Da mesi studenti e docenti si stanno mobilitando per protestare contro il massacro dei civili palestinesi e contro la cooperazione tra il nostro governo e quello israeliano. A febbraio Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ha rinnovato un accordo per la collaborazione tra le istituzioni di ricerca italiane e israeliane che ha sollevato una ferma protesta dando vita a occupazioni e a una lettera aperta firmata da più di 2000 docenti.
L’Italia che non ti aspetti: vi lamentate sempre che vi diamo solo cattive notizie e, allora, oggi abbiamo deciso di regalarvi un mercoledì da leoni insieme agli amici de Il Foglio, che ci danno la carica ricordandoci come il nostro paese “è uscito a razzo dalla pandemia, è cresciuto più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi, ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7 e batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del PIL pro capite”… No, spe’, forse mi avete frainteso: la buona notizia non è tanto questa che, molto banalmente, è una puttanata di dimensioni epiche; la buona notizia è che l’Italia è, ogni giorno di più, con le pezze al culo. Ma poteva andarci anche peggio: potevamo averci tra i coglioni ancora Renzi e il suo giglio magico.
A sciorinare sul Foglio “fatti e numeri che smentiscono l’eterna lagna nazionale”, infatti, è Marco Fortis, consigliere economico prima di Monti e poi di Renzi e che, nonostante i risultati economici disastrosi dei governi che sosteneva, da 12 anni, dal palco della Leopolda (sempre con un’abbronzatura invidiabile), c’invita a fregarcene della realtà che tutti noi abbiamo di fronte agli occhi e a inventarci un mondo parallelo fatto di lampade UVA di cittadinanza e una montagna di ingiustificato ottimismo; peccato, però, che a parte aver relegato il mondo della Leopolda e del Foglio all’irrilevanza che si meritano, ci sia ben poco di altro da festeggiare: giovedì scorso sul Sole 24 oreLuca Orlando ci ricordava come il 2023 sia stato un anno molto complicato, ma il 2024 è partito parecchio peggio. -1,2% di produzione industriale in un solo mese: un’ecatombe che asfalta, in un colpo solo, tutta la retorica sulla crescita immaginaria dell’occupazione. Cioè, l’occupazione aumenta anche, eh? E’ innegabile. E graziarcazzo: col part time involontario, un posto di lavoro diventano due che, in un paese in drammatico declino demografico, percentualmente contano parecchio; e se il contributo dei part time involontari non basta per trasformare la merda in cioccolata, basta aggiungerci una ciliegina che si chiama cassa integrazione. Oltre a quelli che lavorano un’ora la settimana, infatti, per l’ISTAT sono occupati anche quelli che non ne lavorano manco mezza e che, però, prima di essere licenziati teniamo buoni per qualche mese con un assegno – e sono un esercito: a gennaio, infatti, l’INPS ha autorizzato la bellezza di oltre 49 milioni di ore di cassa integrazione tra ordinaria – e, cioè, quella che dovrebbe aiutare in momenti di difficoltà passeggeri – e, soprattutto, straordinaria – e, cioè, quella che viene utilizzata per crisi strutturali che, il più delle volte, non si ha la minima idea di come risolvere; una cifra spaventosa che segna un crescita di oltre il 16% rispetto anche soltanto al mese precedente e addirittura del 44,4% rispetto a 12 mesi prima. E’ la fine definitiva dell’onda lunga del superbonus che, al netto di tutte le critiche possibili immaginabili, ha rappresentato l’unica vera misura espansiva da parte di un governo da decenni a questa parte e che, a quanto pare, non è bastata: Record della povertà assoluta titola, infatti, La Repubblichina; dopo la piccola flessione dell’indice di povertà registrata nel 2019 grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza, infatti, il trend ha ripreso pari pari l’andamento avviato ormai nel lontano 2011 grazie alle politiche lungimiranti di Mariolino Spread Monti che, nell’arco di due anni, era riuscito nell’invidiabile record di aumentare del 70% i poveri in Italia. Da allora, l’aumento è stato incontenibile e se, nel 2010 , erano povere il 4,6% delle famiglie italiane, oggi siamo arrivati all’8,5 e quello che è ancora più grave è che circa la metà hanno un componente che lavora; e anche quelli che, oltre a un lavoro, hanno anche qualche bene di proprietà non è che se la passino proprio benissimo. Lo ricorda Attilio Barbieri su Libero: nel 2011 la ricchezza pro capite degli italiani ammontava alla bellezza di 159.600 euro, contro i 131 dei francesi e i 114 dei tedeschi; primi della classe! Da allora, la nostra ricchezza è cresciuta di appena il 10%, enormemente meno dell’inflazione non dico di questi oltre 10 anni, ma anche solo degli ultimi 