Skip to main content

Tag: potere d’acquisto

Crollo consumi e dividendi record: la doppia rapina di USA e oligarchie contro i lavoratori europei

Dividendi da record titolava entusiasta ieri Il Sole 24 Ore: “Le borse mondiali pagano 339 miliardi” e questo solo nei primi tre mesi del 2024; “Un nuovo massimo a livello globale” festeggia il giornale dell’1%. Se ne esistesse anche uno del 99% probabilmente festeggerebbe molto meno, soprattutto se si occupasse del 99% dei lavoratori europei. Come dimostra questo grafico pubblicato il giorno prima dal Financial Times, infatti, se i nostri azionisti ridono, le famiglie europee non c’hanno più nemmeno gli occhi per piangere: mentre il livello dei consumi delle famiglie USA, infatti, rispetto ai livelli prepandemia è cresciuto di ben oltre il 10%, il nostro è rimasto completamente invariato. Zero. Niente. Neanche un piccolo cenno di crescita; ed è solo l’antipasto. E il primo che ci stanno preparando sarà ancora più indigesto: questo ulteriore, gigantesco trasferimento di ricchezza dalle famiglie europee verso quelle USA, da un lato, e verso le oligarchie di entrambe le sponde dell’Atlantico dall’altro, infatti, non può che comportare un ulteriore svuotamento delle casse dello Stato alle quali, giustamente, non contribuiscono i cittadini USA, ma decisamente molto meno – giustamente, sempre di meno – anche le nostre oligarchie. Risultato: FMI, allarme sui conti come titolava ieri La Repubblichina; secondo il Fondo Monetario, riporta l’articolo, “Serve una manovra da 60 miliardi in due anni per sanare il bilancio” e, ovviamente, “bisogna fermare tutte le misure in deficit”. Eh, giustamente: chi ci crediamo d’essere, gli USA? Le misure in deficit sono una cosa da ricchi e su chi, alla fine, dovrà pagare il conto s’è scatenata una vera e propria guerra: Sorpresa redditometro titolava mercoledì La Stampa; “Torna lo strumento che stana gli evasori in base agli eccessi di spesa”. Strano: già 10 anni fa, infatti, Matteo Salvini aveva definito il redditometro “roba da regime comunista”; sostanzialmente, è una misura che dovrebbe permettere all’Agenzia delle entrate di andare a bussare alla porta di chi dichiara redditi al di sotto della soglia di sussistenza, ma poi, magari, ogni due anni si compra un SUV nuovo e non esce di casa senza un Rolex al polso. Insomma: lo zoccolo duro dell’elettorato della destra fintosovranista. Se la destra di governo arriva a introdurre una misura del genere – tra l’altro ad appena un paio di settimane da un appuntamento elettorale di tutto rilievo – vuol dire che sono veramente alla frutta; e, infatti, è bastato aspettare 24 ore ed ecco che, come titolava ieri La Repubblichina, Redditometro, marcia indietro del governo.
Insomma: se non siete tra quelli che hanno da parte montagne di azioni di qualche grande corporation e la scappatoia della piccola evasione proprio non vi riguarda perché le tasse, come a oltre il 70% dei lavoratori italiani, ve le prelevano di default dalla busta paga, ho come l’impressione che quelli che vi aspettano non siano esattamente tempi di vacche grasse. Oh, se poi pensate ne valga comunque la pena perché per difendere le democrazie liberali dall’invasione del plurimorto dittatore del Cremlino, dei cinesi e dei bambini palestinesi che c’hanno il terrorismo nel DNA, per carità, fate pure per carità; ma prima di provare a spiegarvi perché – probabilmente – non ne vale la pena, ricordatevi di mettere un like a questo video e aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi ai nostri canali social e attivare tutte le notifiche: è un’operazione che a voi costa meno tempo di quanto abbia impiegato il governo per fare retromarcia sul redditometro (o la tassa sugli extraprofitti delle banche), ma per noi fa comunque la differenza e ci permette di continuare a provare a costruire un vero e proprio media che, invece che dalla parte di Washington, delle oligarchie e degli svendipatria, sta dalla parte del 99%.
