perdere la faccia e dimostrare che tutto quello che diciamo sulla Cina e in generale sui paesi che non fanno da cagnolini da riporto a Washington sono gigantesche minchiate?

Semplice, basta fare finta di niente.

La clamorosa smentita a una settimana di speculazioni di ogni genere, per giustificare il muro dei guerrafondai a stelle e strisce innalzata contro il dialogo con la Cina, è letteralmente scomparsa.

Niente, silenzio, zero assoluto.

Il controllo dei media da parte del partito unico della guerra e degli affari, d’altronde, è esattamente a questo che serve: a fabbricare e dare il massimo risalto alle fake news prima, e letteralmente a nascondere le notizie vere poi.

Un pallone aerostatico”, scriveva il 4 Febbraio scorso su la Repubblichina l’inarrivabile Paolo Mastrolilli, “può sembrare uno strumento di spionaggio rudimentale e ovviamente non è l’unico mezzo di cui dispone la Cina, che ha anche satelliti e armi moderne come i missili ipersonici. Però”, ci avvisa Mastrolilli, “l’atto di sfida, o di irresponsabilità, rivela il vero umore di Xi”.

Subito sotto, l’ineffabile Di Feo, che ha fatto della necessità di parlare di cose che palesemente non conosce una vera e propria arte, rilanciava, e metteva in allerta contro pericolose sottovalutazioni. Questi giganteschi palloni aerostatici, sottolineava Di Feo, “sono spie di sorprendente semplicità ma anche efficacia, capaci di attraversare i continenti cavalcando le correnti per raccogliere informazioni top secret”.

C’è poco da fare ironia, rilanciava Stefano Piazza su La Verità. “Occorre ricordare” infatti, scriveva, “che in Montana si trova nientepopodimeno che la Malmstrom Air Force Base, una delle tre basi americane con missili nucleari, e nello Stato sono presenti 150 missili balistici intercontinentali”.

È per questo che, come scriveva Maurizio Stefanini su Libero, “il governo degli Stati Uniti non ha la minima voglia di scherzare sul pallone proveniente dalla Repubblica Popolare che ha sorvolato una base con missili nucleari

Quella che però in assoluto c’ha marciato di più, ovviamente, è la mitica Giulia Pompili, che le spara così grosse da essersi guadagnata un posto al sole nella capitale web dei bimbiminkia italiani nota come la miniera di Ivan Grieco. “La Cina ha ammesso che si tratta di un suo dirigibile”, scrive, che però sarebbe molto banalmente uno strumento “civile, di quelli usati da quasi tutte le agenzie metereologiche per fare rivelazioni atmosferiche”.

Ma, sostiene la Pompili, “è completamente falso: i palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, perché funzionano con strumenti miniaturizzati, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”.

Per un attimo, avevo sperato che la totale incompetenza della Pompili fosse limitata ai temi economici. E invece in tema di cazzate è proprio tuttologa la ragazza.

Come avevamo sottolineato proprio mentre questa gara incredibile a chi la sparava più grossa era in pieno svolgimento, infatti, le sarebbe bastato dare un’occhiata veloce al sito della NASA, dove da anni si descrivano nei minimi dettagli missioni che sono in corso da decenni e che prevedono l’impiego di palloni aerostatici “in grado di contenere un intero stadio di football dentro” per missioni scientifiche che mediamente durano oltre 45 giorni (https://www.nasa.gov/scientific-balloons/types-of-balloons).

Ma quello che preoccupa ancora di più la Pompili, non è cosa fa quel pallone, che tanto ormai tutti spiano tutti, ma la sfacciataggine. “Non è una novità che la Cina spii l’America”, sottolinea infatti la nostra istrionica minatrice, “ma la crisi politica e diplomatica che il pallone da ricognizione ha aperto riguarda soprattutto un’operazione sfacciata, visibile, una violazione dello spazio aereo con un messaggio chiaro: arriviamo ovunque”.

