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Tag: saviano

Chi ha rapito Khaled El Qaisi: L’incredibile Storia degli arresti illegali in Israele e la connivenza dei suprematisti italiani

Lui si chiama Khaled El Qaisi.

Nonostante il nome esotico, è più italiano di me. Ma a vedere i media italiani, non si direbbe. Da 14 giorni infatti Khaled è stato preso in ostaggio e rinchiuso in un carcere da un feroce regime teocratico per ragioni esclusivamente di carattere ideologico e di discriminazione etnica.

In passato, abbiamo visto invocare l’interruzione delle relazioni diplomatiche, se non addirittura l’escalation bellica, per molto, molto meno. Ma a questo giro, niente, silenzio assoluto. Alla Farnesina c’avevano judo, e non c’è traccia di un comunicato ufficiale. Nelle redazioni dei giornali e dei TG invece erano troppo occupati a festeggiare gli incredibili successi della controffensiva Ucraina e il boom economico che stanno attraversando tutte le democrazie avanzate, e ci hanno detto di ripassare il 31 settembre del duemilacredici. Che strano…

Su eventi del genere di solito si buttano a capofitto. Spesso, ancora prima di avere elementi solidi, sopratutto quando il Paese in questione è uno Stato canaglia, messo sotto accusa dalla comunità internazionale. A questo giro, il Paese in questione, numeri alla mano, è di gran lunga il più canaglia di tutti: delle duecentootto risoluzioni di condanna emesse dall’ONU dal 2015 al 2022, la bellezza di centoquaranta riguardano proprio lui. Il doppio di tutto il resto del Mondo messo assieme. Russia inclusa, anche dopo la guerra in ucraina.

No, non è la Corea del Nord di Kim Jong Un e neanche l’Afghanistan dei talebani. È quella che contro ogni minima parvenza di dignità, i media nostrani continuano a definire “l’unica democrazia del medio Oriente”, dove per democrazia evidentemente intendono che applica l’apartheid in modo democratico a tutti gli abitanti non Ebrei dei territori occupati illegalmente, senza fare troppe distinzioni di censo o di orientamenti sessuali. Come la definisce il compagno Roberto Saviano, una “democrazia sotto assedio”, “piena di vita e sopratutto di tolleranza”, “che permette alla comunità gay israeliana e sopratutto araba di poter gestire una vita libera e senza condizionamenti, frustrazioni, repressioni e persecuzioni”.

Ma, evidentemente, non di andare a trovare i tuoi parenti con moglie e figlio di quattro anni a seguito.

31 agosto, valico di Allenby, al confine tra i territori occupati palestinesi della Cisgiordania e la Giordania. Khaled El Qaisi ha appena finito le vacanze che aspettava da anni. Insieme alla moglie e il figlio di quattro anni, dopo tanto tribolare, è finalmente riuscito ad andare a trovare i parenti che si trovano imprigionati nel minuscolo campo profughi di Al-azza, nella periferia di Betlemme, altrimenti noto come campo di Beit Jibrin.

Che culo…

Sono tremila anime costrette a convivere in un’area di appena 0,02 km², meno di tre campi di calcio. Le abitazioni sono fatiscenti. l’acqua potabile dalla rete non funziona, e la fognatura è ingolfata. quando “essere nella merda” non è un modo di dire. Quando i bambini escono dall’insediamento per andare a scuola nel vicino campo di Aida, passano sotto a una bella torretta di controllo delle forze armate israeliane.

Un’area”, si legge nella scheda dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, “dove si registrano frequenti scontri, ed è comune trovare residui di bombole di gas lacrimogeno e di proiettili nel cortile della scuola”.

L’educazione siberiana, diciamo.

Ma anche quando a scuola non ci vanno e decidono di starsene ammucchiati come sardine a casa loro, le cose non vanno meglio. Sempre secondo l’UNRWA infatti, soltanto nel 2022 il campo è stato teatro di ben nove operazioni delle forze di polizie, che hanno portato all’arresto di 7 persone.

