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Tag: corea del nord

Putin va in Corea del Nord e Vietnam: l’Asse della resistenza alla riscossa- ft. Giulio Chinappi

Oggi i nostri Clara e Gabriele hanno intervistato Giulio Chinappi dal Vietnam per parlare dell’odierna visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam. Il viaggio diplomatico è foriero di molti accordi: dal petrolio alle armi fino alla mutua difesa tra Russia e Corea del Nord in caso di conflitto militare. Sullo sfondo il gigante cinese e l’importanza strategica del Mar Cinese Meridionale per permettere a Pechino di aggirare un eventuale blocco navale nell’area organizzato dagli USA, con la complicità degli alleati locali (Filippine, Taiwan, Giappone e Corea del Sud). L’alternativa c’è ed esiste già: la Siberia, in cui Pechino e Mosca sono saldamente intenzionate a collaborare, e la costa siberiana che affaccia sull’Oceano Pacifico, fino alla rotta artica della Via della Seta sempre più favorita dallo scioglimento dei ghiacci. Buona visione!

#Putin #CoreadelNord #Vietnam #Asia #Cina #BRICS

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Il piano USA per sciogliere gli eserciti nazionali e fondare l’esercito unico dell’imperialismo

Come l’America si può preparare per la guerra in Asia, Europa e nel Medio Oriente: dopo tanto tergiversare, finalmente ci siamo. Con questo titolo, ieri, Foreign Affairs – che, ricordiamo, è la testa ufficiale del think tank neocon bipartisan in assoluto più influente degli USA – finalmente chiarisce il perimetro della partita in gioco: le guerre e i conflitti a cui stiamo assistendo sono pezzi dell’unica grande guerra che l’imperialismo ha dichiarato al resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare che metterebbe fine agli Stati Uniti per come li conosciamo oggi; “Sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e Joe Bidenscrive Thomas Mahnken della John Hopkins University, “la strategia di difesa degli Stati Uniti si è basata sull’idea ottimistica che gli Stati Uniti non avranno mai bisogno di combattere più di una guerra alla volta”. Mahnken ricorda con disprezzo la scelta dell’amministrazione Obama di ridurre, per la prima volta nella storia contemporanea degli USA, non solo la spesa militare in termini di percentuale del PIL, ma addirittura in termini assoluti: dai 730 miliardi annui del 2009 ai 640 scarsi del 2017, a fine mandato; questa riduzione, sottolinea Mahnken, equivaleva all’abbandono della politica di lungo periodo che prevedeva che gli USA dovessero essere pronti a combattere contemporaneamente due grandi guerre e questo, denuncia, “ha ristretto le opzioni a disposizione dei politici statunitensi, dato che impegnare gli Stati Uniti in una guerra in un luogo precluderebbe un’azione militare altrove”. Capito Obama, eh? Manco la libertà di combattere contro tutti ‘ndo cazzo je pare ha lasciato ai suoi successori: un vero despota. “Questo passaggio” si lamenta Mahnken “fu fuorviante già allora, ma è totalmente fuori luogo in particolare oggi” con gli USA che sono impegnati in una costosissima guerra per procura in Ucraina e nello sterminio dei bambini palestinesi proprio mentre si devono preparare alla Grande Guerra del Pacifico.