Ma anche sulla provocazione sfacciata, duole dirlo, la Pompili non ci aveva visto proprio benissimo, diciamo. Il pallone cinese infatti, ha dichiarato domenica scorsa Milley, sarebbe entrato in territorio USA involontariamente, a causa del vento: “A quelle altitudini il vento è incredibilmente forte”, ha dichiarato il Generale, “i motori di quel pallone non sono in grado di andare contro quel genere di vento a quell’altitudine”. Alla ricerca spasmodica dell’ennesimo casus belli immaginario, la Pompili ha continuato a ricamare sulla faccenda per giorni e giorni, articoli su articoli.

Anche quando ormai negli USA la situazione era ormai completamente sfuggita di mano

Alla Fox News uno squadrone di attivisti neoconservatori a libro paga di vari think tank finanziati dall’industria bellica si alternava, affermando all’unisono che Pechino stava usando i palloncini per “preparare il campo di battaglia” per un intervento militare diretto sul suolo statunitense.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg affermava che il pallone spia non rappresentava solo un’evidente minaccia per gli USA, ma anche per tutti gli alleati. “Il pallone sopra gli Stati Uniti”, aveva dichiarato pubblicamente, “conferma il modello di comportamento cinese. Abbiamo bisogno di essere consapevoli del rischio costante rappresentato dall’intelligence cinese e intensificare le nostre azioni per proteggerci e reagire”.

Il top però era stato raggiunto solo alcuni giorni dopo, quando gli USA spinti dalla follia sinofobica dell’opinione pubblica, in preda al panico, avevano cominciato a tirar giù tutto quello che di gonfiabile vedevano nel cielo; fino a quando un gruppo di amatori dell’Illinois aveva denunciato che un suo pallone per le misurazioni atmosferiche da appena 12 dollari di valore, era stato tirato giù con un missile che di dollari da solo ne costava poco meno di 450 mila.

L’analisi della Pompili? “L’America abbatte quattro oggetti volanti”, scrive. Ma “non è isteria, è un messaggio chiaro alla Cina”. “Il messaggio è trasparente, chiaro”, scrive enfaticamente la Pompili, “ed è diretto contro la Cina, che invece porta le sue contro-accuse come un semplice show di propaganda”. Che tra l’altro dimostra come la Pompili, oltre a spararle grosse, scriva quasi peggio di David Puente. Ma con tutti i quattrini che c’hanno per fare propaganda, non lo trovano un pennivendolo altrettanto servizievole ma che almeno sappia scrivere decentemente?


Ma al di là della ghiotta occasione per perculare per l’ennesima volta l’Armata Brancaleone del giornalismo analfoliberale italiano e per raccontare un caso concreto di come funziona la macchina della propaganda del partito unico della guerra e degli affari, le nuove rivelazioni del Generale Milley sono interessanti anche, se non soprattutto, da un altro punto di vista. Per quanto possa apparire ridicolo infatti, le fake news sul pallone spia non sono state semplicemente l’ennesimo esercizio di retorica suprematista, ma hanno avuto conseguenze politiche piuttosto pesanti.

Come sicuramente ricorderete, poco prima si era celebrato il G20 di Bali, durante il quale Xi e Biden si erano stretti la mano, e avevano promesso una “nuova distensione”. Il primo passo, sarebbe dovuto essere il viaggio ufficiale di Blinken a Pechino previsto proprio per quel Febbraio. Ma l’isteria scatenata dall’incidente del pallone, strumentalizzata a più non posso dalle fazioni USA più radicalmente sinofobe, aveva spinto l’amministrazione Biden ad annullarlo.

I mesi successivi, hanno rappresentato probabilmente il livello più basso delle relazioni tra le due grandi potenze da qualche anno a questa parte. Nel giro di pochi mesi i cinesi hanno sfornato una quantità gigantesca di documenti, studi e report che denunciavano tutte le storture degli USA con un linguaggio di un’aggressività che raramente si era vista prima: dalla critica al sistema economico e alle diseguaglianze che genera, a quella sulle violazioni sistematiche del diritto internazionale.