2; quella dei francesi è cresciuta del 40%, quella dei tedeschi dell’85 e non credete che si siano ricoperti d’oro: molto semplicemente non hanno perso troppo, e noi siamo precipitati in fondo alla classifica. Chi invece s’è ricoperto d’oro sono gli statunitensi: nel 2011 avevano, a testa, appena 4 mila euro di patrimonio in più rispetto agli italiani; oggi, ne hanno 230 mila in più. Ci saremo pure sbarazzati di Renzi, renzini e leopoldini vari, ma fino a che come amico del cuore ci continueremo a scegliere quelli che ci fregano i quattrini da sotto il culo alla luce del sole, ho come l’impressione che andremo poco lontano. Prima di continuare in questo viaggio nel cuore della disastrosa politica economica della destra cialtrona e svendipatria, però, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia contro gli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto magari, anche di iscrivervi a questo – come a tutti gli altri nostri canali sulle varie piattaforme – e attivare le notifiche; a voi non costa niente e a noi, invece, cambia parecchio. “Il nuovo anno si è aperto nei peggiori dei modi” scrive Marco Togna su Collettiva all’inizio di una lunga e dettagliata lista di morti e feriti dell’industria italiana che, ovviamente, non può che iniziare dalla catastrofe Stellantis: 2.260 addetti in cassa integrazione dal 4 marzo al 20 aprile solo a Mirafiori; “Un segnale devastante” scrive la FIOM su un comunicato. Invece che “Made in Italy, qui siamo al destroy Italy”, a partire dall’indotto: tra le prime ad accusare il colpo c’era stata la Lear di Grugliasco, che alle Maserati e alle 500 di Mirafiori forniva i sedili e che, a dicembre, ha annunciato un anno di proroga di cassa straordinaria per tutti i suoi 410 dipendenti; poi è stato il turno della Delgrosso di Nichelino, ad appena 15 chilometri di distanza, 108 lavoratori che, dal 1951, producevano filtri per tutte le principali case automobilistiche italiane ed europee e che, nel 2009, era stata anche nominata da FIAT “miglior fornitore” e che ora si ritrovano pure senza ammortizzatori sociali. Due mesi di cassa integrazione ordinaria per calo di attività produttiva, invece, è quello che aspetta i 200 lavoratori della Maserati di Modena, mentre a 72 dipendenti su 163 della Tecopress di Ferrara che, dal 1971, produce componenti stampati in alluminio per i motori, è stato concesso un altro anno di cassa straordinaria in deroga. Ma ancora più dell’automotive, in Emilia a preoccupare è il settore delle piastrelle; Meloni e Giorgetti fanno gli spavaldi con numeri farlocchi per cercare di farci dimenticare cosa comporti la fine del superbonus, ma i 6 mila addetti del settore per cui è stata approvata la richiesta di cassa integrazione su 26 mila in totale potrebbero pensarla diversamente. D’altronde, era piuttosto prevedibile: come ricorda sempre Luca Orlandi sul Sole 24 ore, il comparto delle piastrelle nel 2023 ha diminuito la produzione di oltre il 25% anche perché, oltre alla fine del superbonus, c’è anche la crisi della domanda di tutti i mercati più sviluppati, dal -25% della Francia al -30 della Germania, per arrivare agli USA che, nel 2023, hanno registrato 1 milione e 300 mila edifici in costruzione in meno rispetto all’anno precedente e, quindi, di piastrelle italiane non ne hanno più bisogno. E il comparto della ceramica non è manco quello messo peggio: nonostante la retorica sulla transizione ecologica e la mobilità dolce, infatti, un comparto che è sull’orlo del collasso è – inaspettatamente – quello delle bici che, per la prima volta dal 1975, scende sotto la soglia dei 2 milioni di pezzi, 1,3 milioni in meno rispetto ad appena 2 anni fa. Unica cosa a tenere è l’esportazione della gamma più alta “che ad esempio va alla grande in Cina” sottolinea Piero Nigrelli dell’associazione di categoria ANCMA: mica in Francia o negli USA. In tutto, ricorda Orlando, “sono in calo 13 settori su 16”; a fare eccezione sono le armi, che segnano un bel +43%, e poi l’alimentare, ma è una vittoria di Pirro: appena +0,6%. Troppo poco, ad esempio, per salvare la Fiorucci di Santa Palomba, alle porte di Roma, anche se qui c’è una mezza buona notizia: l’azienda, infatti, ha ritirato la procedura di licenziamento collettivo per tutti i suoi 211 lavoratori; si limiterà a chiudere un pezzetto alla volta, dopo aver mandato un po’ di personale in prepensionamento e aver incentivato, con l’80% del salario per un anno, l’uscita volontaria degli altri. Insomma: una vera e propria ecatombe, che però non impedisce a Giancazzo Giorgetti, alla MadreCristiana e a tutti i pennivendoli che gli vanno appresso di sfrucugliarci le gonadi con gli annunci in pompa manga sull’occupazione record. Anzi! Dall’anno