Thomas G. Mahnken

E non è che possono fare altrimenti: come ricorda Mahnken, infatti, questi 3 teatri “sono tutti vitali per gli interessi USA, e sono tutti intimamente interconnessi”. Mahnken sottolinea ancora come i tentativi passati di disimpegnarsi sia dall’Europa che dal Medio Oriente abbiano profondamente indebolito la sicurezza statunitense: “Il ritiro delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, ad esempio, ha creato un vuoto che Teheran ha riempito con entusiasmo” e ogni volta che una potenza regionale alza la cresta e gli USA tentennano nel portare a termine la loro missione divina di raderla al suolo, mandano un messaggio di debolezza al resto del mondo che mette a rischio la tenuta complessiva dell’impero; e già questa, sostiene Mahnken, dovrebbe essere di per se una linea rossa, dal momento che il mito dell’invincibilità militare USA – fondato sull’incommensurabilità della sua spesa con qualsiasi altra potenza del pianeta e sulla sua proiezione globale dovuta alle quasi 1000 basi sparse in giro per tutto il mondo, ma anche su quella gigantesca macchina di propaganda bellica che è Hollywood – è essenziale alla sopravvivenza stessa del feroce regime superimperialista che impongono a tutti gli altri e che oggi, per la prima volta, si trova di fronte ad avversari di tutto rispetto “che collaborano l’uno con l’altro: L’Iran vende petrolio alla Cina, la Cina invia denaro alla Corea del Nord e la Corea del Nord invia armi alla Russia”. Che, tutto sommato, come esempi di collaborazione non sono nemmeno sto granché, ma poco conta: come i padroni delle ferriere dell’800 – o come in qualsiasi film distopico su società post-apocalittiche rigidamente divise tra schiavi e schiavizzatori (modello Snowpiercer) – quando il sistema che imponi con la violenza è così palesemente e ferocemente ingiusto, ogni forma di collaborazione può essere sufficiente ad innescare l’incendio e va stroncata sul nascere, come ogni buona esperienza di repressione antisindacale insegna. La preoccupazione di Mahnken, quindi, è che il mito dell’invincibilità USA, già messo duramente alla prova dalla debacle siriana in poi, oggi sembra essere del tutto inadeguato ad affrontare con la sicurezza necessaria questi nuovi nemici, in particolare se in qualche modo coordinati tra loro; per dare nuovo slancio al mito dell’invincibilità, quindi, è necessario fare un salto di qualità sostanziale e questo salto di qualità può avvenire se e solo se la macchina bellica dell’imperialismo, invece che essere solo quella USA, può basarsi sempre di più su una rete di solide alleanze. La fortuna di Washington, sottolinea infatti Mahnken, è quella di avere buoni amici, sia nell’est asiatico, sia in Europa, sia in Medio Oriente, perché definirli vassalli (come essenzialmente sono) suona male, “ma per avere successo” insiste Mahnken, questi fantomatici amici “devono imparare a lavorare meglio insieme”: “Washington e i suoi alleati” continua Mahnken “devono essere ciò che i pianificatori militari chiamano interoperabili, capaci di inviare rapidamente risorse attraverso un sistema consolidato a qualunque alleato ne abbia più bisogno. L’Occidente, in particolare, deve creare e condividere più munizioni, armi e basi militari. Gli Stati Uniti devono inoltre formulare migliori strategie militari per combattere a fianco dei propri partner”. Insomma: come ripetiamo fino all’esaurimento da mesi, per combattere la guerra totale contro il resto del mondo c’è bisogno di una NATO globale, un esercito unitario al servizio dell’agenda imperialista; e se questa, ormai, è un’idea condivisa da tutte le varie fazioni, la declinazione che ne dà Mahnken in questo articolo appare particolarmente interessante per la sua spregiudicatezza.
Il primo punto, inevitabilmente, riguarda la produzione bellica: Mahnken sottolinea come i conflitti in cui siamo immersi e – ancora di più – quelli che ci aspettano, sono munitions-intensive, richiedono molte munizioni; per permettere alle aziende di aumentare la produzione allora, propone Mahnken, “Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fornire alle aziende della difesa il tipo di domanda costante necessaria” per garantire che gli investimenti avranno ritorni garantiti. In sostanza, quindi, il governo deve riuscire a convincere le oligarchie del comparto militare industriale che la guerra sarà sufficientemente lunga e devastante da garantire che per i loro prodotti ci sarà sempre domanda a sufficienza, ma non solo. Washington infatti, sostiene Mahnken, deve anche garantire che le munizioni potranno andare agilmente sempre laddove ce n’è più bisogno: oggi, infatti, i canali di approvvigionamento delle forze armate USA e degli alleati sono segregati, con le forniture interne controllate dal dipartimento di Stato e quelle altrui controllate dal dipartimento della Difesa (e con il primo che ha la precedenza sul secondo); i cosiddetti alleati quindi, denuncia Mahnken, “vengono generalmente messi in fondo alla coda, dove possono aspettare anni per ottenere armi che hanno già pagato e che potrebbero essere essenziali per scoraggiare attacchi imminenti”. Secondo Mahnken questa gerarchia