Ma non solo. Convinta di non poter trovare nessun interlocutore minimamente serio ed affidabile oltrepacifico, la Cina ha passato mesi e mesi a premere sull’acceleratore dei rapporti sud-sud, incentivando così quel processo di contrapposizione tra Sud Globale e Nord Globale che fino ad allora aveva sempre cercato di stemperare. In quanto di gran lunga prima potenza economica globale reale infatti la Cina ha tutto l’interesse a mantenere almeno una parvenza di pace e di ordine e poter così procedere tranquillamente con gli affari e con il commercio. In tempo di pace il declino relativo del Nord Globale e degli USA in particolare, e l’ascesa cinese, sono letteralmente inarrestabili. Ma quando arrivi a far saltare un incontro di quel livello a causa di una vaccata come quella del pallone gigante, significa che probabilmente fare lo sforzo di provare a concordare alcuni paletti per evitare un’escalation potrebbe essere una totale perdita di tempo e pure di dignità, che è una cosa che da quelle parti ha ancora un certo valore.

Ed ecco così che la nuova distensione è andata a farsi benedire.

Quando le acque poi si sono calmate però, gli USA hanno per lo meno fatto finta di voler riprendere quel percorso: la visita di Blinken alla fine c’è stata e poi pure quella della Yellen, del Segretario di Stato al Commercio e molte altre ancora. Tutti che affermavano esplicitamente che l’idea stessa di disaccoppiare le due economie è una follia e che non hanno nessuna intenzione di ostacolare lo sviluppo cinese, ma che semplicemente vogliono emanciparsi dalla Cina per tutta una serie di materie prime e di prodotti strategici, e che non sono disposti ad aiutare la Cina a colmare il gap con gli USA in termini di capacità militare.

Nel frattempo però le sanzioni unilaterali non solo sono sempre tutte lì, ma sono pure peggiorate, a partire dal decreto che ha sancito l’impossibilità per i capitali occidentali di andare a investire in Cina nei settori tecnologici più avanzati: dall’intelligenza artificiale, al quantum computing.

Insomma, pochi fatti, e tante chiacchiere.

E dopo la pagliacciata del pallone spia, i cinesi le chiacchiere che non sono accompagnate anche dai fatti hanno deciso che non gli bastano più.

E negli USA c’è chi comincia a credere che forse è arrivato il caso di dimostrare un po’ di buona volontà in più. Anche tra le fila della destra.

John Muller è uno degli analisti di punta del Cato Institute, il famigerato think tank fondato e finanziato dal miliardario ultrareazionario Charles Koch e su Foreign Affairs ha appena pubblicato un lungo articolo che traccia la strategia che gli anarcocapitalisti made in USA vorrebbero adottare nei confronti della Cina. “Il caso contro il contenimento”, si intitola. Quella “strategia non ha vinto la Guerra Fredda e non sconfiggerà la Cina”. Nell’articolo Muller fa una lunga disamina della strategia del contenimento adottata dagli USA contro l’URSS durante la Guerra Fredda, e che imponeva a “Washington di respingere i progressi politici e militari sovietici ovunque apparissero, cercando così di impedire la diffusione del comunismo internazionale, e controllando il potere dell’unione sovietica senza dover ricorrere a una guerra diretta”. Secondo Muller la buona fama di cui gode questa strategia, sarebbe del tutto ingiustificata. “In realtà”, scrive, “più che il contenimento, furono gli errori e le debolezze dell’Unione Sovietica a causarne la caduta”.

Muller ricorda come quella strategia fosse stata descritta in dettaglio in un altro articolo del 1947 pubblicato proprio su Foreign Affairs. “Le fonti della condotta sovietica”, si intitolava. Firmato dal padre ufficiale della strategia del contenimento: l’ambasciatore e studioso di Scienze Politiche George Frost Kennan. Ma “Nei decenni successivi all’articolo”, sottolinea Muller, “il contenimento, oltre a ispirare fallimenti come l’invasione della Baia dei Porci e la guerra del Vietnam, sembrava aver impedito a pochi paesi di diventare comunisti

