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Interviste Ottoline, Pino Arlacchi: declino USA, nuovo ordine multipolare e il suicidio dell’Europa

La qualità umana e intellettuale del personale politico del partito unico della guerra e degli affari che da almeno tre decenni nell’Occidente collettivo porta avanti l’agenda della controrivoluzione neoliberista guidata da Washington è di una mediocrità disarmante. E le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Mozzata. Tra queste, un posto d’onore spetta senza nessun dubbio a Giuseppe Arlacchi, meglio noto come Pino: un rarissimo esempio di civil servant senza macchia, in grado nell’arco di oltre quarant’anni di rappresentare fin nel cuore delle massime istituzioni dell’ordine liberale in declino il punto di vista del 99%. Non dovrebbe sorprendere: Arlacchi infatti è il degno erede del migliore dei maestri, il nostro caro e intramontabile Giovanni Arrighi. Fu infatti proprio Arrighi a volerlo al suo fianco appena ventiseienne all’Università della Calabria, da dove insieme lanciarono una delle esperienze più entusiasmanti di indagine sociologica a tutto tondo della storia dell’accademia italiana. È la ricerca che nel 1980 portò alla pubblicazione di “Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo”. Un testo monumentale che riuscì a portare le lande desolate del meridione più arretrato all’attenzione della grande accademia internazionale, a partire dal leggendario Eric Hobsbawm, che ne promosse la traduzione presso la prestigiosa Cambridge University Press. Non era una divagazione esotica. Sulla falsa riga dell’insegnamento di Arrighi, piuttosto, era il risultato di un approccio sistemico al capitalismo che superava la vulgata propagandistica secondo la quale la persistenza di aree arretrate sarebbe da attribuire appunto all’incompleto sviluppo capitalistico, ma al contrario, vedeva nel rapporto dialettico tra capitalismo avanzato e sottosviluppo il motore stesso del capitalismo reale Un approccio che Arlacchi avrebbe continuato a sviluppare in mille direzioni diverse negli oltre 40 anni successivi, mettendolo sempre nella condizione di svelare la falsità congenita della narrazione liberaloide e suprematista. È per questo che quando ho incrociato Pino pochi giorni fa a Samarcanda, mi è subito sembrato il luogo più naturale dove incontrarlo. Si stava svolgendo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona. Un raro tentativo da parte dell’Italia migliore di continuare a tessere reti e relazioni con il nuovo mondo che avanza, mentre il resto del paese marcia deciso a suon di suprematismo misto a subordinazione verso l’autodistruzione. La chiacchierata che ne è scaturita, è probabilmente la migliore intervista che come Ottolina abbiamo mai portato a casa e che abbiamo ritagliato in fretta e furia per tenervi compagnia oggi.
Un’intervista dove Arlacchi ripercorre con una lucidità disarmante gli snodi cruciali del percorso analitico che come OttolinaTV proviamo a portare avanti da sempre: dal declino dell’impero militare USA, alle contraddizioni dell’impero finanziario fondato sugli interessi egoistici di una ristretta oligarchia totalitaria per passare all’ascesa di un nuovo ordine multipolare fondato sugli interessi comuni di stati sovrani che hanno adottato sistemi economici di carattere sviluppista e finire con il suicidio volontario degli alleati/vassalli degli USA. Buona visione.

Pino Arlacchi: “Il sistema americano è basato su due grandi gambe il militarismo e la finanza. Il militare si è rivelato un clamoroso fallimento. Hanno perso quasi tutte le guerre che hanno fatto negli ultimi quarant’anni, quindi non fanno più paura a nessuno. Queste cifre sul complesso militare industriale si fanno paura in termini che chiunque pensa a che cosa si potrebbe fare in alternativa con quelle cifre. Ma poi sul piano militare, dove? Che hanno vinto è anche politico, militare. È stato un fallimento totale. Dal Vietnam in poi, in Iraq hanno fatto una guerra contro Saddam Hussein. Perderemmo armi di distruzione di massa che non aveva. E per installare un governo filo iraniano in Afghanistan ci sono i talebani più forti di vent’anni fa in Siria, hanno scatenato una guerra civile contro Assad e Assad è più forte di prima.