I lavoratori europei, da decenni, sono vittime non di una rapina, ma di due; e da quando gli USA e le oligarchie del Nord globale hanno dichiarato guerra al resto del mondo, il tasso di furti che subiamo quotidianamente ha raggiunto dimensioni mostruose. La prima rapina è raffigurata in modo chiaro in questo grafico pubblicato mercoledì scorso dal Financial Times:

Nel grafico viene confrontata la crescita dei consumi delle famiglie di USA, Eurozona e Gran Bretagna a partire dall’ultimo trimestre del 2019, vale a dire dall’inizio della crisi pandemica. Le linee tratteggiate indicano l’andamento che i consumi delle rispettive famiglie avrebbero dovuto avere se fosse stata confermata la crescita media registrata nei 6 anni precedenti e, già qui, abbiamo una rappresentazione chiara della prima rapina che i consumatori europei subiscono da quelli USA ormai da decenni: fatto 100 il consumo delle famiglie nell’ultimo trimestre del 2019, infatti, se avessimo continuato con il business as usual, nel 2024 i consumatori europei avrebbero raggiunto appena quota 106; quelli USA, 112. Insomma: i consumi statunitensi crescono a un ritmo doppio rispetto a quelli europei o, per dirla meglio, a discapito di quelli europei, un trend che – come abbiamo sottolineato decine di volte su questo canale – procede invariato da quasi 20 anni e, cioè, da quando l’economia mondiale è stata travolta dalla crisi finanziaria innescata dagli USA che ha segnato l’inizio di quella che l’amico Vijay Prashad definisce la terza grande depressione (col paradosso che chi ha scatenato la crisi in realtà non ha fatto che arricchirsi, mentre a pagare il conto ci pensavamo noi). Chi segue questo canale il dato lo conosce ormai benissimo, ma visto che – nonostante gridi vendetta – i media mainstream si scordano sistematicamente di riportarlo, è sempre bene ribadirlo: se infatti, ancora nel 2007, i paesi dell’Eurozona in media (e l’Italia in particolare) avevano un reddito e un patrimonio pro capite di poco inferiori a quelli statunitensi, oggi siamo a meno della metà.
La buona notizia è che ci sarebbe potuta andare peggio, che è esattamente quello che è successo dalla crisi pandemica in poi: nonostante il nostro trend di crescita, infatti, fosse già in partenza decisamente meno ambizioso, magicamente siamo riusciti a non cogliere manco quello; anzi, manco ad avvicinarci. A 4 anni di distanza, infatti, siamo sempre allo stesso identico punto: i nostri consumi non sono cresciuti di una virgola; quelli USA, di oltre il 10%. La prima differenza macroscopica risale immediatamente al periodo pandemico durante il quale, ovviamente, a crollare sono stati i consumi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con un’entità parecchio diversa: fatto 100 il consumo nell’ultimo trimestre 2019, il picco più basso raggiunto nei mesi successivi è stato di 90 negli USA, ma addirittura di meno di 85 nell’Eurozona. Dopodiché, se gli USA hanno raggiunto di nuovo il livello di consumo prepandemico subito all’inizio del 2021, noi abbiamo dovuto aspettare 6 mesi di più e da lì in poi, mentre noi ci siamo arenati, gli USA hanno continuato a correre ancora per alcuni mesi a ritmi cinesi; com’è possibile? Molto semplice: nonostante anche nell’Eurozona, per un periodo, si sia sospeso il delirante patto di instabilità e decrescita e, una volta tanto, gli Stati abbiano fatto quello che dovrebbero fare sempre gli Stati (e, cioè, mettere mano al portafoglio in periodi di crisi), l’euro comunque rimane l’euro e il dollaro rimane il dollaro; il che significa, banalmente, che gli USA si possono indebitare quanto gli pare senza mai pagare dazio, che tanto, grazie all’egemonia del dollaro, l’inflazione che generano stampandolo all’infinito mal che vada la possono sempre scaricare sugli altri. Poi è arrivato l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Russia e contro l’economia europea e l’esorbitante privilegio del dollaro – come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – s’è fatto sentire ancora di più: per tenere a freno l’inflazione che l’immissione di una quantità massiccia di soldi pubblici aveva scatenato, la Federal Reserve ha iniziato la lunga corsa all’aumento dei tassi di interesse e tutti gli altri le sono andati dietro.
