Come la Russia di Putin ha vinto la guerra economica contro l’Occidente collettivo. Un’altra volta.
“L’economia russa ancora una volta sfida i profeti di sventura”: ad affermarlo non è qualche nostro compagno di qualche lista di proscrizione, ma nientepopodimeno che l’Economist, la testata controllata dalla più filoatlantista delle grandi famiglie del capitalismo italiano: gli Agnelli/Elkann; dopo aver clamorosamente smentito le previsioni sul crollo del suo PIL innumerevoli volte, gli ultimi cavalli di battaglia della propaganda analfoliberale e russofoba sono stati a lungo la fantomatica inarrestabile ascesa dell’inflazione e, di pari passo, l’ancor più inarrestabile declino del rublo. Lo spettro dell’iperinflazione incombe su Putin mentre l’economia russa crolla titolava, già nell’agosto scorso, il sempre attendibilissimo Telegraph; “Il rublo russo è destinato a scendere costantemente oltre quota 100 rispetto al dollaro nel 2024” rilanciava ancora, nel novembre scorso, Reuters e per mesi, sulle nostre bacheche, siamo stati bombardati da analfoliberali – che, rispetto ai giornalisti di Telegraph e Reuters, c’hanno pure l’aggravante di farlo a gratis per pura passione – che si postavano i grafici dell’andamento del rublo e dell’inflazione annunciando l’ennesimo imminente catastrofico crollo del sanguinario regime putiniano; ora l’Economist certifica che è andata un po’ diversamente: siamo ormai al terzo mese del 2024, ma invece che oltre 100 rubli per comprare un dollaro, ne bastano 90 (prima del conflitto ne servivano 75).
Dopo tutto questo sciabolare di spade, la situazione si è conclusa semplicemente con una piccola svalutazione competitiva in perfetto stile italiano, almeno fino a quando la finalità era far crescere l’economia e non, esclusivamente, arricchire le banche e le oligarchie finanziarie; discorso simile anche per l’inflazione che, dal minimo del 3% nell’aprile del 2023, era cresciuta costantemente fino ad arrivare il picco del 7,5 nel novembre scorso e sembrava destinata a non fermarsi più, ma “Ancora una volta” sottolinea l’Economist “l’economia russa sembra aver smentito clamorosamente i pessimisti”: “I dati che saranno pubblicati il 13 marzo” e cioè oggi, scrive l’Economist, “ci si aspetta che dimostrino che i prezzi a febbraio sono saliti dello 0,6%, contro l’1,1% degli ultimi mesi dell’anno scorso”. “Molti previsori” ora, continua l’Economist, “prevedono che il tasso annuale scenderà presto al 4%, e anche le preoccupazioni delle famiglie sull’inflazione futura sono rientrate”. E graziarcazzo, aggiungerei: contro inflazione e svalutazione del rublo, infatti, la Banca Centrale era entrata a gamba tesa che più tesa non si può, innalzando i tassi di interesse fino al 16%.
Ma come, Marru, per amore di zio Vlad, dopo aver infamato per una vita i banchieri dell’austerity, ora ti metti a esaltarli? Non esattamente: il punto, molto banalmente, è che c’è inflazione e inflazione e quella russa, con quella che abbiamo vissuto noi, non c’azzecca proprio niente. Intendiamoci: anche da noi i banchieri centrali dicevano che bisognava alzare i tassi perché i salari stavano crescendo troppo; il problema è che, molto semplicemente, era una bugia e i nostri salari sono costantemente aumentati incredibilmente meno dell’inflazione arrivando, nell’arco di un anno, a fregarci sostanzialmente un intero stipendio. In Russia, invece, nell’autunno scorso l’aumento nominale dei salari – ricorda l’Economist – aveva raggiunto il 18% e, cioè, 10 punti in più dell’inflazione. Insomma: una volta tanto l’inflazione era trainata davvero dalla spinta dei salari e quindi, in quel caso, la risposta standard dell’aumento dei tassi di interesse non dico sia giusta, ma sicuramente è ragionevole; l’inflazione, infatti, in buona parte era dovuta al fatto che il maggiore potere d’acquisto dei lavoratori si era trasformato in maggiori consumi e, come spiega l’Economist, “La domanda di beni e servizi era cresciuta oltre la capacità dell’economia di fornirli, portando i venditori ad aumentare i prezzi”. “Tassi più alti” invece, continua l’Economist, “hanno incoraggiato i russi a mettere i soldi nei conti di risparmio invece di spenderli”.