Durante queste incursioni”, si legge nella scheda, “le forze armate israeliane impiegano regolarmente gas lacrimogini e munizioni di ogni genere”. Ciò nonostante, racconta la moglie, Khaled era contento come un bambino. Sono fatti così i palestinesi: dopo un tentato genocidio e 60 anni di feroce occupazione militare votata a cancellarli dalla faccia della terra come popolo, hanno messo su una bella corazza, e non c’è disagio e sopruso in grado di levargli la gioia di riabbracciarsi.

E allora cosa fa il valoroso occupante democratico? Li separa. Quando Khaled e famiglia arrivano alla frontiera, dopo aver passato i controlli della autorità palestinesi, si ritrova di fronte a quelli israeliani. Allenby funziona così: superarla è una corsa a ostacoli. devi superare tre controlli. I servizi di sicurezza israeliani appaiono subito sospettosi e per una mezz’ora abbondante aprono e chiudono le valigie, controllano e ricontrollano i documenti, parlottano tra loro. Fino a quando una guardia di frontiera si avvicina a Khaled con tono perentorio, gli fa incrociare le braccia dietro la schiena, e lo ammanetta.

Così, de botto, senza senso, davanti al figlio di 4 anni. La moglie, italiana, prova a chiedere spiegazioni ma la rimbalzano, anzi, rincarano. Vogliono sapere qualcosa di più sulle idee politiche del marito.

Khaled infatti è colpevole di un crimine enorme. Non solo è figlio di un palestinese. ma manco se ne vergogna, anzi. Ne fa quasi un vanto, tanto che insieme ad alcuni amici e colleghi ha addirittura fondato il centro di documentazione palestinese, dove invece di far finta che la Palestina non sia mai esistita, si permettono addirittura di diffondere materiale storico di vario genere tutto teso a spargere questa leggenda metropolitana che la Palestina c’avrebbe addirittura una sua storia e tutto il resto. Un vizietto di famiglia. Durante la prima intifada, il padre di Khaled, Kamal, ora scomparso da diversi anni, aveva addirittura provato a convincere gli italiani che in Palestina ci fossero addirittura anche i lavoratori, e anche i sindacati. E aveva addirittura convinto la CGIL a realizzare alcuni progetti di cooperazione con loro. Dopo un po’ di santa inquisizione, i simpatici e democratici servitori dell’ordine israeliano prendono mamma Francesca e figlio Kamal e li spediscono oltre confine in Giordania. Trattenendole mezza roba, quattrini e telefono compreso.

Quando ho chiesto a due addette israeliane come avrei potuto proseguire il viaggio senza telefono e soldi”, ha raccontato Francesca a Michele Giorgio del manifesto, “mi hanno risposto “questo è un tuo problema”.

E così ecco Francesca alla frontiera della Giordania senza una lira, senza possibilità di comunicare, e con un figlio di quattro anni appresso. Quando uno dice “le mie vacanze sono differenti”.

Come c’ha levato le gambe? Grazie all’elemosina: quaranta dinari regalati così, a caso da delle signore palestinesi che avevano assistito alla vicenda. La solidarità degli oppressi, contro le barbarie degli oppressori. Una dicotomia plateale, che però a sto giro non ha commosso gli ultras manicheisti della lotta del bene contro il male. Da allora Khaled è stato deportato in Israele e ora si trova nella famigerata prigione di massima sicurezza di Shikma, alla periferia di Ashkelon, tristemente nota per la struttura per gli interrogatori gestita dall’agenzia per la sicurezza israeliana, dove sono stati documentati innumerevoli casi di tortura e dove vige un regime di sistematica deprivazione.

Di cosa sia accusato in realtà nessuno lo sa. Ad assisterlo, un avvocato arabo israeliano che si sarebbe limitato a confermare di “non poter rivelare alcun particolare del procedimento in corso per ordine dei giudici”. Sempre che li conosca.

Durante l’ultima udienza infatti, stando a quanto riportato da Michele Giorgio sul manifesto, “El Qaisi e il suo difensore locale non sono potuti comparire insieme, perché impossibilitati per legge a vedersi e comunicare”.

Secondo l’avvocato della famiglia “al giovane ricercatore non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata”.

Oggi, Giovedì 14 Settembre, si dovrebbe tenere una nuova udienza, difficile prevedere come andrà.

