2024: Come Evitare la Terza Guerra Mondiale e riprenderci i nostri soldi2024: L’ANNO DELLA SVOLTA
“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e “in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Anche per quest’anno la vecchia riflessione dal carcere del vero padre nobile della patria continuerà ad essere, con ogni probabilità, la descrizione più efficace della complessa e caotica fase di transizione nella quale siamo immersi: dall’Ucraina al Medio Oriente passando per il Sahel e l’Asia Pacifico, e poi ancora per la crisi climatica, l’esplosione del debito, i colli di bottiglia delle supply chain e delle rotte commerciali, l’inesorabile declino dell’Unione Europea – e chi più ne ha più ne metta -, non esiste probabilmente partita di rilevanza globale che si avvii a una risoluzione netta e chiaramente intelligibile. Per dirla con il nostro amico e maestro Pierluigi Fagan, insomma, benvenuti nell’era della complessità dove qualsiasi semplificazione, più che aiutarci a fare un po’ di ordine, rischia inesorabilmente di distorcere la realtà a seconda delle nostre speranze e delle nostre preferenze. Di fronte a un flusso così imponente di eventi e di informazioni difficilmente schematizzabili e molto spesso totalmente contraddittorie, la tentazione potrebbe essere semplicemente quella di limitarsi alla mera contemplazione; tutto sommato, a meno di non essere a libro paga di qualcuno con il portafoglio pieno e un’agenda politica e ideologica precisa, chi te lo fa fare di scervellarti per cercare un ordine dietro tutto quel caos apparente quando, per fare due numeri, ti basterebbe sfruttare sapientemente un po’ di sensazionalismo e di clickbaiting?
D’altronde è comunque sempre meglio che lavorare. Il punto, però, è che se c’è una cosa che la modernità ci ha insegnato è che, come riassumeva magistralmente il buon vecchio Vladimir Il’ič Ul’janov “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario” e visto che il vecchio mondo che muore, pur di non mollare la presa, sembra avere tutte le intenzioni di portarci tutti nella bara con lui, di non avere un autentico movimento rivoluzionario in grado di rovesciare il vecchio ordine come un calzino e di contribuire alla creazione di uno nuovo che garantisca la sopravvivenza della nostra specie, molto banalmente, non ce lo possiamo permettere. Ed ecco allora l’impegno che come Ottolina, nel nostro infinitamente piccolo, ci assumiamo solennemente per questo nuovo anno: continuare a provare a raccontarvi il mondo per quello che è invece che per quello che vorrebbero farvi credere che sia i proprietari dei mezzi di produzione del consenso, senza rinunciare nemmeno per un secondo a scervellarci per cercare di trovare un ordine e una logica dietro il caos apparente, e che sia uno splendido anno di conoscenza e di lotta per tutti, perché ogni vera grande rivoluzione, per quanto tragica, è prima di tutto una grandissima festa.
Il nostro breve giro del mondo in una decina abbondante di crisi, ovviamente, non poteva che partire dalla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, una guerra che, come sottolinea anche l’Economist, Israele ormai ha capito essere destinata a durare a lungo e senza avere idea di quale sarà l’esito; certo era prevedibile, ma tutt’altro che scontato. Anzi: la propaganda suprematista ha impiegato decenni e speso montagne di quattrini in una delle più imponenti macchine lobbystiche del pianeta per diffondere la leggenda metropolitana dell’inarrestabile macchina da guerra sionista. Si sono rivelati per il patetico bulletto di periferia che sono: un’efficiente macchina di morte contro donne e bambini, ma totalmente incapace di ottenere un qualche risultato politico e militare concreto. Il bluff dell’unica democrazia del Medio Oriente e della sua superiorità tecnologica non poteva essere svelato in modo più plateale: una patetica copertura buona giusto per i Saviano e Gramellini di turno, sempre felici di poter dissimulare la natura razzista, coloniale e genocida dell’avamposto dell’imperialismo USA dietro a una bella overdose di propaganda woke fatta su misura per i salotti televisivi di Fabio Fazio, i film di Spielberg e le serie Netflix. Lo sterminio indiscriminato della popolazione civile a Gaza e il sostegno incondizionato da parte del giardino ordinato hanno scosso la coscienza intorpidita anche di una bella fetta dei sostenitori della fuffa propagandistica dell’Occidente collettivo: bimbiminkia analfoliberali che avevano aderito entusiasti alla favola del mondo civile riunito come un sol uomo in difesa dei sacri valori della democrazia in Ucraina contro l’invasione barbarica dell’autoritarismo totalitario che arriva da Oriente, di fronte alla ferocia sfacciata del regime clericofascista di Tel Aviv hanno cominciato a nutrire qualche perplessità sulla missione civilizzatrice di Washington; certo è una contraddizione che ancora non si è risolta, e così continuiamo ad assistere allo spettacolo surreale di centinaia di anime belle che alternano un commento a sostegno della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a uno di condanna della stessa identica alleanza che magicamente, pochi chilometri più a sud, invece che difendere la democrazia difende un genocidio senza che gli venga in mente che le due cose probabilmente non sono molto compatibili.