scorso, infatti, Eurostat e ISTAT hanno introdotto un trucchettino contabile che prevede venga aggiunto agli occupati anche chi è in cassa integrazione per meno di 3 mesi l’anno e che a gennaio, appunto, erano il 44% in più di un anno prima, e non è l’unico inghippo: il solo calo demografico, infatti, di default, a bocce ferme, fa aumentare la percentuale di occupati di circa 0,3/0,4 punti; e poi, appunto, c’è il fenomeno ormai totalmente fuori controllo del part time involontario, che riguarda circa il 60% dei circa 4,3 milioni di lavoratori complessivi in part time. Risultato, appunto: il numero degli occupati è a livelli record; il numero delle ore lavorate, invece, è inferiore di quasi il 10% rispetto al 2008. Ecco spiegato com’è che le famiglie che sono sotto la soglia assoluta di povertà, nonostante un componente abbia un contratto regolare di lavoro dipendente, sono cresciute in un anno dall’8,3 al 9,1%: “Il lavoro povero, malpagato e con poche ore” sottolinea Valentina Conti su La Repubblichina “si conferma snodo cruciale e irrisolto del problema povertà in Italia”. E tutto questo rischia di essere solo l’antipasto: come ricorda Luca Orlando sul Sole 24 ore, infatti, il drastico calo della produzione industriale è dovuto in particolare al fatto che le aziende hanno i “magazzini saturi”, mentre la domanda è “generalmente debole, sia in Italia che all’estero”; questo significa che l’anno scorso, nonostante ci sia stato comunque un calo della produzione, le aziende sono state fin troppo ottimiste. Insomma: al contrario di noi uccellacci del malaugurio, si sono letti gli editoriali de Il Foglio e si sono fatti trascinare dall’ottimismo dei vari Marco Fortis e non gli è andata esattamente benissimo; fino ad oggi, giustamente, ci siamo concentrati sugli imprenditori che non investono perché si spartiscono i dividendi e li vanno a giocare al casinò delle bolle speculative USA e anche sul pubblico che tira la cinghia perché è tornato il culto mistico dell’austerity. E va tutto bene. Qui però c’è un problemino in più: nonostante sia pubblico che privato non abbiano investito una cippa, quello che hanno prodotto nel 2023 gli è rimasto in magazzino. Non è un nodo da poco: a mancare è proprio la domanda, prima di tutto quella interna, con il doppio dei poveri di 15 anni fa e le famiglie che hanno dato fondo a tutti i risparmi accumulati da nonni e genitori quando l’Italia era una socialdemocrazia. Risultato: nella vendita al dettaglio siamo al ventesimo mese consecutivo di calo dei consumi. E poi anche nel resto del giardino ordinato, a partire, appunto, dal nostro principale mercato – che è la Germania – che, prima, ci ha trasformato in suoi subfornitori e, poi, ha deciso di far chiudere le aziende che fornivamo per far contenti gli americani, che inseguono il sogno della reindustrializzazione e che, magari, possono anche importare un po’ di più dall’Italia, soprattutto in alcune nicchie di mercato che non ritengono strategiche e che ci lasciano, gentilmente, in appalto. Ma è un giochino che non può bastare; il punto è che l’Occidente collettivo nel suo complesso è condannato alla stagnazione e, in questo gioco a somma zero, la domanda sposta il suo baricentro a nostro sfavore: dal vecchio continente, che ci comprava diverse cosine, agli USA, che si limitano a comprarci due cazzate. Col resto del mondo, invece – quello che cresce -, abbiamo scelto di complicarci la vita tra decoupling o derisking; forse qualcuno non ha fatto proprio benissimo i suoi calcoli o, forse, sa che tanto tutte queste pippe stanno a zero e che il nostro padrone ha deciso che, nel futuro, ci dobbiamo solo occupare di costruire obici e cannoni per tenere impegnata la Russia. Di sicuro c’è che ci siamo infilati in un vicolo cieco e che non saranno gli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie a indicarci la strada per uscirne; abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto dalla radice e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Matteo Renzi
P.S.: un nutrito gruppo di ottoliner ha appena dato vita a MULTIPOPOLARE, l’associazione degli amici di Ottolina Tv che vogliono portare i nostri contenuti fuori dalla bolla distopica del mondo digitale e permettere a chi si riconosce nei nostri contenuti e nelle nostre modalità di costruire una vera e propria comunità fatta di persone in carne ed ossa; stanno organizzando iniziative di presentazione e di tesseramento in tutto il territorio. Se siete interessati a dare una mano e a mettervi in contatto, scriveteci a ottolinatv@gmail.com. Il primo evento è previsto per sabato 30 marzo a partire dalle 15 nella sede romana di Risorgimento Socialista, in viale Giotto 17.