Nei confronti diretti dell’espansionismo sovietico, invece, riflette Muller, il contenimento era tutto sommato inutile. “I sovietici”, scrive Muller, “non avevano bisogno di essere scoraggiati: cercavano di aiutare e ispirare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, ma non avevano mai avuto interesse a condurre qualcosa di simile al ripetersi della Seconda Guerra Mondiale” e “dopo aver analizzato gli archivi sovietici, lo storico Vojtcch Mastny osservò che tutti i piani di Mosca erano difensivi e che l’enorme rafforzamento militare in Occidente “era irrilevante nel scoraggiare una grande guerra che il nemico per primo non aveva intenzione di lanciare””.

Secondo Muller, tutte le sconfitte subite dal comunismo in quegli erano autoinflitte: dai conflitti interni al campo comunista stesso, alle repressioni anticomuniste in alcuni paesi del sud del mondo, come la carneficina indonesiana. E quando invece vincevano da qualche parte, era una vittoria di Pirro, come nel caso del Mozambico nel ‘77, o in Nicaragua nel ’79.

Tutti paesi, scrive Muller, che “presto divennero casi disperati a livello economico e politico”. E anche nel crollo finale dell’impero sovietico, il contenimento secondo Muller c’entrerebbe poco o niente. “A quel punto”, sostiene Muller, “Washington aveva da tempo assunto che la Guerra Fredda fosse finita e aveva ufficialmente abbandonato quella politica. E Anche Mosca”.

Ora, ovviamente si tratta di una sequenza di puttanate che suscita quasi ammirazione. Se fosse italiano Muller lavorerebbe senz’altro per Il Foglio. Ma le implicazioni di questa analisi totalmente delirante invece sono bellissime. Secondo Muller infatti, come il contenimento non avrebbe avuto nessun ruolo nell’ostacolare l’ascesa dell’Unione Sovietica, allo stesso modo sarebbe del tutto inefficace per contrastare quella cinese. “La cosa più preoccupante per la Cina, come lo è stata per l’Unione Sovietica”, scrive Muller, in realtà, “è la sua crescente serie di difficoltà interne”.

Muller a questo punto fa un altro lungo elenco completamente delirante dei fallimenti immaginari della Cina: dalla corruzione endemica, al degrado ambientale, passando per il rallentamento della crescita e pure ovviamente il sostanziale fallimento della Via della Seta. Quasi per caso in mezzo a questa sequela di minchiate, ne dice una giusta. Come per l’Unione Sovietica, sottolinea infatti Muller, “la maggior parte delle mosse espansionistiche della Cina non hanno nulla a che fare con la forza. Come ha affermato l’ex diplomatico statunitense Chas Freeman: “Non esiste una risposta militare a una grande strategia costruita su un’espansione non violenta del commercio e della navigazione”.

Quindi non c’è motivo di allarmarsi, e basta “sedersi tranquilli ed aspettare

Si tratta della saggezza di restare indietro”, scrive Muller, “mantenere la calma e lasciare che le contraddizioni nel sistema del tuo avversario diventino evidenti”. “I politici”, conclude Muller, “dovrebbero tenere a mente una massima di Napoleone Bonaparte: “Non interrompere mai il tuo nemico quando sta commettendo un errore””.

Ecco, esatto. È quello che diciamo pure noi di fare per accelerare il declino.

Che vi state a sgolare a fare voi analfoliberali. Il globalismo neoliberista è un modello di sviluppo troppo superiore rispetto al multipolarismo industriale e produttivo, è evidente.

Basta che abbiate un po’ di pazienza, la smettiate di fare colpi di stato, cambi di regime, guerre e sanzioni economiche illegali a destra e manca e il vostro amato sistema alla lunga non potrà che dimostrare tutta la sua superiorità. E alla fine vincerete, insieme a Koch, a Giulia Pompili, a Federico Rampini e a John Muller.

Più o meno intorno al 31 settembre del duemilacredici.

Se anche tu sei per un media che incentivi gli analfoliberali a crogiolarsi nelle loro fantasie suprematiste senza rompere troppo i coglioni mentre il mondo nuovo avanza e gli prepara il funerale, aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU).