Ovviamente, sperare che a risolvere la contraddizione sia il Giopizzi o l’Ivan Grieco di turno sarebbe velleitario; il punto però è un altro: l’ordine unipolare imposto dall’impero è così antistorico che giorno dopo giorno, per difenderlo, l’impero è costretto sempre di più a mostrare le sue carte e il bluff è talmente palese che magari Giopizzi e Ivan Grieco ancora non se ne accorgono, ma una fetta sempre più consistente di gente normale sì. L’Occidente collettivo spera di poter reagire semplicemente alzando l’asticella della macchina propagandistica, ma anche quello rischia di essere un trucchetto dalle gambe corte: la realtà parallela reinventata continuamente dai mezzi di produzione del consenso è ormai talmente scollegata dalla vita concreta che le persone normali vedono con i propri occhi che, ormai, l’ideologia del mainstream è diventata buona soltanto per farci i meme. Aumentando continuamente il dosaggio, la pillola blu di Matrix fa sempre meno effetto, tanto più se invece che al golden billion – il miliardo dorato del Nord globale – appartiene al resto della popolazione mondiale che è la stragrande maggioranza, a partire dagli oltre 2 miliardi di musulmani sparsi per il pianeta che, di fronte all’umiliazione inflitta a Israele dalla resistenza palestinese a partire dal 7 ottobre, hanno cominciato a realizzare la vera natura dell’imperialismo USA in Medio Oriente e il ruolo nefasto delle petromonarchie collaborazioniste del Golfo e non solo, e da allora si mobilitano senza sosta per chiedere un cambio di passo.
Ovviamente, per annunciare la fine dell’era del divide et impera fomentato dagli USA in Medio Oriente è decisamente ancora prestino, ma la rivoluzione – avviata con la riapertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia, poi consolidata col ritorno di Assad nella Lega Araba dopo 12 anni di esilio e, infine, amplificata a dismisura con l’operazione diluvio di al aqsa e tutto quello che ne è seguito – sembra ormai essere difficilmente reversibile; una rivoluzione che, come in altri contesti che affronteremo più avanti, mette le vecchie classi dirigenti di fronte a un bivio: continuare imperterriti con il vecchio ordine imperiale fino a che la corda non si spezza o scendere a patti con il nuovo ordine multipolare che, tra mille contraddizioni e mille battute di arresto, sembra comunque avanzare in modo inesorabile? Tradotto con nomi e cognomi per quanto riguarda il Medio Oriente: le petromonarchie continueranno a vedere nell’Iran e nell’asse della resistenza il nemico principale contro il quale chiedere la protezione di Washington e di Tel Aviv o, finalmente, si decideranno a contribuire alla creazione di un nuovo sistema di sicurezza regionale più democratico fondato sulla diplomazia, il compromesso e il dialogo? Ovviamente, la risposta dipenderà in buona parte anche da USA e Israele stessi e non solo dalle loro intenzioni, ma anche dalla possibilità concreta che hanno – o meno – ancora di influenzare la politica dell’area; in soldoni: gli USA sono disposti a rinunciare al ruolo – gelosamente e ferocemente custodito per decenni – di unica vera superpotenza dell’area? E se non sono disposti, hanno ancora gli strumenti per perseguire le loro ambizioni egemoniche?