In questa puntata di Fardelli d’Italia – da parte di Paese Reale per Ottolina Tv – mettiamo sotto la lente i numeri dell’esecutivo sia sul piano dell’economia e dell’occupazione, sia sul piano fiscale. Infine una breve chiosa sulle ultime regionali e la discussione in corso sul terzo mandato e le tensioni interne alla maggioranza al Governo.
Una giornata storica. Lo scorso venerdì i giudici del tribunale della Corte Internazionale di Giustizia hanno deciso di respingere la richiesta di archiviazione di Israele rispetto all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, hanno riconosciuto la plausibilità che alcuni atti commessi da Israele in questi mesi violino la convenzione ONU sul genocidio e hanno ritenuto che vi sia sufficiente urgenza per ordinare misure provvisorie contro Israele. Contrariamente alle richiese del Sudafrica, purtroppo, non si fa riferimento ad un cessate il fuoco a Gaza, ma viene comunque ordinato a Tel Aviv di “prendere tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio”. Non solo. La presidente della Corte Donoghue ha inoltre fatto richiesta a Tel Aviv di riferire alla Corte entro un mese e ha affermato che dovranno essere adottate misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e l’assistenza umanitaria necessaria ai palestinesi della Striscia.
È impossibile minimizzare la portata politica di questa presa di posizione, che ridà speranza a milioni di palestinesi di vedere finalmente riconosciute e condannate le atroci violenze che il governo israeliano sta compiendo non solo in questi giorni, ma in tutti questi anni, e che ridà dignità ad una Corte sulla carta imparziale ma che, negli scorsi decenni, era sembrata solo l’ennesimo strumento nelle mani delle mire egemoniche occidentali. “A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità” ha dichiarato Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool; “Quello che sta succedendo all’Aja” ha continuato “ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ma oltre al profondo significato simbolico e politico, questa decisione storica potrebbe avere anche delle conseguenze immediate sulla vita dei palestinesi, perché se è vero che il processo vero e proprio comincia soltanto adesso e che per il verdetto finale ci vorranno forse anni, il tribunale – intimando al governo israeliano di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidiari – esercita una pressione politica tale su Tel Aviv che, probabilmente, lo indurrà a cambiare il suo modo di condurre la guerra. Adesso la palla passerà, con ogni probabilità, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e vedremo se gli Stati Uniti perderanno definitivamente la faccia mettendosi di traverso alle decisioni della Corte. In ogni caso, potremo pensare a venerdì 26 gennaio 2024 come a un giorno di parziale vittoria – forse il primo di tanti – nella storia della resistenza e dell’indipendenza nazionale del popolo palestinese. In questa puntata vedremo le reazioni di Israele a questa decisione della Corte, analizzeremo nel dettaglio l’impianto accusatorio del Sudafrica e quello della difesa israeliana e, infine, parleremo anche di un altro filone processuale che potrebbe aprirsi – questa volta alla Corte di Giustizia Penale Internazionale – alla quale Messico e Cile hanno fatto richiesta di indagare sugli esponenti del governo Israeliano per genocidio e crimini contro l’umanità. Il termine genocidio è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin; la sua campagna per il riconoscimento di questo crimine nel diritto internazionale portò all’adozione della Convenzione ONU sul genocidio nel dicembre del 1948. Lo scorso dicembre il Sudafrica ha accusato il governo di Netanyahu di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di aver violato l’articolo 2 di questa convenzione, ossia di avere commesso atti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e, cioè, i palestinesi di Gaza: “Come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell’espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo Stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia”, ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Data l’urgenza e la gravità della situazione, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte, in attesa del processo, di adottare alcune misure cautelari che, come abbiamo visto, ad esclusione dell’immediato cessate il fuoco sono state in gran parte accolte: le reazioni non si sono fatte attendere: il Sudafrica ha esultato parlando di una riaffermazione dello stato di diritto, e persino l’Unione Europea ha chiesto che le misure vengano rispettate. Netanyahu ha invece definito “oltraggioso” il comportamento della Corte e il suo il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha definito, tanto per cambiare, i giudici dell’Aja antisemiti, affermando che le loro decisioni “dimostrano ciò che era noto da tempo: il tribunale non cerca la giustizia ma solo di perseguitare il popolo ebraico”. Non essendoci possibilità di appello, sta allo Stato ebraico decidere se rispettare queste misure; nel caso, però, che non si attenga alla sentenza, spetterà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU decidere se intervenire affinché Israele applichi effettivamente la decisione della Corte: a quel punto, data per scontata l’adesione degli altri membri del Consiglio alle decisioni del tribunale, bisognerà vedere cosa decide di fare Washington. Sì: avete capito bene. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si avvalgono del proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza per proteggere Israele, ma sarebbe comunque la prima volta in assoluto che lo eserciterebbero contro una decisione precedentemente presa dalla Corte Internazionale di Giustizia. Staremo a vedere. Per quanto riguarda il prosieguo del processo, per l’accusa l’elemento più difficile da provare sarà il cosiddetto intento speciale, e cioè l’effettiva volontà di voler distruggere del tutto o in parte i palestinesi di Gaza in quanto tali, ossia in quanto palestinesi e in quanto abitanti di Gaza: “È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente.” ha dichiarato il giurista internazionale Mariniello in un’intervista rilasciata alla testata Altraeconomia. La prova di questa intenzione sarebbero gli omicidi di massa, le gravi lesioni fisiche e mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni persone, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia e l’assedio totale dall’inizio della guerra con la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza come acqua, viveri ed elettricità. Nella memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica vi sono anche le innumerevoli dichiarazioni esplicite dei leader politici e militari israeliani che proverebbero tale intento, come quella di Netanyahu che, all’inizio delle operazioni, ha invocato la citazione biblica di Amalek che, sostanzialmente, significa “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”, o la dichiarazione del ministro della difesa Yoav Gallant che ha dichiarato che a Gaza sono tutti animali umani e che l’esercito israeliano avrebbe agito di conseguenza: “Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti, e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità” afferma Mariniello.
L’impianto difensivo di Israele si basa, invece, su tre punti fondamentali: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato in verità eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. ”Non vi è alcuna base per le affermazioni del Sudafrica contro Israele. Anzi. Non è stata presentata alcuna prova a riguardo, solo l’evidenza di una guerra difensiva” aveva dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz al termine delle arringhe del team di difesa all’Aja, ma questa narrativa – che è anche la narrativa dominante nei media e nei palazzi del potere del nostro paese – secondo la quale Israele si starebbe semplicemente difendendo contro un attacco da parte di un’organizzazione terroristica, oltre che politicamente insensata per chiunque abbia un minimo di buon senso, appare anche giuridicamente molto debole in quanto presuppone di ignorare completamente la storia e il contesto dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi: “Esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa, per uno Stato occupante, non può essere invocata” chiarisce Mariniello; Israele, insomma, per appellarsi all’autodifesa dovrebbe completamente cancellare la propria storia di potenza colonizzatrice – più volte denunciata da decine di Stati e organizzazioni internazionali – e il suo status giuridico di potenza occupante. Dovrebbe, insomma, provare che le 500 pagine scritte da Human Rights Watch e Amnesty International che descrivevano dettagliatamente il sistema di apartheid sui palestinesi e pubblicate due anni prima dell’attacco del 7 ottobre, non esistono, e dovrebbe provare anche che non esistono le decine di risoluzioni ONU che ne hanno condannato, in questi anni, il comportamento a Gaza e in Cisgiordania. Come scrive Francesca Albanese nel suo ultimo libro J’Accuse, anche il processo di deumanizzazione dei palestinesi – supporto retorico e ideologico alla loro eliminazione – non è certo un fatto nuovo, ma va avanti ormai da decenni: “Questa definizione di animali umani” scrive “in realtà, è il prodotto ultimo di un processo di disumanizzazione del quale il popolo palestinese è vittima da tempo. I sostenitori di Israele hanno elaborato narrazioni che ritraggono i palestinesi come una minaccia esistenziale per il popolo ebraico e le rivendicazioni palestinesi per il riconoscimento dei propri diritti individuali e collettivi, sanciti da trattati internazionali universali e da centinaia di specifiche risoluzioni dell’ONU sulla questione israelo – palestinese, come una sfida diretta alla vita stessa di Israele.”; “Come spiegano gli studiosi Neve Gordon e Nicola Perugini” continua Albanese “Israele giustifica l’uso della forza contro i palestinesi, compresi i bambini, presentando l’intero collettivo palestinese come una minaccia intrinsecamente terroristica.” In ogni caso, il Sudafrica ha anche chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che anche in caso di autodifesa è comunque legalmente e moralmente vietato commettere un genocidio. Insomma: la reazione generale degli studiosi di diritto è stata critica verso la performance giuridica degli avvocati israeliani: “Il team israeliano ha mostrato debolezza giuridica” ha detto Mariniello; “si è concentrato su narrazioni politiche perché