E chi non aderisce è Giulia Pompili.

Il giornalismo Occidentale è una truffa: Le confessioni di un sicario dei media mainstream

Malafede e assegni in bianco”.

Questi i due termini selezionati con cura da Patrick Lawrence per annunciare l’uscita del suo prossimo imperdibile lavoro sulla morte del giornalismo negli USA, e quindi in generale nel Nord Globale. Una storia vissuta in prima persona. Lawrence infatti dopo essersi fatto le ossa tra le scrivanie del leggendario National Guardian, “tra gli esempi più straordinari di giornalismo del ventesimo secolo”, ha continuato per decenni a girare il globo in lungo e in largo per il New Yorker e l’International Herald Tribune. Almeno fino a quando, scrive Lawrence, “il declino dei media americani divenne evidente anche tra i non addetti ai lavori. A quel punto, amici e conoscenti cominciarono a porsi tutti la stessa domanda: i giornalisti credono davvero a ciò che scrivono? oppure sanno che ciò che scrivono è fuorviante, se non addirittura totalmente falso, ma lo scrivono lo stesso per mantenere il loro posto di lavoro?”.

Bella domanda e bella pure la risposta: agli amici curiosi”, scrive Lawrence, “dico sempre che i giornalisti non sono bugiardi. non in senso stretto, per lo meno. “un uomo non mente su ciò che ignora”, scrive Sartre ne l’Essere e il nulla, e non si può dire propriamente che menta “quando diffonde una menzogna della quale è lui stesso la prima vittima””.

Per capire il dramma del giornalismo ai tempi del dominio incontrastato delle oligarchie finanziarie, sostiene Lawrence, bisogna capovolgere Cartesio: ”penso, quindi sono”, scrive Lawrence, “diventa “sono, quindi penso.” Sono un giornalista del Washington Post e questi, quindi, sono i miei pensieri e la mia visione del mondo. Non ho mai incontrato un giornalista capace di riconoscere ciò che ha fatto a se stesso nel corso della sua vita professionale: la sua alienazione, l’artificio di cui è fatto lui e il suo lavoro. L’autoillusione è la totalità della sua coscienza”.
Nel mio piccolo (rif a Giuliano Marrucci, ndr), posso solo che confermare. Tutti i pennivendoli che ho conosciuto in vita mia, si autoconvincono che quello che fa comodo scrivere per compiacere l’editore, è la verità. D’altronde, non è un fenomeno che riguarda esclusivamente i giornalisti. Anche il grosso degli imprenditori, mentre si appropria di un pezzo di ricchezza collettiva, si autoconvince di creare ricchezza e opportunità per i suoi dipendenti. Ma qui è già più facile trovare qualche eccezione: di imprenditori che sono perfettamente consapevoli che stanno prendendo e non dando, ce ne sono assai e in parecchi se ne vantano anche. Di giornalisti che sono consapevoli di mentire, o comunque di inquinare i pozzi, decisamente meno e il paradosso è che al contrario dei giornalisti, a volte, gli imprenditori in realtà la ricchezza la creano davvero. Certo, non le oligarchie finanziarie, che sono esclusivamente parassitarie e non hanno nessuna funzione sociale positiva, ma il medio piccolo imprenditore che vive ancorato alle dinamiche dell’economia reale, a’ voglia. I giornalisti quindi, probabilmente, sono l’unica categoria che vive interamente nella menzogna proprio in quanto categoria, e non semplicemente in quanto singoli individui.

Ma come si fa a spingere un’intera categoria, tra l’altro composta di persone mediamente istruite, ad autoingannarsi in modo così sistematico? Beh, in realtà non è che ci voglia proprio la scienza…

I quattrini bastano e avanzano: quattrini, e proprietà dei mezzi di produzione del consenso.