In Libia hanno mandato in totale rovina un Paese con la complicità degli europei, dall’altra Libia, un Paese che all’Italia importa molto. E ora c’è un po di stabilità in Libia, ma il Paese è distrutto e tutti si chiedono per quale ragione hanno buttato giù Gheddafi. Quindi il potere finanziario resta la loro principale risorsa. Loro controllano i mercati finanziari in un modo eccezionale, ma dobbiamo tener conto che nel mondo grande c’è già una potenza non finanziaria, ma una potenza dell’economia reale, una potenza industriale commerciale alternativa agli Stati Uniti, più forte degli Stati Uniti in termini di potere di acquisto che è la Cina. E io direi, oltre che la Cina, l’intera Asia, l’intero Estremo Oriente è più o meno il modello economico e la Cina non è un’eccezione. Il cosiddetto Developmental state, cioè uno Stato che è il regista dei mercati e il regista dell’economia, che stabilisce le direzioni dell’economia, che fa gli investimenti che le singole imprese non possono fare e che usa i risparmi della popolazione per finanziare lo sviluppo. Questo sistema è sempre più forte dal punto di vista economico. E quindi il problema di come mantenere questo dominio sul mondo anche sul piano finanziario è il principale problema che loro hanno. Perché molta di questa ricchezza va a finire. Indebitamento: c’è un limite alla quantità di dollari che si possono stampare? È solo questione di tempo, perché il simbolo del loro potere, e cioè il dollaro, comincia a scricchiolare. Tutti dicono sì, però il dollaro, chissà quanti decenni ancora può durare, è sempre la moneta e la valuta di riferimento di tutti gli scambi e così via. È vero. Il dubbio può durare ancora un po’. Però quando la sterlina, che era il predecessore del dollaro come moneta di riferimento, ha cominciato a declinare con l’Impero Inglese la sostituzione dalla sterlina al dollaro è stata rapidissima, non più neanche dieci anni. Ora i cinesi non vogliono fare questo. La strategia dei cinesi non è quella di sostituire il renminbi al dollaro. Lo hanno detto in cento modi: se lo avessero voluto l’avrebbero fatto perché bastava farsi pagare tutte le loro importazioni, esportazioni in renminbi e il gioco era fatto. Non lo fanno perché non hanno intenzione di fare questo, in quanto impelagarsi adesso nel sistema finanziario internazionale che è governato da Wall Street e degli americani per loro significa autodistruggersi. Loro preferiscono un sistema a più voci, più valute. La Banca Centrale Cinese ha fatto una proposta già dieci anni fa cinque valute con un paniere di valute che sostituisce il dollaro, in cui c’è anche la loro valuta. La posizione, la loro diffidenza nei confronti della finanza è totale. La chiusura del mercato finanziario cinese alla finanza internazionale fa parte di una strategia precisa la finanza in Cina deve essere mantenuta al servizio dell’economia e non viceversa. Mentre negli Stati Uniti e in Europa è la finanza a governare l’economia, perfino le grandi imprese industriali si sono finanziarizzazione. Una fabbrica di automobili, la Fiat, i guadagni non li fa sulle automobili, li fa sui prestiti. È una finanziaria che ha stravolto le cose, non porta sviluppo, non porta occupazione, non porta crescita delle risorse neanche tecnologiche. Perché sono soldi che si accumulano sui soldi senza in realtà avere nessun effetto reale, mentre sono tassi di profitto molto alti perché dominano il sistema finanziario. Profitti del 10/20% sono la norma del sistema industriale di grandi imprese. Così vi è un profitto del 2% o del 3% è già una grande cosa. E chiaro che con queste differenze nei tassi di profitto, tutta l’attenzione dei mercati e degli investitori si sposta dal lato finanziario, ma è già avvenuto della storia del mondo.
Questa è la quinta fase di sostituzione ai vertici dell’Occidente, della potenza dominante. Ed è nata sempre così, dice Braudel, che quando c’è la fine del dominio della finanza è il segno che l’autunno è arrivato. L’Olanda è partita come una potenza manifatturiera commerciale e poi è diventata una potenza finanziaria per poi cedere il passo all’Inghilterra, che è partita con l’officina del mondo nell’800 e si è poi trasformata in un centro finanziario mondiale. Agli Stati Uniti sta accadendo la stessa cosa. Partiti come potenza industriale fino grossomodo agli anni ’70, finché non è partita l’ondata neoliberista e neo finanziaria, gli Stati Uniti stanno percorrendo lo stesso percorso. Ora c’è la Cina che parte da sé, che segue questa progressione storica. Per inciso, comunque, siamo stati noi italiani i primi. Tra iI ‘300 e iI ‘500, le città-stato italiane erano così. Erano le potenze commerciali trasformatisi poi con la Firenze dei Medici e con la Genova dei finanzieri, i genovesi di potenza finanziaria. Abbiamo iniziato noi questo ciclo che che a quanto pare è ferreo. Siccome c’è una dimensione spaziale in questo ciclo, non è detto che con il dominio globale del pianeta degli Stati Uniti questa ascesa della Cina segua il modello americano. Il più grande errore che si può fare quando si affronta il problema della Cina è di pensare che loro seguano il modello americano. Sono in un certo senso l’opposto. Non è vero e quindi non è affatto detto che ci sarà un mondo a guida cinese. È molto più probabile già nei fatti. Un mondo multipolare in cui la Cina è uno dei grandi player di un mondo diventato più giusto e più e più democratico.”