Per quanto riguarda la volontà, ci sono un paio di considerazioni importanti da fare: l’egemonia USA in Medio Oriente ha rappresentato, per decenni – in particolare a partire dagli anni ‘70 – uno degli aspetti fondamentali della politica imperiale USA per almeno due ragioni; la prima è il ruolo fondamentale che l’asse con i sauditi e i petrodollari hanno ricoperto nell’affermazione del dollaro come moneta di riserva globale dopo la fine del gold standard a inizio anni ‘70. La seconda, anche in ordine temporale, è la dipendenza della Cina dal petrolio del Medio Oriente: sostanzialmente, attraverso l’egemonia nell’area, gli USA si sono garantiti il controllo dei rubinetti del bene fondamentale che permetteva alla Cina di diventare una superpotenza industriale. Entrambi questi fattori, però, nel tempo hanno ridotto la loro centralità strategica: da un lato, infatti, il dominio globale del dollaro oggi ha molto più a che vedere con i flussi finanziari che non con l’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento per il commercio globale del petrolio; dall’altro, la dipendenza della Cina dalle fonti fossili del Medio Oriente, per quanto ancora molto consistente, è in declino, sia perché le fonti di approvvigionamento sono più differenziate – a partire dalla Russia -, sia perché il mix energetico sta cambiando, in particolare a favore di rinnovabili e nucleare. Ovviamente con questo nessuno vuole sostenere che non si tratti più di un nodo cruciale, ma più semplicemente che l’egemonia incontrastata in Medio Oriente, in prospettiva, potrebbe non essere più una linea rossa invalicabile, anche perché le linee rosse invalicabili uno poi, realisticamente, deve anche essere in grado di difenderle – cosa che è sempre meno scontata. Lo spostamento dei rapporti di forza nell’area, infatti, realisticamente potrebbe essere invertito esclusivamente con l’annichilimento dell’Iran: fino a che l’Iran sta in piedi e continua ad essere il punto di riferimento per l’asse della resistenza, ti puoi sfogare a sterminare a caso qualche civile, ma le milizie che risorgono dalla cenere sono destinate ad essere sempre più forti e popolari e annichilire l’Iran potrebbe essere leggermente più complicato del previsto.
Ci siamo soffermati a lungo su questa prima tappa del nostro giro del mondo che ci aspetta nel 2024 perché, tutto sommato, lo schema – al netto delle millemila specificità e complessità che vanno sempre approfondite nello specifico – è tendenzialmente sempre quello; sostanzialmente, infatti, più o meno in ogni teatro è: governare il declino relativo e contribuire alla creazione di un un nuovo ordine cercando di stabilire delle linee rosse ragionevoli e compatibili con le legittime e realistiche aspirazioni delle potenze emergenti, o fissare linee rosse irrealistiche e incompatibili con il corso della storia per poi ritrovarsi a raccattare gigantesche figure di merda o, peggio ancora, ricorrendo a qualche democratico sterminio di massa, se non addirittura al confronto nucleare diretto tra grandi potenze? Ecco: questa è un po’ la lente attraverso la quale dovremmo provare a riportare un po’ di ordine dietro al caos apparente di eventi tra loro distinti, un’operazione complicata ma indispensabile e non solo per fare pulizia di tutta la fuffa suprematista della propaganda, ma anche – contemporaneamente – per evitare ogni avventurismo e ogni velleità. Nell’epoca della caccia al click, infatti, vince chi rilancia sempre più in alto fregandosene delle conseguenze. Non è il nostro obiettivo: da un lato siamo critici nei confronti del pacifismo di maniera e del culto astratto della non violenza che, in un mondo dove prevalgono i rapporti di forza e il ricorso sistematico alla violenza da parte dell’impero, equivale spesso semplicemente a una resa incondizionata; dall’altro, però, questa retorica futurista un po’ in stile guerra sola igiene del mondo che fa breccia nell’antimperialismo confuso è da scansare come la peste e non solo perché, ovviamente, pericolosissima ma anche perché spesso totalmente velleitaria, un’altra sfumatura di “estremismo” che è sempre una malattia infantile e controproducente. Un esempio virtuoso di come si possono faticosamente spostare in avanti gli equilibri senza rinunciare all’esercizio della forza, ma senza avventurismi, ci è stato offerto, ad esempio, dai golpe patriottici nel Sahel; in quel caso, il ricorso alla forza si è fondato su un sostegno popolare massiccio e ha saputo fare leva sulle debolezze dell’Occidente collettivo da un lato, e sul sostegno delle potenze emergenti dall’altro – sia di carattere militare che economico. E così i francesi sono stati costretti alla ritirata e il bluff delle minacce dell’ECOWAS è stato smascherato; ora le giunte militari di Niger, Mali e Burkina Faso si sono consolidate, hanno rafforzato la loro collaborazione e si stanno ritagliando faticosamente, giorno dopo giorno, pezzi di sovranità e di indipendenza e senza che gli USA dovessero rinunciare completamente alla loro influenza: semplicemente, hanno accettato un ridimensionamento dell’egemonia dell’Occidente collettivo nell’area in cambio della difesa dei loro interessi più immediati. Certo la transizione è stata agevolata dal fatto che a rimanere fregati, fondamentalmente, sono stati i francesi, e anche dal fatto che l’area non era esattamente in cima alle priorità USA, ma rimane comunque un esempio potenzialmente virtuoso di come si possa arretrare senza per forza subire una disfatta. I cultori della guerra come igiene del mondo probabilmente saranno rimasti un po’ delusi; in realtà, però, potrebbero essere gli unici: la transizione è stata piuttosto pacifica e senza particolari spargimenti di sangue e la presenza di più potenze potrebbe, in realtà, dare vita a una competizione positiva che permette a questi paesi in cerca di sovranità di non consegnarsi mani e piedi a nessuno, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista della sicurezza.