Come scrive Lawrence, “esiste qualche autoinganno sotto il sole che il denaro non può chiedere e che non può ricevere?”. Qui, la mente di Lawrence va a quello che è probabilmente il capolavoro per eccellenza della critica al funzionamento dei media in una società capitalistica, The Brass Check, l’Assegno di Ottone, la monumentale opera del 1919 di Upton Sinclair. “Una denuncia spietata del potere che ha il capitale di corrompere la stampa”, scrive Lawrence.

Per giornalismo, in America”, scrive Sinclair, “intendiamo l’attività e la pratica di presentare le notizie del giorno nell’interesse del potere economico”. Forse, in maniera ancora più drastica, del potere di quello Stato che del potere economico è il garante ultimo. Insomma, come diciamo noi complottisti, HA STATO LA CIA!

Lawrence ricorda come nel gennaio del 1953 il Washington Post pubblicò un editoriale dal titolo “choice or chance”, scelta o possibilità. Parlava del rapporto tra CIA e media. L’organizzazione allora aveva appena cinque anni e quel poco che si sapeva su come operava concretamente sollevava più di qualche dubbio. Sostanzialmente, ci si chiedeva se era legittimo che l’intelligence non si limitasse ad analizzare le informazioni, ma operasse per crearle. Ovviamente, sottolinea Lawrence: “non si può accusare la CIA di aver inventato le operazioni clandestine, i colpi di stato, gli omicidi extragiudiziari, le campagne di disinformazione, le truffe elettorali e la corruzione delle alte sfere”. Piuttosto, quello che stava diventando evidente in quegli anni, e che preoccupava anche il Post, è che “la CIA stava istituzionalizzando tali intrighi, e stava definendo la condotta che avrebbero tenuto gli USA durante la Guerra Fredda”

Il Post ovviamente non metteva in alcun modo in questione la necessità di contrapporsi al mondo sovietico senza se e senza ma, ma sollevava seri dubbi sul funzionamento dell’agenzia, le cui attività accusava esplicitamente di essere “incompatibili con la democrazia”. Ma come sottolinea Lawrence, “interessante quanto l’editoriale del Post, fu il silenzio assoluto che seguì. sull’argomento, non venne più pubblicato nient’altro”. Pochi mesi dopo, l’operato della CIA rovesciava i governi democratici e patriottici di Mossadegh in Iran prima e di Arbenz in Guatemala poi e mese dopo mese, ricorda Lawrence, diventava sempre più creativa, “dal sigaro esplosivo nel deumidificatore di Fidel Castro, al film pornografico con un attore sosia che impersonava Sukarno”.

Una storiellina succulenta che forse merita un breve accenno. Era il 1962, quando la CIA decise infatti di provare a screditare l’immagine di Sukarno facendolo passare per un uomo di facili costumi. Decisero così di realizzare un film porno, con un attore che doveva fare da sosia al Presidente anticolonialista indonesiano. Purtroppo, non ne trovarono uno adatto, ed ecco allora il colpo di genio: una raffinata maschera in lattice che riproduceva i lineamenti del leader. Speravano che il grosso della popolazione alla quale si rivolgevano, i contadini semianalfabeti dell’Indonesia, fossero così fessi da non capire la differenza: ovviamente fu un flop enorme. Tre anni dopo si rivolsero a strumenti più tradizionali. Con il sostegno dei servizi britannici avviarono una gigantesca campagna di disinformazione tesa ad attribuire le difficoltà economiche dell’Indonesia al rapporto che Sukarno stava stringendo con la Cina comunista di Mao. Seguì il tradizionalissimo massacro di circa 1 milione di militanti comunisti indonesiani. Ma ormai lo spirito combattivo che il post aveva dimostrato oltre dieci anni prima si era completamente dissolto e di quella strage i cittadini americani seppero poco o nulla.

Tutto merito del lavoro certosino di Frank Wisner.

Allen Dulles, il leggendario direttore della CIA entrato in servizio appena un mese dopo lo storico editoriale del Post, lo aveva voluto a capo delle “black operations”. “Questo”, ricorda Lawrence, “includeva il reclutamento di giornalisti come agenti, con la benedizione di editori e direttori di rete”.