Per cercare di spiegare quanto la corsa al rialzo dei tassi di interesse fosse la peggiore delle strategie possibili immaginabili per contrastare l’inflazione, nel corso di questi due anni e passa abbiamo speso ore e ore di video: l’inflazione in questa fase, infatti, oltre che alla liquidità in circolazione, aveva ovviamente a che fare non solo con le tensioni geopolitiche, ma anche con la speculazione che su queste tensioni ha trovato il modo di farci una montagna di quattrini e anche con quella che, con Isabella Weber, abbiamo imparato a chiamare greedflation e, cioè, l’inflazione che le aziende hanno contribuito ad alimentare aumentando i prezzi ancora di più di quanto non fossero aumentati i costi, approfittando del fatto che la concorrenza è morta e ormai il capitale privato, in quasi tutti i settori, è oligopolistico (se non, addirittura, monopolistico) e garantendosi così una montagna di profitti. La lotta all’inflazione a colpi di aumenti dei tassi, quindi, da questo punto di vista (come spesso accade) più che una vera motivazione, appare più che altro una scusa buona per gli analfoliberali e le bimbe di Cottarelli ed Elsa Fornero e che, stringi stringi, ha rappresentato un’altra arma nell’arsenale del rapinatore a stelle e strisce: con l’esplosione del debito registrata per contrastare gli effetti della pandemia, infatti, l’impennata dei tassi significa dover sborsare una quantità gigantesca di quattrini solo per pagare gli interessi sul debito e mentre gli USA – di nuovo per l’esorbitante privilegio del dollaro – se ne possono tranquillamente sbattere, per le semicolonie europee rappresenta un bel problemone, soprattutto dal momento che il patto di instabilità e decrescita non è che è stato cestinato per adottare una politica economica più realistica e ragionevole, ma soltanto temporaneamente sospeso per poi essere reintrodotto. Risultato: mentre noi ci ritroviamo a tagliare ulteriormente la spesa pubblica con l’accetta in ossequio ai deliranti parametri di Maastricht, gli USA continuano a crescere grazie a un deficit pubblico che fa letteralmente paura e, grazie a questo deficit, non solo continuano a pompare artificialmente la loro economia bollita, ma hanno una montagna di quattrini da regalare alle aziende che decidono di abbandonare l’Eurozona e andare a investire nella terra ri-promessa, al punto da creare più domanda di lavoro (in particolare qualificato) di quanto sia disponibile negli USA – in particolare dopo 40 anni di finanziarizzazione che ha distrutto tutto il know how possibile immaginabile. Ed ecco, così, che mentre da noi mancano gli investimenti e il top a cui ambire è fare la stagione in qualche località balneare con stipendi inferiori al vecchio reddito di cittadinanza (che, nel frattempo, abbiamo cestinato), gli investimenti multimiliardari – come quello di TMSC per costruire nuove fabbriche per riportare negli USA la produzione di microchip – vengono rinviati perché non si trova abbastanza manodopera qualificata e ovviamente quella poca che c’è, giustamente, ha tutti gli strumenti per farsi pagare a peso d’oro, come gli operai dell’automotive che hanno strappato aumenti da capogiro. Risultato, appunto: i consumi delle famiglie USA volano e i nostri sono al palo. “Povertà a livelli mai toccati da 10 anni” denuncia l’ultimo rapporto ISTAT pubblicato la settimana scorsa; nell’arco di un decennio, l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 6,9 al 9,8%: un italiano su 10 è tecnicamente povero, anche se lavora. Tra gli operai, i poveri sono passati dal 9 al 14,6% e “tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.