va assolutamente superata: “Soddisfare le vendite di munizioni straniere prima di soddisfare le esigenze delle forze armate statunitensi” scrive “può sembrare dannoso per gli interessi americani […] ma consentire alle aziende della difesa di spedire a Taiwan o in Polonia prima di Fort Bragg quando necessario può migliorare la sicurezza degli Stati Uniti, soprattutto quando gli Stati Uniti non stanno combattendo guerre importanti”. E le munizioni sono solo la punta dell’iceberg: “Gli Stati Uniti” infatti, sottolinea Mahnken “hanno moltissime armi da vendere ai propri amici. Ma la riluttanza ad esportare tecnologie avanzate impedisce di fornire ai partner più stretti le migliori attrezzature disponibili. La politica statunitense” propone quindi Mahnken “dovrebbe garantire che i leader politici americani abbiano la possibilità di fornire tali sistemi avanzati agli alleati più stretti”.
Negli ultimi anni, in questo senso, gli USA effettivamente hanno già iniziato a rompere qualche tabù: ultimamente stanno completando un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di sistemi d’arma che, fino ad oggi, erano totalmente off limits, ma il caso più eclatante è quello degli accordi nell’ambito dell’AUKUS, che prevedono la condivisione nientepopodimeno che di tecnologia per i sottomarini nucleari con l’Australia. Ma non solo: grazie a questi accordi, Washington infatti ha dovuto prendere coscienza dei limiti della sua industria cantieristica, ha realizzato “che i produttori americani non sono abbastanza grandi o capaci per modernizzare la flotta sottomarina statunitense e al contempo costruire sottomarini per l’Australia” e questo ha spinto l’Australia “a investire 3 miliardi di dollari nell’espansione della base industriale sottomarina degli Stati Uniti”; questo tipo di condivisione totale, sostiene Mahnken, è l’unica strada che gli USA hanno per poter pensare di combattere contemporaneamente su tutti e tre i fronti della grande guerra globale contro il resto del mondo e ora si tratta di estendere a tutti gli alleati questa forma che più che di collaborazione, appunto, è di vera e propria integrazione totale a partire, come abbiamo sottolineato ennemila volte, dalla cantieristica giapponese e sud coreana, che sono l’unica chance che l’esercito unico dell’imperialismo ha di poter anche solo pensare di combattere ad armi pari con la Cina. “Israele” continua Mahnken “produce eccellenti sistemi di difesa aerea e missilistica, come l’Iron Dome, e la Norvegia mette in campo eccellenti missili antinave. Washington dovrebbe fare di più per incoraggiare questi alleati a condividere le proprie tecnologie di alto livello”; integrare queste capacità nazionali, ammette Mahnken, non sarà semplice: “L’industria della difesa” ricorda “è oggetto di politica interna, sia a Washington che nelle capitali alleate. Ecco perché, anche nelle aree in cui il Congresso ha cercato di promuovere la collaborazione, i funzionari della difesa si sono scontrati con ostacoli burocratici. Ci sono forti incentivi politici per mantenere intatte le barriere esistenti, a partire dalle preoccupazioni sui posti di lavoro nazionali, ma i funzionari statunitensi farebbero bene a resistere a tali pressioni ed eliminarle”.
Un discorso molto simile vale per le basi: gli Stati Uniti, ricorda Mahnken, “possiedono una rete globale senza precedenti di basi militari che gli ha permesso di proiettare il potere per oltre un secolo”; “Ma tutte queste basi”, sottolinea, “sono diventate sempre più vulnerabili, dal momento che gli avversari hanno acquisito la capacità di colpire con precisione su grandi distanze”. Per aumentare il livello di sicurezza dei propri asset militari, allora, USA e alleati devono aumentare a dismisura i posti a disposizione adeguatamente attrezzati dove dislocare liberamente truppe e mezzi: il Giappone ad esempio, sottolinea Mahnken, ha una quantità sterminata di location idonee per questo processo di dispersione, una quantità spropositata di “porti, aeroporti e strutture di supporto collegati alla rete stradale e ferroviaria giapponese”, ma secondo le regole attualmente in vigore, le forze armate giapponesi hanno accesso soltanto a una piccola frazione di queste location e gli USA, poverini, “ancora meno”. Questi vincoli, suggerisce Mahnken, devono essere rapidamente rimossi e altrettanto deve essere fatto urgentemente in Australia che, nella seconda guerra mondiale, si era dotata di una quantità sterminata di postazioni a disposizione della guerra USA contro il Giappone e che ora devono essere “rinnovate ed espanse” e, ovviamente, messe completamente a disposizione della NATO globale.