Il mio potente Wurlitzer”, li definiva Wisner, riferendosi ai mitici pianoforti elettrici, che, come scrive Lawrence, “eseguivano magie musicali semplicemente premendo un tasto”. Tutti lo sapevano, ma nessuno usò dire niente per 20 anni.

E poi, scoppiò il caso watergate.

William colby”, ricostruisce Lawrence, “era stato da poco nominato a capo della CIA, e decise di rispondere con quella che per l’agenzia era ormai diventata una tecnica standard: quando le notizie ti stanno per scoppiare contro, rivela il minimo, seppellisci il resto, e mantieni il controllo di ciò che ora chiamiamo “la narrativa””. Ed ecco così che Colby passa la sua polpetta avvelenata a un giornalista del Washington Star-News, si chiamava Oswald Johnston. Un giornalista piuttosto inutile, ma molto servizievole. Il 30 novembre del 1973 Johnston pubblica l’articolo della sua professionalmente insignificante vita. “La CIA”, si legge, “ha circa tre dozzine di giornalisti americani che lavorano all’estero per lei come informatori sotto copertura”. Ma non c’è da allarmarsi: “si ritiene che Colby abbia ordinato il licenziamento di questa manciata di giornalisti-agenti”.

Il resto della stampa”, scrive Lawrence, “lasciò che le rivelazioni di Johnstone affondassero senza ulteriori indagini”. Due anni dopo il congresso dette vita alla famosa Commissione Church. “Doveva essere il primo tentativo concertato di esercitare un controllo politico su un’agenzia che da tempo, come diciamo ora, era “diventata canaglia”, scrive Lawrence. Peccato fosse destinata al fallimento: nessuno della stampa è stato chiamato a testimoniare, nessun corrispondente, nessun redattore, nessuno dei vertici dei principali quotidiani o delle emittenti”. In piccola parte, ricorda Lawrence, laddove non arrivò la commissione Church, arrivò il mitico Carl Bernstein. In un lunghissimo articolo pubblicato da Rolling Stone, provò a riportare lo scandalo alla sua reale dimensione: a libro paga della CIA non c’erano tre dozzine di giornalisti, ma oltre 400. “C’erano tutte le testate”, ricorda Lawrence, “times, post, cbs, abc, nbc, newsweek, the wires”.

Non era il problema di qualche mela marcia. Era il cuore del funzionamento dell’informazione, che sugli aspetti delicati per la sicurezza nazionale, era e rimane pura propaganda. Quelli, sottolinea Lawarence, erano bei tempi perchè appunto, ad essere pura propaganda almeno era solo una parte dell’informazione. Una parte cruciale, intendiamoci. ma pur sempre una parte. “Oggi” invece, sottolinea giustamente Lawrence, “tutto il giornalismo mainstream è “embedded”, perchè oggi il campo di battaglia è ovunque”.

Grazie Patrick, per averlo scritto così chiaramente.

È quello che come OttolinaTV sosteniamo da sempre, e che ci ha spinto a imbarcarci in questa avventura: il mondo nuovo avanza, e il vecchio mondo è in assetto di guerra e l’informazione ufficiale non è altro che la costruzione quotidiana del fantastico mondo incantato della Post Verità. Lawrence però, come noi, non è tipo da scoraggiarsi e abbandonarsi al pessimismo: non c’è motivo di aspettarsi che i media mainstream rivendichino l’indipendenza che hanno ceduto molto tempo fa”, sottolinea, “ma attraverso i media indipendenti i giornalisti oggi hanno la possibilità di fare la cosa giusta. e i media indipendenti sono destinati a contare sempre di più”.

Per farlo però, hanno bisogno del sostegno di tutti. Per parlarne insieme, ti aspettiamo da giovedi 14 settembre all’Hotel Terme di Fiuggi insieme agli amici dell’associazione Idee Sottosopra.

Un’altra tappa fondamentale per prepararci a quello che abbiamo definito l’autunno caldo della controinformazione. Nel frattempo, come fare a sostenere concretamente la creazione finalmente di un primo vero e proprio media indipendente, ma di parte, lo sai già:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Bruno Vespa