Il timore è che, quella che ad oggi è una misura cautelare, possa trasformarsi in uno dei tanti istituti criminali che costituiscono l’ossatura di questo regime di apartheid, e cioè l’incubo della detenzione amministrativa. È una delle tante eredità dello stato di emergenza proclamato nel 1945 durante il mandato britannico in Palestina. Prevede che per motivi di sicurezza chiunque possa essere arrestato e detenuto sostanzialmente a oltranza senza processo. Ma ovviamente per una forza che da oltre cinquant’anni occupa casa altrui con l’uso sistematico della violenza, la sicurezza può significare tutto. Qualunque palestinese, solo per il fatto di esistere, è sostanzialmente una minaccia alla sicurezza di chi fonda il suo sistema sul suo annichilimento. Nel 1951 il Parlamento israeliano votò per una sua abrogazione ma è sempre lì, più in forma che mai. Secondo il rapporto pubblicato in luglio da Francesca Albanese, relatrice speciale delle nazioni unite sui territori palestinesi occupati, dal 1989 a oggi in media è stato utilizzato circa cinquecento volte l’anno. Spesso, anche nei confronti di minori e bambini. Oggi però siamo arrivati oltre quota mille.

Fa parte del new normal dell’occupazione israeliana. Addomesticata l’autorità palestinese, da qualche anno, qualsiasi timido accenno alla ribellione viene represso sul nascere senza tanti tentennamenti. Mentre nel frattempo coloni illegali armati fino ai denti si fanno giustizia da soli con il pieno sostegno delle forze armate israeliane. È quello che si vede chiaramente in questo video pubblicato ieri sull’account twitter di B’tselem

Due cittadini palestinesi vengono fermati e bullizzati senza motivo da civili armati, manco fossimo in una scuola media negli USA, e quando dopo un po’ di polemiche finalmente arrivano le forze di occupazione, gli dicono pure bravi. Da sessant’anni Israele ha il merito di svelarci senza tanti fronzoli, il contenuto reale che sta dietro a termini pomposi come democrazia e società aperta: la divisione del mondo tra chi ha diritti, e chi dovrebbe stare sotto e prenderle affinché i pochi che hanno dei diritti se li possano continuare a permettere.

Che il Governo degli svandipatrioti non faccia sentire la sua voce contro il rapimento criminale di Khaled, tutto sommato, da questo punto di vista, in realtà è anche abbastanza coerente. Per tutti gli altri che schifano l’imperialismo e la ferocia coloniale invece, da oggi c’è una nuova battaglia che non ci possiamo permettere di non combattere.

Vogliamo Khaled El Qaisi libero subito.

Per chiunque ne ha la possibilità, l’appuntamento è per domani venerdì 15 settembre alle 16.00 presso la facoltà di lettere del’Università la Sapienza di Roma insieme alla moglie di Khaled, la madre e il legale della famiglia.

OttolinaTV purtroppo non ci sarà. Ma farà in modo di far sentire la sua vicinanza anche da Fiuggi, dove saremo in primissima fila insieme agli amici di Idee Sottosopra alla loro scuola estiva dal titolo “Interferenze oltre la crisi”.

Ora, di fronte alla storia di khaled in effetti fare la solita questua può sembrare un po’ bruttino

Ma sticazzi

Anche no

Perché l’assenza della storia di Khaled da ogni media grida vendetta.

Quindi oltre a sostenere Khaled e la sua famiglia, anche oggi, come sempre, dobbiamo fare un passetto in avanti nella costruzione finalmente di un vero e proprio media che dia voce a tutti i Khaled, tutti i palestinesi, e tutto il 99%.

Per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su gofundme ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su paypal ( https://shorturl.at/knrcu )

E chi non aderisce è Roberto Saviano

Fonti:

Foto di Khaled El Qaisi: https://www.facebook.com/photo?fbid=6613052398786385&set=ecnf.100002450717343

Articolo de “il Manifesto”: https://ilmanifesto.it/khaled-el-qaisi-resta-in-cella-cresce-la-mobilitazione-in-italia

Rapporto della relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese: https://rapporto-dol.tiiny.site/

Scheda UNRWA: https://www.unrwa.org/sites/default/files/beit_jibrin_camp_profile_-2022.pdf