Per capire invece se, oltre che ragionevole, la scelta di alzare i tassi sia stata anche giusta, va fatto un passettino oltre perché il punto, ovviamente, è se – oltre a contenere l’inflazione – l’aumento dei tassi innesca anche una recessione e, se innesca una recessione, chi la paga; e in Russia, molto semplicemente, la recessione non è arrivata, anzi! “La Russia” infatti, scrive l’Economist, “sembra avviata verso un atterraggio morbido, in cui l’inflazione rallenta senza deprimere l’economia. L’andamento dell’economia è ora in linea con il trend pre – invasione, e lo scorso anno il PIL è cresciuto in termini reali di oltre il 3%. La disoccupazione nel frattempo resta ai minimi storici. E non ci sono segni di difficoltà da parte delle aziende. Anzi: il tasso di chiusura delle imprese ha recentemente raggiunto il livello più basso degli ultimi otto anni” e siamo solo all’inizio: il Fondo Monetario Internazionale s’è dovuto adeguare all’evidenza e ha raddoppiato le previsioni di crescita per il 2024 al 2,6%; l’area euro e il Giappone, per intenderci, è previsto che cresceranno soltanto dello 0,9, l’Italia dello 0,7, la Gran Bretagna dello 0,6 e la Germania dello 0,5.
Ma come ha fatto il paese più sanzionato della storia dell’umanità a reggere botta? E cosa comporta la tenuta della Russia per le magnifiche sorti e progressive di quella che, come lamenta La Verità, nonostante tutte le evidenze i dittatori del politically correct ci continuano a vietare di dire che è una civiltà superiore? A suonare l’ennesimo campanello d’allarme, a fine febbraio, c’aveva pensato sempre l’Economist: Le sanzioni, titolava, non sono il modo per combattere Vladimir Putin. La prima enorme ondata di sanzioni aveva mostrato tutta la sua debolezza da tempo: subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina “La serie di sanzioni rivolte a una delle più grandi economie del mondo” ricorda l’Economist “era stata salutata come senza precedenti; e all’Economist stesso avevamo ipotizzato che lo shock che ne sarebbe derivato avrebbe potuto portare a una crisi di liquidità insostenibile e addirittura a un cambio di regime”. “La realtà” ammette onestamente l’Economist “si è rivelata drasticamente diversa”; “L’economia russa si è rivelata enormemente più resiliente del previsto, e il tentativo di imporre sanzioni molto meno efficace di quanto si sperasse”; “Subito dopo l’inizio della guerra, il FMI prevedeva che il PIL russo si sarebbe ridotto di oltre un decimo tra il 2021 e il 2023. Nell’ottobre dello scorso anno ha calcolato che in realtà in quel periodo al contrario la produzione è addirittura aumentata”, ma ancora più significativamente, continua l’Economist “La guerra ha dimostrato quanto velocemente il commercio globale e i flussi finanziari trovino un percorso per aggirare le barriere poste sul loro cammino”.