la posizione giuridica è indifendibile. ”Anche l’altro elemento sottolineato dal team israeliano riguardo le misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: il numero esorbitante di vittime civili, comprese donne e bambini – più di 25 mila in poco più 110 giorni di guerra – smentisce infatti in modo plateale tali dichiarazioni. Nel frattempo, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di una o dell’altra parte: la Germania, ad esempio, che pure dovrebbe essere una dei massimi esperti di genocidio ma che ha, evidentemente, un incredibile fiuto per schierarsi sempre dalla parte sbagliata della storia, ha detto che sosterrà Israele; il Brasile, i paesi della Lega Araba, molti stati sudamericani (ma non solo) si stanno invece schierando con il Sudafrica. L’Italia non appoggerà formalmente Israele; la Francia rimarrà neutrale. Si può dire che i paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord globale a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte? Ma i guai per Israele non sembrano finire qui: Cile e Messico hanno infatti chiesto alla Corte Penale Internazionale, che si occupa invece delle responsabilità penali individuali, di indagare sui crimini commessi dagli esponenti del governo e dell’esercito israeliano in questi mesi di guerra; in una dichiarazione rilasciata il 18 gennaio, Messico e Cile hanno dichiarato che il loro deferimento alla Corte era “dovuto alla crescente preoccupazione per l’ultima escalation di violenza, in particolare contro obiettivi civili, e la presunta continua commissione di crimini sotto la giurisdizione della Corte”. Il deferimento presentato da Cile e Messico fa seguito a quello di Bolivia, Sudafrica, Gibuti e Comore che, a novembre, si erano rivolti alla Corte chiedendo al procuratore capo Karim Khan di indagare sulla commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Palestina: anche prima degli attacchi in corso su Gaza, iniziati il 7 ottobre, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani avevano ripetutamente invitato Khan a rilasciare dichiarazioni preventive “per scoraggiare la commissione di ulteriori crimini” da parte dell’Occupazione; queste richieste, insieme a quelle per accelerare le indagini, sono però state ignorate. Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno queste indagini; quello che è sicuro è che dopo 3 decenni di sostegno incondizionato da parte di tutto l’Occidente collettivo e delle istituzioni internazionali all’apartheid israeliano, qualcosa si è irreversibilmente cominciato ad incrinare e che questo è stato reso possibile dalla determinazione di un paese – e una classe dirigente – che la battaglia contro l’apartheid l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle vincendola già una volta. Il XXI secolo passerà alla storia come il secolo della Grande Decolonizzazione, quando finalmente le masse sterminate del Sud globale misero definitivamente fine al dominio di una piccola minoranza sul resto del mondo attraverso il ricorso sistematico alla violenza; abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte giusta della storia. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Nonostante il nome esotico, è più italiano di me. Ma a vedere i media italiani, non si direbbe. Da 14 giorni infatti Khaled è stato preso in ostaggio e rinchiuso in un carcere da un feroce regime teocratico per ragioni esclusivamente di carattere ideologico e di discriminazione etnica.
In passato, abbiamo visto invocare l’interruzione delle relazioni diplomatiche, se non addirittura l’escalation bellica, per molto, molto meno. Ma a questo giro, niente, silenzio assoluto. Alla Farnesina c’avevano judo, e non c’è traccia di un comunicato ufficiale. Nelle redazioni dei giornali e dei TG invece erano troppo occupati a festeggiare gli incredibili successi della controffensiva Ucraina e il boom economico che stanno attraversando tutte le democrazie avanzate, e ci hanno detto di ripassare il 31 settembre del duemilacredici. Che strano…
Su eventi del genere di solito si buttano a capofitto. Spesso, ancora prima di avere elementi solidi, sopratutto quando il Paese in questione è uno Stato canaglia, messo sotto accusa dalla comunità internazionale. A questo giro, il Paese in questione, numeri alla mano, è di gran lunga il più canaglia di tutti: delle duecentootto risoluzioni di condanna emesse dall’ONU dal 2015 al 2022, la bellezza di centoquaranta riguardano proprio lui. Il doppio di tutto il resto del Mondo messo assieme. Russia inclusa, anche dopo la guerra in ucraina.
No, non è la Corea del Nord di Kim Jong Un e neanche l’Afghanistan dei talebani. È quella che contro ogni minima parvenza di dignità, i media nostrani continuano a definire “l’unica democrazia del medio Oriente”, dove per democrazia evidentemente intendono che applica l’apartheid in modo democratico a tutti gli abitanti non Ebrei dei territori occupati illegalmente, senza fare troppe distinzioni di censo o di orientamenti sessuali. Come la definisce il compagno Roberto Saviano, una “democrazia sotto assedio”, “piena di vita e sopratutto di tolleranza”, “che permette alla comunità gay israeliana e sopratutto araba di poter gestire una vita libera e senza condizionamenti, frustrazioni, repressioni e persecuzioni”.