Marrucci: “E con questo torniamo un po’ all’inizio del discorso. Quindi non è soltanto la corsa a sostituire il vecchio egemone con un nuovo egemone, ma è anche la possibilità, per lo meno lo spiraglio che si apre di un ordine più democratico. Insomma, dove non ci sia un unico egemone. E però, appunto, quello che dicevamo all’inizio, questo percorso qua che appunto noi dipinge noi per primi, come Ottolina dipinge sempre come una grande speranza, una cosa da sostenere in tutti i modi. Poi si arriva che scoppiano tre guerre. Per ora siamo a due.”

Arlacchi: “Un paradosso, ma la storia va avanti anche quando va avanti con paradossi. Quindi gli Stati Uniti sanno di declinare. Sanno che sono nel declino: quello che cercano di fare è di rallentare questo declino. Il problema è che un declino cruento o no, perché la tentazione dell’élite americana di usare lo strumento militare è molto grande. L’altro strumento che è costretto a finanziare con le sanzioni lo stanno usando abusando al massimo. E anche lì sono arrivati praticamente al limite. Ma il punto interrogativo è lo strumento militare, in questo caso un’élite davvero alla frutta può anche tentare di usarlo in modo ancora più forte che in passato, anche se appena ho detto prima che hanno sempre perso militarmente. Ma ora sono convinti di no e ripetono sempre la stessa politica, la stessa strategia fallimentare e a meno che non si affermi negli Stati Uniti una linea di politica estera più pacifica, più loro la chiamano isolazionista, isolazionisti che vivono in Trump. Pensano che i guai dell’America sono cominciati ogni volta che ha cercato di andare fuori in cerca di nemici. E che l’America dovrebbe concentrarsi sulla sua grande forza di una potenza continentale e non immischiarsi in guerre e in alleanze militari esterne. Perché la politica americana dalla seconda guerra mondiale in poi è stata quella di creare alleanze militari con la Nato. Ma ci sono anche altre che obbligano i contraenti del contratto a sostenersi l’un l’altro nel caso di attacco. Questo significa che nel caso della Georgia, quando la Georgia attaccò la Russia, questo significa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire a difesa della Georgia per perdere contro la Russia, rischiando la guerra nucleare. Quindi la politica cinese non è questa. Loro non fanno alleanze militari? Assolutamente no. Fanno una forte alleanza di fatto con la Russia che loro non vogliono trasformare in un’alleanza militare. Proprio per questa ragione, per mantenere una flessibilità dei rapporti in un mondo multipolare che giova a tutti, consente nei Brics di avere posizioni molto diverse. l’India Posizioni diverse dalla Cina sono anzi dei competitori piuttosto accesi del continente, ma non vuol dire che ci sia una guerra all’interno. Significa soltanto che c’è una articolazione di rapporti, che significa che ogni Paese va per la sua strada. E non è affatto detto che qualunque scontro conflitto debba trasformarsi in una guerra. Anche perché nei Brics il sistema economico è lo stesso. Se guardiamo la struttura economica: Cina, India, Russia, Sudafrica e Brasile condividono lo stesso sistema.
C’è uno Stato che dirige, che pianifica, che governa l’economia e la porta a crescere in maniera straordinaria.”

