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Tag: intifada

Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

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E chi non aderisce è Lucia Annunziata.

La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

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E chi non aderisce è Maurizio Belpietro.