E’ un caso da manuale di come si diventa facilmente vittime della propria stessa propaganda: da anni ci prendiamo pesci in faccia perché sosteniamo che il mondo è già multipolare e che continuare a ragionare come se fossimo ancora nel mondo unipolare a trazione USA, per quanto sia ancora ampiamente la principale potenza esistente, sia ormai sostanzialmente irrealistico e velleitario; la propaganda suprematista del partito unico della guerra e degli affari continua a spacciare fake news e ad arrampicarsi sugli specchi per contestare questo semplice assunto e alla fine, a forza di ripeterselo tra di loro, va a finire che ci credono e ci fanno credere anche un pezzo consistente di classe dirigente, che fa scelte che non stanno né in cielo, né in terra. “L’Occidente” sottolinea l’Economist “aggiunge instancabilmente aziende e individui russi alle sue blacklist. Ma gran parte della popolazione mondiale vive in paesi che molto semplicemente le sanzioni occidentali non ha nessuna intenzione di applicarle, e c’è poco che possa impedire a nuove aziende di nascere e fare affari lì”; ed ecco così che se “anche le esportazioni dall’UE verso la Russia sono crollate, luoghi come Armenia, Kazakistan e Kirghizistan hanno iniziato a importare di più dall’Europa e sono misteriosamente diventati importanti fornitori di beni critici per la Russia” e questo, diciamo, è il primo episodio della saga e il finale, ormai, l’hanno dovuto accettare anche i propagandisti più spregiudicati, da Maurizio sambuca Molinari a Federico bretella Rampini.
Il secondo episodio della saga, allora, si apre con i guardiani della galassia analfoliberale che tentano di rilanciare: sono le cosiddette sanzioni secondarie, l’arma di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA attraverso le quali l’impero in declino cerca, da sempre, di imporre ai paesi più recalcitranti di allinearsi alla sua agenda geopolitica; con le sanzioni secondarie, infatti, gli USA non si limitano a perseguire direttamente il paese sanzionato, ma anche tutte le terze parti che continuano a intrattenerci rapporti violando la volontà del wannabe padrone del globo, uno strumento molto potente ed efficace che sta comportando un cambio di atteggiamento in diversi paesi, dall’Uzbekistan alla Turchia, passando anche per la Cina. “Ma anche queste pongono un altro problema” scrive l’Economist, perché “sebbene siano potenti, hanno effetti collaterali proibitivi”; l’efficacia delle sanzioni secondarie, infatti, si basa fondamentalmente su un elemento: il ruolo del dollaro come valuta di riserva globale e come valuta preferita per il commercio internazionale. Ogni istituto che opera con i dollari, infatti, deve avere un conto in una banca americana e con le sanzioni secondarie, se svolgono un qualsiasi ruolo in uno scambio commerciale sottoposto a sanzioni USA, questo conto – e quello che c’è sopra – possono essere bloccati: ed ecco così che, lo scorso febbraio, alcune delle principali banche turche e tre banche cinesi hanno annunciato ufficialmente ai propri clienti l’interruzione di ogni rapporto con Mosca; secondo alcuni scettici si tratta, più che altro, di operazioni di public relation. Come scrive il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, ad esempio, “Già a settembre il presidente del Kazakistan aveva rassicurato il cancelliere tedesco che il suo paese avrebbe attuato le sanzioni contro la Russia. Il giorno successivo, ha dichiarato che avrebbe sviluppato le relazioni commerciali con la Russia”.
Il punto è che ricostruire l’intera filiera delle transazioni commerciali, infatti, è più facile da dire che da fare; d’altronde, sono 30 anni che gli USA, per primi, incentivano il sistema finanziario globale a diventare sempre più opaco in modo da favorire la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali e, infine, verso le bolle speculative a stelle e strisce, e quella stessa opacità, ora, gli si ritorce contro: “Funzionari europei” riporta l’Economist “affermano che spesso sono necessari 30 passaggi lungo la catena finanziaria per risalire al proprietario di un conto bancario estero, dieci volte di più rispetto anche soltanto a dieci anni fa”. “Molti governi di paesi terzi” continua l’Economist “hanno un atteggiamento da laissez-faire nei confronti della violazione delle sanzioni, o addirittura la approvano tacitamente. L’Indonesia e gli Emirati Arabi Uniti sono nella lista grigia della Financial Action Task Force, un regolatore internazionale, in parte perché sono accusati di essere a conoscenza del cattivo comportamento delle banche locali. Alla domanda se gli Emirati Arabi Uniti ritengono che alcune delle sue 500 nuove aziende potrebbero eludere le sanzioni, un funzionario europeo alza le spalle: Lo sanno, eccome se lo sanno. Semplicemente, non gli importa”; in un mondo che, ormai, va ben oltre il giardino ordinato delle ex potenze coloniali e dove i 120 membri del movimenti dei paesi non allineati ormai pesano per il 38% del PIL globale, rispetto al 15% di 30 anni fa, le sanzioni occidentali, decreta l’Economist, “hanno costi sempre maggiori e benefici sempre inferiori”.
Ma ammesso e non concesso che, al di là degli slogan, le sanzioni secondarie siano davvero ancora implementabili, c’è un altro effetto collaterale che spinge a una certa cautela, perché se il nocciolo di tutto è il fatto che si usano i dollari per gli scambi commerciali, una soluzione possibile – appunto – è, molto semplicemente, smetterla di usare il dollaro. C’è già chi si è portato un bel pezzo avanti: lo scorso marzo, la Cina annunciava che – passando dai 434 miliardi di dollari di febbraio ai 549 miliardi di marzo – per la prima volta in tutta la storia gli scambi commerciali internazionali della Cina in yuan avevano superato quelli in dollari; una parte sempre più consistente riguarda, appunto, gli scambi commerciali con la Russia che, dopo la fuga delle aziende occidentali – per fare un esempio – è diventata il più grande importatore di auto cinesi al mondo: oltre 325 mila unità solo nel 2023, per un valore di oltre 4,5 miliardi di dollari – +543% in un anno.
L’altro grande partner commerciale della Russia è l’India: come ricorda sempre Gallagher su Naked Capitalism “Nei primi otto mesi dell’anno fiscale 2023/24 terminato a marzo, le esportazioni totali dell’India verso la Russia sono aumentate del 46,2%. Le importazioni del 54,8%”. Alla base di tutto ci sono le esportazioni di petrolio russo in India che vengono pagate, in buona parte, in rupie; siccome la rupia non è una valuta convertibile, i russi si sono ritrovati con montagne di rupie che non sapevano come usare: la soluzione? Importare più merci dall’India e pagarle con le rupie accumulate; già a fine 2022, così, la Russia ha condiviso con l’India un elenco di centinaia di articoli che desiderava importare, tra cui – elenca Gallagher – “pistoni, paraurti, cuscinetti e materiali di saldatura”. Gli indiani hanno colto la palla al balzo ed ecco così che, riporta Gallagher “Le esportazioni indiane di articoli tecnici verso la Russia sono cresciute dell’88% a dicembre, mentre nel periodo aprile – dicembre sono aumentate del 130%”; ora Russia e India stanno trattando per cominciare a usare, in parte delle transazioni, direttamente lo yuan. Insomma, le sanzioni secondarie stanno incredibilmente accelerando quello che è, in assoluto, il più grande degli incubi USA: la nascita di un sistema di scambi commerciali parallelo che non si fondi sul dollaro.