Marrucci: “E questo certo è perché il problema è che il capitalismo finanziario usato, non l’obiettivo, non è la crescita. L’obiettivo è la.”

Arlacchi: “Concentrazione della ricchezza nel famoso 1% esatto. Questo è un fattore di instabilità, è un fattore di disagio sociale immenso che penso proprio che comincerà a manifestarsi presto.”

Marrucci: “Infatti poi c’è il punto dell’instabilità. Appunto parlavi di spinte negli Stati Uniti, a cambiare in qualche modo paradigma. Ma è una cosa fattibile. Cioè esistono rapporti di forza concreti dentro la società, per cui quella in cui si trova gli Stati Uniti non sono un vicolo cieco e hanno una possibilità di uscita più o meno turbolenta quanto ti pare, però comunque pacifico.”

Arlacchi: “Dipende da quanto si approfondirà la crisi. Fino a che punto arriverà la crisi, Quindi può succedere di tutto perché loro stanno camminando molto velocemente lungo la china. Sono nella fase terminale del loro dominio. Quindi tutto dipende da quanto la velocità di questa e questa discesa.”

Marrucci: “E per quello l’ultima cosa per quello che riguarda noi alleati che più che alleati ormai mi sembra si possa dire vassalli contro i propri interessi con una pura agenda imposta da fuori. Qual è la nostra soglia di sopportazione e perché è così alta?”

Arlacchi: “Bella domanda questa. Noi avevamo l’Europa e l’Europa, era l’idea di fondo per la creazione di un nuovo Occidente non americano. Questa idea ha avuto una grande popolarità negli anni 70 e 80 e poi è stata messa da parte. Noi abbiamo creato l’euro per questa ragione l’euro, con tutti i disastri che ha fatto per la popolazione dei paesi dell’Europa del Sud, essendo nient’altro che un marchio svalutato, però era stato creato proprio per essere un’alternativa al dollaro.Per un po ha funzionato finché è arrivato ad avere il 30% degli scambi internazionali. Poi però gli americani hanno tirato il freno a mano, tirato il freno e hanno detto agli europei Guardate che sei d’accordo, ma non vuoi. Dovevate essere complementari al dollaro, non alternativi al dollaro.E poi l’intera architettura dell’Unione europea. Io sono stato in Parlamento europeo e so di che cosa parlo. Non può funzionare, non può funzionare perché le sue basi sono un tentativo di creare gli Stati Uniti d’Europa. Questa è l’idea l’Europa che diventa un sistema federale, un governo federale come gli Stati Uniti. Questa idea non funziona, non può funzionare. Uno. Non siamo più nei tempi delle grandi federazioni. Due l’Europa è fatta di Stati che hanno, ma lavoro possono benissimo condividere spazi comuni, coordinarsi e così via, senza avere bisogno di un governo comune. Tanto è vero che gran parte delle politiche europee nei diversi Paesi sono le stesse. Non c’è bisogno di creare questo potere sovranazionale, questa burocrazia che poi può compiere degli errori terribili che è condizionabile molto di più che i governi dei singoli Paesi. Quindi proprio bisogna ripensare le basi del discorso dell’Europa. “

Marrucci: “Cioè, paradossalmente, per ritrovare un pochino di autonomia strategica europea bisognerebbe investire sulla sovranità degli Stati che non su una struttura sovranazionale.”