Ma, evidentemente, non di andare a trovare i tuoi parenti con moglie e figlio di quattro anni a seguito.
31 agosto, valico di Allenby, al confine tra i territori occupati palestinesi della Cisgiordania e la Giordania. Khaled El Qaisi ha appena finito le vacanze che aspettava da anni. Insieme alla moglie e il figlio di quattro anni, dopo tanto tribolare, è finalmente riuscito ad andare a trovare i parenti che si trovano imprigionati nel minuscolo campo profughi di Al-azza, nella periferia di Betlemme, altrimenti noto come campo di Beit Jibrin.
Che culo…
Sono tremila anime costrette a convivere in un’area di appena 0,02 km², meno di tre campi di calcio. Le abitazioni sono fatiscenti. l’acqua potabile dalla rete non funziona, e la fognatura è ingolfata. quando “essere nella merda” non è un modo di dire. Quando i bambini escono dall’insediamento per andare a scuola nel vicino campo di Aida, passano sotto a una bella torretta di controllo delle forze armate israeliane.
“Un’area”, si legge nella scheda dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, “dove si registrano frequenti scontri, ed è comune trovare residui di bombole di gas lacrimogeno e di proiettili nel cortile della scuola”.
L’educazione siberiana, diciamo.
Ma anche quando a scuola non ci vanno e decidono di starsene ammucchiati come sardine a casa loro, le cose non vanno meglio. Sempre secondo l’UNRWA infatti, soltanto nel 2022 il campo è stato teatro di ben nove operazioni delle forze di polizie, che hanno portato all’arresto di 7 persone.
“Durante queste incursioni”, si legge nella scheda, “le forze armate israeliane impiegano regolarmente gas lacrimogini e munizioni di ogni genere”. Ciò nonostante, racconta la moglie, Khaled era contento come un bambino. Sono fatti così i palestinesi: dopo un tentato genocidio e 60 anni di feroce occupazione militare votata a cancellarli dalla faccia della terra come popolo, hanno messo su una bella corazza, e non c’è disagio e sopruso in grado di levargli la gioia di riabbracciarsi.
E allora cosa fa il valoroso occupante democratico? Li separa. Quando Khaled e famiglia arrivano alla frontiera, dopo aver passato i controlli della autorità palestinesi, si ritrova di fronte a quelli israeliani. Allenby funziona così: superarla è una corsa a ostacoli. devi superare tre controlli. I servizi di sicurezza israeliani appaiono subito sospettosi e per una mezz’ora abbondante aprono e chiudono le valigie, controllano e ricontrollano i documenti, parlottano tra loro. Fino a quando una guardia di frontiera si avvicina a Khaled con tono perentorio, gli fa incrociare le braccia dietro la schiena, e lo ammanetta.
Così, de botto, senza senso, davanti al figlio di 4 anni. La moglie, italiana, prova a chiedere spiegazioni ma la rimbalzano, anzi, rincarano. Vogliono sapere qualcosa di più sulle idee politiche del marito.
Khaled infatti è colpevole di un crimine enorme. Non solo è figlio di un palestinese. ma manco se ne vergogna, anzi. Ne fa quasi un vanto, tanto che insieme ad alcuni amici e colleghi ha addirittura fondato il centro di documentazione palestinese, dove invece di far finta che la Palestina non sia mai esistita, si permettono addirittura di diffondere materiale storico di vario genere tutto teso a spargere questa leggenda metropolitana che la Palestina c’avrebbe addirittura una sua storia e tutto il resto. Un vizietto di famiglia. Durante la prima intifada, il padre di Khaled, Kamal, ora scomparso da diversi anni, aveva addirittura provato a convincere gli italiani che in Palestina ci fossero addirittura anche i lavoratori, e anche i sindacati. E aveva addirittura convinto la CGIL a realizzare alcuni progetti di cooperazione con loro. Dopo un po’ di santa inquisizione, i simpatici e democratici servitori dell’ordine israeliano prendono mamma Francesca e figlio Kamal e li spediscono oltre confine in Giordania. Trattenendole mezza roba, quattrini e telefono compreso.
“Quando ho chiesto a due addette israeliane come avrei potuto proseguire il viaggio senza telefono e soldi”, ha raccontato Francesca a Michele Giorgio del manifesto, “mi hanno risposto “questo è un tuo problema”.
E così ecco Francesca alla frontiera della Giordania senza una lira, senza possibilità di comunicare, e con un figlio di quattro anni appresso. Quando uno dice “le mie vacanze sono differenti”.
