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Tag: ordine multipolare

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

Le immagini di pubblico dominio sono:

Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer