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Tag: deutsche bank

Italia, Germania e Giappone: quale delle 3 Colonie USA FALLIRÀ PER PRIMA?

Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.

Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”.
Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%.
Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri.
In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA.
Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire?
Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.
Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”.
Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:

rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”.
Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.

Olaf Scholz

Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo.
Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

IL SUICIDIO DELLA GERMANIA – Come 20 anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali

C’era una volta la Germania: patria della filosofia classica e del socialismo scientifico, la leggenda narra che nonostante le dimensioni tutto sommato ridotte, il peso demografico limitato e la relativa scarsezza di risorse naturali, fosse un paese così cazzuto che, per impedirgli di conquistare il resto del mondo, tutti gli altri si sono ritrovati costretti a mettere da parte le differenze e a coalizzarsi, due volte, e senza mai risolvere davvero il problema. Il trucco magico? Si chiama stato sviluppista: consiste nel fatto che lo stato interviene a gamba tesa per tenere a freno le tendenze naturali di quello che gli analfoliberali chiamano libero mercato – ma che non ha niente a che fare con il mercato – e l’unica forma di libertà che conosce è la libertà del più forte di appropriarsi del grosso della torta con ogni mezzo necessario. Questo fantomatico libero mercato ha l’innata capacità di rendere la società sempre più iniqua e disumana ma, allo stesso tempo, anche totalmente disfunzionale; ecco perché, narra la leggenda, non aveva mai conquistato il cuore dei tedeschi che, in quanto a ferocia, non avevano certo da invidiare nessuno ma almeno – pare – non si facevano infinocchiare dalle superstizioni strampalate che andavano così diffuse nel mondo anglosassone.
Lo stato sviluppista si fonda su un’idea piuttosto semplice, e cioè che lo stato è lo strumento più adatto per creare le precondizioni affinché l’economia sia davvero produttiva; si occupa di costruire tutte le infrastrutture necessarie, sia materiali che anche immateriali, a partire dall’istruzione di massa e la diffusione di tutte le competenze necessarie. Lo stato sviluppista, inoltre, si occupa di fornire alla popolazione quei servizi di base necessari per la riproduzione – a partire dalla salute -, ma anche tutti quei servizi di cura che altrimenti ricadrebbero sulla popolazione femminile che, quindi, non sarebbe nelle condizioni di contribuire in modo produttivo all’economia; pianificando e socializzando tutte queste attività, lo stato sviluppista ne riduce al massimo i costi complessivi e permette di concentrare il grosso della ricchezza prodotta negli investimenti produttivi e, quindi, nella crescita e nello sviluppo. E così, nel medio/lungo periodo, i paesi che si fondano su uno stato sviluppista diventano – necessariamente – economicamente molto più performanti di quelli dove prevale la superstizione arcaica del libero mercato e dove quei servizi sono forniti da delle oligarchie parassitarie che ci fanno la cresta sopra appropriandosi così, in modo predatorio, di un pezzo consistente della ricchezza prodotta dalla società; e l’efficacia tra questi due diversi sistemi è così macroscopica che anche se radi al suolo lo stato sviluppista per due volte, ecco che quello, nell’arco di qualche decennio, rialza la testa ed è di nuovo pronto ad asfaltarti. Fino a quando, un bel giorno, uno strano morbo non è riuscito a ottenere definitivamente quello che due guerre mondiali erano soltanto riuscite a rimandare temporaneamente: quel morbo si chiamava neoliberismo; un morbo devastante in grado di fare tabula rasa di ogni capacità di creare benessere e ricchezza per le popolazioni e che si diffondeva a macchia d’olio per tramite di un orribile insettino infestante chiamato finanziarizzazione. E questa, allora, è la storia di come vent’anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali.

Seymour Hersch

La disfatta totale dell’Occidente collettivo in Ucraina è anche la storia di uno dei più incredibili misteri dell’era moderna; fino ad allora, infatti – che io ricordi – non era mai successo che un governo venisse messo in ginocchio da un attacco militare devastante e, invece di incazzarsi, ringraziasse pure: eppure è esattamente quello che è successo con la vicenda del Nord stream. Come ci ha raccontato il buon vecchio Seymour Hersh, infatti, non solo dietro l’attentato c’è la mano di Washington, com’è abbastanza ovvio, ma i tedeschi lo hanno pure sempre saputo: eppure, muti. D’altronde le avvisaglie c’erano già: quasi ormai 10 anni fa scoppiava il caso delle intercettazioni USA nei confronti di Angelona Merkel; nel 2015, poi, wikileaks entrò in possesso di alcuni documenti che dimostravano come le intercettazioni USA andassero ben oltre quell’episodio, sia nello spazio che nel tempo. Le intercettazioni, infatti, risalivano a ben prima, ricoprendo tutta l’era del governo Schroeder e ancora oltre – a partire dall’amministrazione Kohl – e, in tutto, avrebbero riguardato qualcosa come oltre 125 utenze telefoniche di alti funzionari; ma la cosa ancora più inquietante è il sospetto piuttosto fondato che a collaborare con lo spionaggio USA ci si fosse messa direttamente anche la BND – l’intelligence tedesca – che quindi si confermerebbe essere poco più che uno strumento in mano agli USA per limitare l’autonomia e l’indipendenza delle cariche elettive tedesche. Il deep state tedesco, in soldoni, funzionerebbe a tutti gli effetti come una forza di occupazione che riferisce più a Washington che non a Berlino: sorvegliare una fetta consistente di classe dirigente è il prerequisito necessario per tenerla concretamente in pungo grazie all’arma del ricatto, perché tra le classi dirigenti dell’occidente globale in declino, rispettare pedissequamente la legge è più l’eccezione che la regola e – con la dovuta pazienza – chiunque, prima o poi, diventa vulnerabile.
Olaf Scholz, ad esempio, è invischiato in un losco affare di presunta corruzione che risale a quando era sindaco di Amburgo: è lo scandalo dei cum-ex, lo schema fraudolento che avrebbe permesso a una rete di banche e banchieri – legati a vario titolo a Scholz – di evadere qualcosa come 280 milioni di euro di tasse; “Lo scandalo cum-ex sottolinea il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism “è come una spada di Damocle che incombe sul cancelliere Scholz”. Il caso era tornato alla ribalta, infatti, nel gennaio scorso – e cioè nel periodo durante il quale Scholz si era dimostrato piuttosto titubante riguardo all’invio dei Leopard tedeschi in Ucraina; dopo poco Scholz cede, e anche la vicenda dei cum-ex sparisce dai radar fino ad agosto, quando – te guarda a volte il caso – Scholz di nuovo esprime qualche perplessità sull’idea di mandare nuovi armamenti. Ecco allora che sui giornali torna lo scandalo cum-ex e, nel giro di un paio di settimane, riecco Scholz che cambia idea. Questa volta, forse, una volta per tutte. Sosterremo l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” aveva infine dichiarato il 28 agosto.

Conor Gallagher

Ma se le trame oscure dello spionaggio e della corruzione sicuramente rivestono sempre un ruolo significativo, la scelta deliberata delle élite tedesche – come dice ancora Gallagher su Naked Capitalism – “di imporre il declino economico alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini” è di una portata tale che sarebbe un po’ superficiale pensare non vi siano ragioni strutturali profonde. Per dare un quadro esaustivo e scientificamente solido ci vorrebbe un lavoro che va un po’ oltre un video di Ottolina; proveremo a farlo un po’ a pezzi nei prossimi mesi. Intanto proviamo a mettere insieme un po’ di elementi. Primo tassello: a partire dalla fine degli anni ‘90 la Germania, che era – e ancora oggi continua ad essere – di gran lunga la prima potenza industriale del vecchio continente, ha applicato politiche salariali ultra – restrittive; per quanto, vista dall’Italia, ci possa sembrare un’affermazione un po’ paradossale, i lavoratori tedeschi guadagnano poco. Sicuramente guadagnano poco rispetto alla produttività, che aveva raggiunto ottimi standard proprio grazie all’azione dello stato sviluppista dei decenni precedenti. Le aziende tedesche, però, non si sono limitate a pagare relativamente sempre meno i lavoratori tedeschi, ma hanno ridotto ulteriormente il costo del lavoro delocalizzando in giro, a partire dal resto dell’Europa che è diventato, in buona parte, un continente di subfornitori dell’industria tedesca; grazie alla ristrettezza salariale e alle delocalizzazioni, le aziende tedesche hanno aumentato i margini di profitto: un’ottima occasione per investire ancora di più e reggere così la competizione dei paesi emergenti che, nel frattempo, stavano crescendo come treni. Macché; mentre i salari stagnavano e i profitti aumentavano, gli investimenti, invece, crollavano, come certificava – già nel 2014 – una celebre ricerca della fondazione Friederich Ebert, il think tank del partito socialdemocratico: “A partire dal 2000 la percentuale di investimenti rispetto al PIL in Germania è crollata in fondo alla classifica dell’eurozona, passando dal 21% del 2000, al 17% del 2013”. Nel 1992 era al 24%, 5 punti sopra la media dell’eurozona; gli investimenti in macchinari pesavano per oltre il 10% del PIL nel 1991: nel 2013 erano scesi sotto il 6%. Che fine facevano questi profitti? Semplice: scappavano. Come ha sottolineato recentemente anche il centro studi dell’OCSE, “a partire dai primi anni 2000, la Germania ha sperimentato un forte deflusso di capitali privati” e, in buona parte, scappavano prima di essere tassati – via paradisi fiscali.
Le banche tedesche s’erano proprio specializzate: come denunciava, già nel 2013, un’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists “Deutsche Bank ha aiutato i clienti a mantenere centinaia di entità offshore”; “L’unità di Singapore della più grande banca tedesca” riportava l’articolo “ha contribuito alla nascita di società e trust nei paradisi fiscali”; tutti soldini che mica rimanevano lì a fare la muffa, e indovinate dove andavano a finire? Ma nelle bolle speculative USA, ovviamente; e la Germania si impoveriva: se nel 2010 la sua ricchezza era il 5,7% della ricchezza complessiva globale, nel 2022 la quota era scesa a un misero 3,8% mentre il paese cadeva a pezzi. Perché se da oltre 20 anni gli investimenti privati languono, quelli pubblici proprio sono letteralmente scomparsi, e hanno pure iniziato prima. In questo grafico viene riportato l’andamento del valore complessivo degli investimenti fissi fatti dal pubblico:

la Germania è di gran lunga il paese peggiore tra i principali paesi occidentali – Italia compresa – e, tra il 2004 e il 2013, il valore complessivo delle sue infrastrutture pubbliche non si è limitato a rimanere al palo, ma è addirittura diminuito: non solo non costruivano nuove strade, o nuovi porti, o nuove reti di trasporto urbano; manco riuscivano a mantenere quelle che avevano.
E il furto continua: secondo una recente ricerca della Confederazione dei sindacati europei, dal 2019 ad oggi la quota destinata ai profitti rispetto al PIL complessivo in Germania è cresciuta addirittura del 6%, ma la quota degli investimenti non è cresciuta nemmeno di un centesimo; le élite tedesche stanno rapinando quello che rimane della loro economia reale per portarlo a far fruttare nel grande casino delle speculazioni finanziarie in dollari e lo fanno attraverso i paradisi fiscali, in modo da non lasciare a casa manco la quota destinata alle tasse. E’ del tutto normale quindi che, mentre la stragrande maggioranza della popolazione tedesca tocca con mano il declino, le élite economiche – e quelle politiche che rispondono solo ed esclusivamente a loro, magari abbellendo questa ferocia classista con un po’ di puttanate woke stile Annalena Braebock – molto semplicemente non vedano il problema; lo dimostrano in modo eclatante i sondaggi di Eurobarometro riportati, sempre dal buon Gallagher, su Naked Capitalism: a livello europeo, sottolinea Gallagher, “il 66% della classe operaia ritiene che la propria qualità di vita stia peggiorando, ma solo il 38% degli appartenenti alle classi superiori la pensa allo stesso modo” e riguardo alla guerra in Ucraina e alle sanzioni che sono seguite, continua Gallagher, “il 71% della classe operaia ritiene che li danneggi, ma solo il 40% della classe sociale più alta condivide questa prospettiva”. E a questa differenza di condizioni materiali, ovviamente, consegue una divergenza radicale di visioni politiche: come ricorda sempre Gallagher “solo il 35% della classe operaia ha fiducia nella commissione europea. Tra le classi agiate la fiducia sale al 68%”; idem nei confronti della Banca Centrale Europea: 33% contro 67%. Perché? Presto detto: con la ristrettezza monetaria la BCE uccide l’economia reale europea ma mantiene un euro relativamente forte; chi vive, in toto o in parte, di esportazione di capitali – ad esempio attraverso l’adesione a qualche fondo che investe nei mercati azionari USA – la morte dell’economia reale è un prezzo congruo da sostenere se, in cambio, gli si garantisce che i propri investimenti in dollari continuano a crescere di valore.
Invertire la rotta dell’economia europea sarebbe ancora possibile ma, per farlo, servirebbe il ritorno dello stato sviluppista: investimenti, spesa pubblica e integrazione con i grandi mercati emergenti. Troppa fatica; molto più semplice prendere i pochi soldi che rimangono e fuggire, mentre si fomenta la carneficina dei ragazzini ucraini sul fronte e lo sterminio dei bambini arabi nelle loro case: basta che il tutto sia green e gender friendly.
Prima che ti finiscano di rubare tutto, allora, un piccolo consiglio per gli acquisti natalizi e se, dopo che vi siete rivestiti di tutto punto, vi avanzano due eurini dalla tredicesima, il migliore investimento possibile lo sai già: aiutaci a costruire il primo media che, invece che alle puttanate dell’élite rapinatrice e globalista, dà voce agli zoticoni che fanno parte del 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Braebock