Non vorrei risultare eccessivamente ottimistico, ma un altro bilanciamento di forze potenzialmente positivo o, perlomeno, molto meno negativo di quanto si potesse prevedere fino a qualche tempo fa potrebbe essere anche quello di Taiwan; anche lì, alla base, c’è stata comunque una dimostrazione di forza: la Cina ha fatto capire, senza tanti giri di parole, che Taiwan è una linea rossa invalicabile, e di avere la capacità concreta di riappropriarsi dell’isola qualora la retorica indipendentista e le forniture di armi USA superassero la soglia di sicurezza. E così, dopo la pagliacciata di Nancy Pelosi nell’agosto del 2022, la situazione è gradualmente rientrata; gli è andata leggermente meglio che agli ucraini, così, a occhio: l’esempio più eclatante di cosa comporti ergersi eroicamente a punta di diamante della difesa dell’impero mentre l’impero è in declino. Nessuno potrà mai risarcire quel popolo martoriato per le sofferenze subite per aver prestato il fianco all’hubris del Nord globale. La speranza è che, perlomeno, serva da esempio; a partire dalle Filippine, dove sembra essersi spostato il baricentro della strategia del contenimento contro la Cina nell’Asia Pacifico dopo Taiwan. In quel caso, però, almeno hanno un’attenuante, come d’altronde ce l’aveva anche l’Ucraina: la vicinanza di un paese troppo ingombrante per non tentare di fare leva su un qualche bilanciamento di potenza per limitarne la proiezione egemonica, anche solo potenziale.
Un’attenuante che invece non ha l’Unione Europea, che si apprestano a confermarsi gli scemi del villaggio globale, anche se non proprio tutti; una minuscola élite economica, infatti, ha trovato il suo bengodi: con la protezione USA, continua a depredare l’intera economia del continente estraendo ricchezza in gran quantità da impiegare nelle bolle speculative USA e, grazie al passaggio attraverso i paradisi fiscali, senza manco pagarci le tasse. Come ricordava ieri il nostro Alessandro Volpi sul suo profilo Facebook, infatti, “secondo gli ultimi dati forniti dalla Paris School of Economics gli italiani più ricchi hanno trasferito nei paradisi fiscali 196,5 miliardi”, ma non solo: sempre Volpi ci ricorda anche come nel 2024 “dopo lunghe trattative internazionali, è finalmente entrata in vigore la Global Minimum Tax, che prevede un’aliquota del 15% sugli utili delle società con fatturato superiore a 750 milioni. Il gettito stimato” continua Volpi “è di 220 miliardi di dollari, che però, per come è costruita l’imposta, finiranno quasi esclusivamente negli Stati Uniti”. Il gettito nel 2025 per l’Italia, invece, sarà di appena 380 milioni.
Nel mondo che cambia, tutti si scervellano per capire come trarre il meglio dai nuovi equilibri tra potenze; noi ci facciamo derubare decine di miliardi ogni anno da una manica di parassiti e ci scanniamo per decidere se è meglio votare Giorgia Meloni o Elly Schlein. Che questo 2024 ci restituisca la capacità di leggere quello che ci succede attorno e la capacità di riappropriarci degli strumenti per rivoltare tutto come un calzino, a partire da un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Elly Schlein