Fortunatamente, però, chi – invece che del suo lavoro – campa di rendita, se la passa decisamente meglio perché, se continua imperterrito questo trasferimento di risorse da una parte all’altra dell’Atlantico, all’interno dei singoli paesi – allo stesso tempo – procede impunita un’altra rapina: quella che vede trasferire risorse da chi ha poco o niente a chi ha già troppo. “Dopo il 2023 da record” riportava ieri, infatti, Il Sole 24 Ore “il valore dei versamenti effettuati agli azionisti dalle società quotate ha registrato un nuovo massimo anche nei primi tre mesi del nuovo anno”; in particolare, come previsto, “la spinta al rialzo è arrivata sopratutto dal settore bancario”. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie all’aumento dei tassi di interesse, infatti, le banche prendono i soldi dei correntisti (ai quali non riconoscono manco mezzo euro di interessi) e li depositano nelle banche centrali che, invece, gli riconoscono interessi del 4,5%: un furto con scasso talmente palese che anche la Giorgiona nazionale, qualche mese fa, aveva fatto finta di volere per lo meno tassare; dopo un paio di giorni i titoloni sui giornali, però, sono scomparsi insieme alla tassa e così oggi “I dividendi staccati dalle società del credito hanno rappresentato un quarto della crescita globale del primo trimestre, con un aumento del 12%”. E’ l’ultimo tassellino di un trend che va avanti, inesorabile, da oltre 40 anni: “Dagli anni ‘80” ricorda il nostro buon vecchio Andrea Roventini su Il Fatto, “la fetta del PIL che va al 50% più povero è in discesa mentre l’1% e lo 0,1% più ricco stanno incamerando una frazione sempre maggiore del reddito”. E il problema non è soltanto per quello che ci mettiamo in tasca noi persone comuni direttamente, ma anche per tutto quello che ci mettiamo indirettamente – e, cioè, quello che dovrebbe garantirci lo Stato – perché il 5% più ricco non si limita a incassare più quattrini, ma, in piena violazione del dettato costituzionale, più è ricco e meno tasse paga: “Il sistema fiscale italiano” continua infatti Roventini “è già piatto sostanzialmente per tutte le classi di reddito, e quando arriviamo al 5% più ricco diventa addirittura regressivo”. Insieme ad altri 134 economisti, il buon Roventini, allora, ha presentato una semplice proposta di una tassa sui grandi patrimoni; in soldoni, si tratterebbe di introdurre tre novità: la prima, una tassa progressiva sul patrimonio dello 0,1% più ricco, a partire dalle montagne di titoli azionari che i super-ricchi concentrano nelle loro mani e che sottraggono risorse all’economia. Poi si tratterebbe di aumentare le tasse su successioni e donazioni oltre una certa soglia, dal momento che – sottolineano gli economisti – “siamo una sorta di paradiso fiscale per le successioni”; e, infine, di introdurre nuovi scaglioni IRPEF che, negli anni, sono passati dai 32 del 1974 (quando l’Italia era ancora una democrazia moderna e cercava di applicare il dettato costituzionale) ai 3 di oggi.
Peccato che, invece dei nostri 134 economisti, al governo ci sia la peggiore destra svendipatria fintosovranista e vera amica di oligarchie ed evasori e che la delega fiscale – che è proprio adesso in fase di attuazione – vada ancora in senso diametralmente opposto. Insomma: invece che prima gli italiani, prima i padroni d’oltreoceano e poi gli italiani sì, ma esclusivamente ultraricchi. Contro la doppia rapina, è arrivata l’ora di tornare ad alzare la testa: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della sinistra ZTL e della destra fintosovranista, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!





Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Matteo Renzi.