Arlacchi: “Noi abbiamo creato istituzioni assurde dal punto di vista europeo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’esempio più scandaloso. Le sentenze di questa Corte non valgono la carta su cui sono scritte paesi europei hanno un sistema di garanzie dei diritti dei cittadini molto forte, che sono i più avanzati del mondo. Che bisogno c’era di creare che l’ha creata? Soros? È stato Soros che ha creato questa istituzione che è paradossale il 40% dei suoi membri non ha soldi, non sono giudici, non sono neanche avvocati. Sono ex attivisti di Soros che sono stati presentati dai vari paesi dell’Europa orientale dove lui è forte e sono arrivati alla Corte che fa delle sentenze abnormi molto spesso contro l’Italia.

Sempre contro la Russia e contro i più deboli del sistema. Quindi il vantaggio qual è stato? Nel mondo contiamo molto di meno di quanto contavano i singoli Stati europei. Questo ha detto Prodi interessa i singoli europei. Nel mentre il Medio Oriente sullo Scacchiere contavano quel poco che contavano molto di più 20 o 30 anni fa. E quanto contano adesso? Quindi nessun risultato politico, nessun risultato economico.”
Questa intervista è il primo di una serie di contenuti che vi proporremo nei prossimi giorni a partire dal lavoro che abbiamo svolto durante il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che si è tenuto a Samarcanda gli scorsi 2 e 3 Novembre. È stata in assoluto la prima trasferta di OttolinaTV. Siamo convinti sia stata una scelta azzeccata e che speriamo soddisfi anche le vostre aspettative su quale dovrebbe essere il lavoro che deve svolgere un media che si propone di dare voce al 99% in questa complicata fase di transizione dell’ordine globale dall’unipolarismo USA al fantomatico nuovo ordine multipolare. Il forum infatti non era un meeting di forze antimperialiste. Il focus non era il multipolarismo per come vorremmo che fosse. Era il multipolarismo per come sarà, anzi, per come in buona parte già è a prescindere dalla nostra volontà. È il nuovo mondo che avanza, con tutte le sue opportunità, ma anche con tutte le sue contraddizioni. Per osservarlo e provare a capirlo, la vecchia propaganda suprematista dell’occidente collettivo serve a poco.
Serve un vero e proprio nuovo media, in grado di dare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)
E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari.

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

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E chi non aderisce è Lucia Annunziata.

Risveglio geopolitico europeo

Siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione?

Il risveglio geopolitico dell’Europa: così l’aveva definito Josep Borrell subito dopo il deflagrare del conflitto Russo-Ucraino. Lo aspettavamo da tempo: sembrava arrivata l’ora per le sempre più deboli e irrilevanti nazioni europee di invertire finalmente questo declino e tornare ad essere protagoniste sul palcoscenico globale. Negli ultimi decenni infatti, rinunciando completamente a ogni forma di pensiero strategico, cullandosi in un torpore museale da fine della storia e puntando tutto su un’ inedita politica di “potenza dell’impotenza”, gli Stati europei hanno sistematicamente avvantaggiato i loro rivali strategici.

Purtroppo, però, a quasi due anni dallo scoppio della guerra, abbiamo avuto la conferma che le attuali classi dirigenti nazionali e comunitarie non sono in grado di attuare questo risveglio. A partire proprio dai più ferventi europeisti, che si vagheggiano sognanti di Stati Uniti d’Europa, ma alla prova dei fatti non fanno altro che rendere ogni giorno sempre più irreversibile la nostra sottomissione agli Stati Uniti d’America e alle loro oligarchi finanziarie. Ed ecco così che oltre all’irrilevanza sul palcoscenico internazionale, si accompagna inevitabilmente anche il declino delle condizioni di vita interne, a partire dell’impoverimento costante dalle classi medie-basse e dalla distruzione degli strumenti di Welfare conquistati nel 900.