Ma la spinta definitiva verso la fine del dominio del dollaro e per la costruzione di un nuovo ordine monetario multilaterale non è l’unico risultato controproducente per l’agenda ideologica, ancor più che economica e militare, del neoliberismo made in USA; la guerra delle sanzioni, infatti, ha evidenziato anche un altro aspetto fondamentale: il socialismo e la pianificazione economica guidata dallo Stato funzionano, parecchio. E’ la conclusione alla quale arriva Martin Sandbu del Financial Times in un lungo e, a tratti, delirante articolo: Ci sono lezioni dalla crescita del PIL russo si intitola, ma non quelle che pensa Putin; “E’ un errore” scrive Sandbu, compiendo un’acrobazia logica veramente encomiabile, “derivare dalla crescita del PIL russo l’idea che le sanzioni abbiano fallito. Il ragionamento contro – fattuale corretto da fare sarebbe immaginare quanto male si sarebbe comportata l’economia russa in queste circostanze se fosse rimasta nella sua configurazione passata. In tal caso le conseguenze delle sanzioni sul PIL sarebbero state senz’altro maggiori”; e invece – te guarda alle volte il caso – la Russia, invece che lasciarsi asfaltare per tenere fede ai feticci ideologici del neoliberismo, una volta sotto attacco ha reagito trasformandosi radicalmente: “Mosca” scrive Sandbu “sta sfruttando una possibilità che le democrazie di mercato liberali ignorano: se si ignorano le ortodossie della politica economica, è possibile mobilitare risorse per obiettivi politici e, nel processo, spremere più attività reale da un’economia”. Quindi, in soldoni, le sanzioni avrebbero funzionato se la religione neoliberista avesse un qualche fondamento razionale, ma essendo una gigantesca puttanata creata ad arte solo per giustificare la gigantesca rapina effettuata dalle oligarchie nei confronti di chi lavora, purtroppo erano destinate al fallimento, soprattutto se – dall’altra parte – c’è una sorta di moderno principe machiavellico che, al contrario di quello che sborbotta confusa la sinistra delle ZTL (ormai completamente incapace di ragionare in termini di struttura economica) sarà cinico e feroce quanto vi pare, ma da quando è salito al potere ha avuto come suo obiettivo principale proprio quello di ridimensionare le oligarchie e accentrare il potere per modernizzare il paese e ridare alla Russia il ruolo che le spetta nella storia, un obiettivo che, come abbiamo sottolineato a suo tempo in questo video dal titolo “Il new deal di Putin”, non era riuscito a perseguire fino ad oggi e che è tornato ad essere alla sua portata proprio grazie all’entrata in vigore delle sanzioni. E’ abbastanza paradossale che tocchi a lui il compito di ricordarci una cosa che un tempo, quando da noi c’era la democrazia moderna – prima della controrivoluzione liberista e l’era della dittatura delle oligarchie finanziarie – davamo per scontata, e cioè che, come sottolinea lo stesso Sandbu, “mobilitare e destinare ingenti risorse a investimenti proficui è perfettamente fattibile”; ovviamente, sottolinea Sandbu, Putin è cattivo, mentre noi occidentali che – per Sandbu come per La Verità – siamo una civiltà superiore, invece siamo buoni e quindi, mentre lui pensa alla guerra, noi potremmo pensare a fini più nobili: dalla transizione ecologica alla lotta alle disuguaglianze. Ma, a parte questi distinguo, dovremmo comunque prendere coscienza della “sua capacità di raggiungere obiettivi economici indirizzati politicamente” perché “Come disse Keynes” conclude Sandbu “tutto ciò che possiamo effettivamente fare, possiamo permettercelo”; d’altronde era un limite di Keynes: non possiamo certo pretendere che non sia un limite di uno dei più importanti commentatori economici del Financial Times. Quello che a Sandbu – come a Keynes – sembra mancare, infatti, è un’idea realistica di chi detiene il potere per farci cosa, come se fossimo tutti riuniti democraticamente in un bel simposio dove vince chi ha l’idea migliore e non esistono i rapporti di forza; l’idea tutto sommato semplice e decisamente condivisibile che esprime Sandbu non fa più parte del dibattito pubblico perché le oligarchie, a partire da quelle che finanziano il suo giornale, ci hanno fatto la guerra e l’hanno vinta, e ci hanno imposto la loro religione alla quale, come tutti i sacerdoti che si rispettano, sono i primi a non credere, ma alla quale hanno costretto a credere tutti quelli che ne subiscono le conseguenze sulla loro pelle.
Per sperare di tornare ad imporla, bisogna mettere in conto un’altra guerra contro le oligarchie, e come vincerla: fa un po’ ridere che chi non ha idea non solo di come combattere questa guerra, ma della necessità stessa di combatterla, descriva con tono paternalistico chi – per sua stessa ammissione – la sta vincendo; noi un’ideina di cosa serve per combattere le oligarchie, in questi due anni, ce la siamo fatta e siamo convinti che, prima di tutto, serva un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Victoria Nuland