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Tag: stephen walt

I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
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