Esiste un modo per invertire questa deriva?

Ai suoi albori, la costruzione europea era stata pensata come un processo di pacificazione tra Stati storicamente in guerra che avrebbe generato una dinamica virtuosa e una vocazione universale alla pace. Impegnandosi sulla via dell’unificazione e di una pace duratura, la pax europea sarebbe stata la premessa per la pax universalisGli stati europei, invasi e occupati durante la seconda guerra mondiale, appaltarono la propria sicurezza strategica agli Stati Uniti, abbandonarono apparentemente ogni retorica imperialista e svilupparono una mentalità prevalentemente economicista. Tuttavia, il nobile afflato alla pax-universalis, assolutamente fisiologico dopo due guerre mondiali, poggiava su alcuni difetti strutturali e molte ingenue illusioni.
In primis, sebbene l’europa effettivamente abbia evitato conflitti fratricidi per qualche decennio, nel resto del mondo gli Stati hanno continuato a farsi la guerra, e a ragionare in termini di potenza e sfere di influenza. Inoltre, lo straniero che occupa gentilmente il nostro suolo con centinaia di basi militari e testate nucleari ha continuato e continua a ragionare in termini imperialistici, e non ha affatto abbandonato il linguaggio delle armi.
La storia insomma è andata avanti e oggi, dopo un periodo di relativa calma dopo la guerra fredda, ci ritroviamo in una situazione di collasso delle economie nazionali, di smantellamento dello stato sociale a causa di attacchi ai debiti nazionali da parte delle speculazioni finanziare, e in un mondo sempre più conflittuale, dove numerosi Stati si stanno riorganizzando per mettere in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare. Le istituzioni che rappresentano il diritto internazionale, vero capolavoro dello spirito politico filosofico europeo, stanno perdendo di efficacia, delegittimate dall’uso strumentale che ne è stato fatto in questi anni. Infine, negli ultimi trent’anni i pacifici stati europei hanno condotto o appoggiato guerre per la democrazia e bombardamenti umanitari nei Balcani, in Africa, in Medioriente e adesso anche in Europa orientale.

Spiace dirlo, ma spacciarci come i buoni e sofisticati europei che hanno capito che la pace è meglio della guerra, diventa sempre più difficile. Agli occhi del resto del mondo, in reltà non siamo altro che le ipocrite stampelle militari di un impero armato fino ai denti e con mire egemoniche. L’idea un’Europa priva di potenza e quindi potere decisionale si è quindi rivelata sbagliata e dannosa, e da questo fallimento deriva oggi l’esigenza di ripensare il fine dell’unificazione europea ai tempi del ritorno della “geopolitica”, capire che nuova forma possa assumere, e sulla base di quali principi. Questioni complesse ma di vitale importanza, che purtroppo avendo interiorizzato la mentalità dei servi che sperano solo nel prossimo pasto caldo, continuiamo a far finta che non ci riguardino. Una bella eccezione in questo senso è l’articolo La transizione geopolitica europea di Florian Louis, professore di storia alla Scuola di Alt studi di Scienze sociali di Parigi, pubblicato su Le grand Continent. Secondo Louis, sovranità strategica e cosmopolitismo in realtà possono coincidere, e pur tornando a pensare in maniera geopolitica gli europei non dovrebbero rinunciare al loro ethos pacifista e cosmopolita. Il rischio infatti è che l’aggravarsi delle fratture geopolitiche che contrappongono le grandi potenze ci conducano a un ripiego egoistico su noi stessi, impedendoci di operare di concerto su vitali interessi comuni come le migrazioni o il contrasto al cambiamento climatico.