Insomma: l’idea è quella di avere una quantità di potenziali obiettivi superiore a quanti gli avversari possano realisticamente minacciare di attaccare con successo che, però, è una corsa piuttosto insensata, dal momento che se hai una base industriale sufficientemente sviluppata, è chiaramente più agile aggiungere un missile ipersonico al tuo arsenale che non costruire una nuova base; quindi in sostanza, com’è evidente, in un conflitto tra pari chi deve pensare a organizzarsi per disperdere la sua capacità offensiva rimarrà sempre un passo indietro rispetto a chi si limita a difendersi. Ed ecco allora che, oltre a moltiplicare le basi all’infinito, il punto è migliorare la capacità di difenderle; per farlo in modo efficace, le forze armate dell’imperialismo unitario “devono andare oltre l’approccio tradizionale alla difesa aerea e missilistica, che dipende dall’uso di un piccolo numero di intercettori costosi, verso uno che includa armi ad energia diretta (come laser o armi a impulsi elettromagnetici), un gran numero di intercettori a basso costo e sensori in grado di fornire le informazioni necessarie per sconfiggere attacchi grandi e complessi, come quello lanciato dall’Iran contro Israele in aprile” che, ricordiamo, è costato a chi s’è dovuto difendere circa 50 volte di più di quanto non sia costato a chi ha attaccato. “Australia, Giappone e Stati Uniti” ricorda Mahnken “hanno fatto progressi chiedendo lo sviluppo di un’architettura di difesa aerea e missilistica in rete per difendersi a vicenda”; ora, sottolinea Mahnken, si tratta di proseguire su questa strada anche perché, continua, a sua volta questo contribuirà all’interoperabilità complessiva, perché “addestrandosi e operando a stretto contatto tra loro in tempo di pace, le forze statunitensi e alleate svilupperanno abitudini di cooperazione che saranno loro utili in tempo di guerra”. Anche perché, insiste Mahnken, “interoperabilità significa molto di più che semplicemente condividere le risorse fisiche. Significa sviluppare concetti e strategie condivise. Washington deve avere conversazioni franche con i suoi alleati per contribuire a chiarire le ipotesi su obiettivi, strategia, ruoli e missioni e ottenere una migliore comprensione di come lavorare al meglio collettivamente. Gli Stati Uniti” conclude Mahnken “ovviamente non possono condividere tutto con i partner. Alcuni sistemi d’arma non dovrebbero mai essere condivisi. Ma la storia dimostra che gli americani ottengono risultati migliori quando combattono fianco a fianco con gli alleati. Mentre Washington si trova ad affrontare pericoli crescenti in tre regioni, deve imparare a cooperare e condividere meglio con i suoi numerosi amici”.
Insomma: Mahnken rappresenta al meglio la cultura dei figli dei fiori applicata al grande sterminio di massa che gli USA stanno preparando contro il resto del mondo per tenere in piedi il loro dominio planetario: vuole costruire una comune, solo che, invece che essere devota alla pace, deve essere devota alla distruzione totale; il messaggio sembra rivolto in particolare a chi, all’interno degli USA, continua a guardare con sospetto agli alleati temendo che i meccanismi di subordinazione finanziaria e tecnologica del superimperialismo, senza la minaccia della forza, da soli non bastino e che quindi condividere tecnologie, logistica e strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio e potrebbe permettere un domani agli alleati di ritagliarsi spazi di autonomia strategica finora preclusi. E’ uno dei grandi dilemmi che, evidentemente, attraversa l’establishment dell’impero: per vincere la grande guerra, l’imperialismo ha bisogno di un grande esercito e di un complesso militare industriale unitario, ma per costruire un grande esercito unitario gli USA devono accettare di passare da alleanze che dominavano con la forza, a un’integrazione totale nell’ambito della quale, sostanzialmente, tutto viene condiviso con tutti; affinché questo non gli si ritorca contro, deve essere sicura che l’equilibrio di potere che attualmente è in vigore nei paesi vassalli – dove il potere politico è completamente ostaggio di borghesie compradore al servizio del centro imperiale contro i rispettivi interessi nazionali – sia eterno. E la storia recente sembra dargli ragione: in particolare, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2007 e, ancora di più, dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, le classi dirigenti europee si sono dimostrate i peggiori nemici possibili dei rispettivi Paesi. Rimane però da capire quanto questo sia stato determinato, a sua volta, proprio dal fatto che i paesi europei sono disarmati e succubi della potenza militare USA o quanto, invece, siamo di fronte a una condivisione profonda degli obiettivi strategici del centro imperiale e, anche in tal caso, quanto questa condivisione possa essere messa in discussione dall’evoluzione del quadro politico.
Insomma: la grande guerra impone agli USA di correre dei rischi che, fino ad oggi, aveva evitato accuratamente impedendo ai vassalli di riarmarsi e tenendosi stretta il controllo tecnologico. Prima che restringano definitivamente i pochi spazi democratici che permettono – almeno in linea di principio – di modificare il quadro politico, sarebbe il caso di battere un colpo, almeno per far venire il sospetto che potrebbero aver sbagliato i calcoli; per farlo, in assenza di un’organizzazione politica all’altezza, il terreno di battaglia per eccellenza è proprio quello della battaglia contro-egemonica e per combatterla abbiamo bisogno di un media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Calenda

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