Come c’ha levato le gambe? Grazie all’elemosina: quaranta dinari regalati così, a caso da delle signore palestinesi che avevano assistito alla vicenda. La solidarità degli oppressi, contro le barbarie degli oppressori. Una dicotomia plateale, che però a sto giro non ha commosso gli ultras manicheisti della lotta del bene contro il male. Da allora Khaled è stato deportato in Israele e ora si trova nella famigerata prigione di massima sicurezza di Shikma, alla periferia di Ashkelon, tristemente nota per la struttura per gli interrogatori gestita dall’agenzia per la sicurezza israeliana, dove sono stati documentati innumerevoli casi di tortura e dove vige un regime di sistematica deprivazione.
Di cosa sia accusato in realtà nessuno lo sa. Ad assisterlo, un avvocato arabo israeliano che si sarebbe limitato a confermare di “non poter rivelare alcun particolare del procedimento in corso per ordine dei giudici”. Sempre che li conosca.
Durante l’ultima udienza infatti, stando a quanto riportato da Michele Giorgio sul manifesto, “El Qaisi e il suo difensore locale non sono potuti comparire insieme, perché impossibilitati per legge a vedersi e comunicare”.
Secondo l’avvocato della famiglia “al giovane ricercatore non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata”.
Oggi, Giovedì 14 Settembre, si dovrebbe tenere una nuova udienza, difficile prevedere come andrà.
Il timore è che, quella che ad oggi è una misura cautelare, possa trasformarsi in uno dei tanti istituti criminali che costituiscono l’ossatura di questo regime di apartheid, e cioè l’incubo della detenzione amministrativa. È una delle tante eredità dello stato di emergenza proclamato nel 1945 durante il mandato britannico in Palestina. Prevede che per motivi di sicurezza chiunque possa essere arrestato e detenuto sostanzialmente a oltranza senza processo. Ma ovviamente per una forza che da oltre cinquant’anni occupa casa altrui con l’uso sistematico della violenza, la sicurezza può significare tutto. Qualunque palestinese, solo per il fatto di esistere, è sostanzialmente una minaccia alla sicurezza di chi fonda il suo sistema sul suo annichilimento. Nel 1951 il Parlamento israeliano votò per una sua abrogazione ma è sempre lì, più in forma che mai. Secondo il rapporto pubblicato in luglio da Francesca Albanese, relatrice speciale delle nazioni unite sui territori palestinesi occupati, dal 1989 a oggi in media è stato utilizzato circa cinquecento volte l’anno. Spesso, anche nei confronti di minori e bambini. Oggi però siamo arrivati oltre quota mille.
Fa parte del new normal dell’occupazione israeliana. Addomesticata l’autorità palestinese, da qualche anno, qualsiasi timido accenno alla ribellione viene represso sul nascere senza tanti tentennamenti. Mentre nel frattempo coloni illegali armati fino ai denti si fanno giustizia da soli con il pieno sostegno delle forze armate israeliane. È quello che si vede chiaramente in questo video pubblicato ieri sull’account twitter di B’tselem
Due cittadini palestinesi vengono fermati e bullizzati senza motivo da civili armati, manco fossimo in una scuola media negli USA, e quando dopo un po’ di polemiche finalmente arrivano le forze di occupazione, gli dicono pure bravi. Da sessant’anni Israele ha il merito di svelarci senza tanti fronzoli, il contenuto reale che sta dietro a termini pomposi come democrazia e società aperta: la divisione del mondo tra chi ha diritti, e chi dovrebbe stare sotto e prenderle affinché i pochi che hanno dei diritti se li possano continuare a permettere.
Che il Governo degli svandipatrioti non faccia sentire la sua voce contro il rapimento criminale di Khaled, tutto sommato, da questo punto di vista, in realtà è anche abbastanza coerente. Per tutti gli altri che schifano l’imperialismo e la ferocia coloniale invece, da oggi c’è una nuova battaglia che non ci possiamo permettere di non combattere.
Vogliamo Khaled El Qaisi libero subito.
Per chiunque ne ha la possibilità, l’appuntamento è per domani venerdì 15 settembre alle 16.00 presso la facoltà di lettere del’Università la Sapienza di Roma insieme alla moglie di Khaled, la madre e il legale della famiglia.
OttolinaTV purtroppo non ci sarà. Ma farà in modo di far sentire la sua vicinanza anche da Fiuggi, dove saremo in primissima fila insieme agli amici di Idee Sottosopra alla loro scuola estiva dal titolo “Interferenze oltre la crisi”.
Ora, di fronte alla storia di khaled in effetti fare la solita questua può sembrare un po’ bruttino
Ma sticazzi
Anche no
Perché l’assenza della storia di Khaled da ogni media grida vendetta.
Quindi oltre a sostenere Khaled e la sua famiglia, anche oggi, come sempre, dobbiamo fare un passetto in avanti nella costruzione finalmente di un vero e proprio media che dia voce a tutti i Khaled, tutti i palestinesi, e tutto il 99%.