“Per molti anni” si legge nell’articolo “l’errore degli Europei è stato pensare che il paradigma cosmopolita di cui essi stessi si reputavano l’incarnazione su scala regionale, avesse reso obsoleto il paradigma geopolitico. Se oggi hanno capito che non era così e che dovevano dotarsi dei mezzi per agire geopoliticamente in un mondo la cui evoluzione non si conformava alla loro visione irenica, ciò non deve spingerli a rinunciare all’esperienza cosmopolita acquisita, che è più che mai necessaria non solo all’Europa ma al mondo. In questo modo la transizione geopolitica Eruopea non sarà una rinuncia a ciò che siamo, ma un lucido superamento delle nostre debolezze al servizio della diffusione della nostra forza”.

Per quanto condivisibile, però, la proposta di Louis rischia di rivelarsi irrealizzabile, a meno che non vengano prima definite due questioni essenziali. Primo: che cosa si intende con Europa? quali nazioni comprende? E poi: siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione?
Ma il vero elefante nella stanza, in realtà, è ancora un altro: i rapporti con gli Usa. Teoricamente la lotta per l’indipendenza dagli Stati Uniti dovrebbe appassionare e metter d’accordo sia sovranisti che europeisti. I nord americani rappresentano infatti il principale ostacolo tanto per la riconquista della sovranità democratica delle singole nazioni europee, quanto per un’ipotetica Federazione, i tanto agognati Stati Uniti d’Europa, che potrebbero determinare la fine del dominio USA sul nostro continente.

A questo proposito, prendiamo atto con sconcerto che i più ferventi europeisti che parlano di questa utopica Federazione europea a 27 o più membri, sono solitamente anche i più convinti filoamericani. Alcuni sono evidentemente in malafede, altri invece cercano in tutti modi di autoconvincersi che questo è il migliore dei mondi possibili e che gli interessi dei nordamericani coincidano magicamente con i nostri.

Emblematiche in questo senso sono sempre le analisi della nostra amatissima Nathalie Tocci, la stratega preferita dalla propaganda filo-imperiale, che in un articolo pubblicato su La Stampa dal titolo Perché ci serve il gendarme Usa, arriva a scrivere: “Noi europei abbiamo vissuto nell’illusione di una pace perpetua. Ora siamo costretti a svegliarci di scatto e ci ritroviamo impreparati. La verità è che senza gli Stati Uniti, oggi l’Europa non sarebbe in grado di difendersi. […] Oggi che ci siamo svegliati non possiamo non ritenerci fortunati di far parte di un’Alleanza disposta a proteggerci.”

Il disegno dei padri fondatori europei era quello di un Europa democratica e sovrana capace di competere alla pari con le superpotenze del futuro e di trasmettere ideali di pace e cooperazione. Ma questa seconda giusta aspirazione non potrà mai essere raggiunta se non verrà prima riconquistata l’indipendenza e non verrò ridato un significato sostanziale alla parola democrazia. I giornali in questi giorni sono alle prese con il libro del generale Vannacci e gli Spot dell’Esselunga. Se anche tu vuoi fare la tua parte nel risvegliare dall’anestesia l’opinione pubblica italiana, supportaci nella costruzione di un media libero e indipendente:

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E chi non aderisce, è Nathalie Tocci

L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Auto elettrica: come l’Europa vuole fregare i quattrini dei consumatori per regalarli agli oligarchi

I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesi supereconomiche che  avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”

Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.

L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.

Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.

E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro

Non è questione soltanto di marchi cinesi.

Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?

Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.

Non fa una piega.

Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.

È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.

Più amore per la concorrenza di così…

Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.

Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente  suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.

Brava Ursula, era l’ora!

Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.

Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.

Un mondo immaginario.

Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.

Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?

No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?

No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?

Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.

Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?

Ma dei cinesi ovviamente!

Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.

Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.

Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.

Quello che conta è la narrazione.

Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.

Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.

L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?

Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNO sui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.

Mettiamole in fila.

Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.

Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.

A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”

T’è capi’?

Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.

Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.

Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.

Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Ursula von der Leyen